03 giugno 2021 17:21

Lo scorso 21 maggio, giorno del centesimo anniversario della nascita di Andrej Sacharov, il Norway Helsinki Committee ha assegnato il premio Sacharov per la libertà allo storico russo Jurij Dmitriev, motivando questa scelta con l’esistenza di un “filo diretto tra la lotta di Sacharov e quella di Dmitriev nella Russia odierna”. Al centro di uno dei casi giudiziari più importanti degli ultimi anni in Russia, fino al suo arresto, nel 2016, Jurij Dmitriev era noto solo a specialisti di storia del gulag e ai discendenti delle migliaia di vittime degli anni del grande terrore staliniano.

Nel 1997 Dmitriev e altri attivisti avevano trovato a Krasnyj Bor e Sandarmoch, due località boschive situate in Carelia, nella Russia occidentale, delle fosse comuni contenenti i corpi di più di settemila vittime dello stalinismo. Sandarmoch, in particolare, è diventata da allora un importante luogo della memoria del gulag, un “cimitero memoriale” con decine di monumenti e fotografie delle vittime sparsi tra gli alberi.

Tutto cambia il 13 dicembre 2016, quando Dmitriev viene arrestato con l’accusa di avere prodotto materiale pedopornografico e di detenere illegalmente armi da fuoco. Dubbi sulle accuse sorgono sin dal momento dell’arresto e spingono Memorial, la ong russa fondata da Sacharov e candidata al premio Nobel per la pace nel 2014 (di cui Dmitriev fa parte), a parlare di un caso montato. Decine di intellettuali, attivisti e semplici cittadini avviano una campagna di sostegno senza precedenti. A creare le basi di questo movimento d’opinione, oltre alle circostanze oscure relative all’arresto e al processo, concorre la decisione delle autorità di accreditare una teoria avanzata da due storici locali e mirata a sostenere che a Sandarmoch, oltre alle vittime di Stalin, ci siano anche i cadaveri di soldati dell’Armata rossa, uccisi dall’esercito finlandese durante la cosiddetta guerra di continuazione tra i due paesi, tra il 1941 e il 1944. La tesi, basata su ipotesi screditate dalla stragrande maggioranza degli storici e non supportata da alcun documento d’archivio, ridimensionerebbe quindi le responsabilità dello stato sovietico nei confronti di suoi concittadini. Nel giro di pochi mesi si decide di far condurre degli scavi nelle fosse comuni di Sandarmoch.

Al termine del processo, il 5 aprile 2018, Dmitriev viene assolto dalle accuse di creazione di materiale pedopornografico e condannato a due anni e mezzo per detenzione illegale di armi (l’accusa si riferisce a frammenti di un fucile fuori uso ritrovati nel suo garage): decisive le valutazioni di esperti indipendenti, che scagionano pienamente lo storico dall’accusa più infamante. A distanza di poche settimane, però, la sentenza viene cancellata dalla corte suprema della Carelia e viene avviato un nuovo processo sulla base di nuove accuse di abusi sessuali.

Il secondo processo si svolge sulla falsariga del primo, tra campagne di sostegno in Russia e all’estero e nuove rivelazioni capaci di gettare ulteriori ombre sull’impianto accusatorio: gli esperti indipendenti chiamati a valutare le accuse dichiarano che la figlia adottiva è stata costretta ad ammettere gli “abusi” (ovvero il gesto, da parte di Dmitriev, di constatare se la bambina avesse urinato) in un’atmosfera di pressione psicologica da parte degli inquirenti. Il verdetto, emesso il 22 luglio 2020, conferma di fatto l’inconsistenza delle accuse: Dmitriev viene nuovamente assolto dall’accusa di creazione di materiale pedopornografico e anche dall’accusa di possesso illegale di armi (che, peraltro, aveva confessato) e viene condannato a una pena di tre anni e mezzo per abusi. Un’assoluzione di fatto, visto che l’articolo per cui viene incriminato prevede una condanna minima a 12 anni.

Lultima speranza
La vicenda non termina qui, perché in appello la corte suprema della Carelia, per la seconda volta, cancella il verdetto della corte di Petrozavodsk, condanna Dmitriev a 13 anni di detenzione in una colonia penale e ordina un terzo processo per le accuse di creazione di materiale pedopornografico. La sentenza viene emessa mentre l’avvocato difensore di Dmitriev è costretto all’isolamento a causa del covid. Nonostante le richieste della difesa di posticipare il dibattimento, la corte assegna a Dmitriev un avvocato d’ufficio, a cui vengono dati tre giorni lavorativi per leggere le migliaia di pagine del caso. Alla lettura della sentenza Dmitriev, in collegamento video, viene zittito ogni qual volta si lamenti di non riuscire a sentire cosa viene detto.

Le numerose violazioni occorse durante il dibattimento spingono la difesa a fare appello alla terza corte di cassazione di Pietroburgo, che però conferma la sentenza della corte suprema della Carelia. Pur avendo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (le cui sentenze la Russia non è obbligata a rispettare), di fatto le speranze di Dmitriev – che affronta in questi giorni il terzo processo sulle accuse da cui è stato assolto due volte – sono appese a un filo. La difesa prepara l’appello alla corte suprema federale russa, che tuttavia non ha l’obbligo di prendere in considerazione il caso. Se dovesse rifiutare di farlo, l’ultima speranza sarebbe un atto di clemenza di Putin.

La vicenda di Dmitriev sembra suggerire che non ci sia più spazio per chi vuole ricordare senza filtri ciò che è successo

Il caso Dmitriev e gli scavi a Sandarmoch sono gli eventi più eclatanti della guerra della memoria sui gulag che viene combattuta in Russia da diversi anni. Il trauma collettivo delle repressioni sovietiche è stato tabù per decenni, e dopo un breve periodo di apertura a cavallo degli eventi che hanno sancito la fine dell’Urss, è diventato una presenza silente nella società russa fin quando, a partire dal 2012, lo stato ha deciso di occuparsene direttamente, lanciando una serie di iniziative, come il finanziamento del rinnovato museo della storia del gulag, la creazione di un Fondo della memoria e l’inaugurazione di un enorme monumento alle vittime del gulag, il Muro del dolore.

Parallelamente, gli attacchi alle ong che si occupano della memoria del gulag fin dalla loro nascita (tra cui Memorial), quasi tutte iscritte nel registro degli “agenti stranieri” in base a una legge del 2012 e multate di frequente, hanno evidenziato la volontà di mettere a tacere le voci indipendenti, incapaci di accettare quanto detto da Putin durante l’inaugurazione del Muro del dolore nel 2017: che il gulag è una pagina terribile del passato russo, che va certamente ricordata, ma evitando di fare i conti con il passato. Gli attacchi a Memorial, che ha pubblicato i nomi di decine di esecutori materiali di condanne a morte durante lo stalinismo, e a Dmitriev, che ha ripetutamente condannato pubblicamente lo stato sovietico per aver ucciso i propri cittadini, sembrano suggerire che non ci sia più spazio per chi vuole ricordare senza filtri ciò che è successo.

La “riscrittura” di Sandarmoch mirata a renderlo un luogo di memoria legato alla guerra, il revival dello stalinismo e il recente progetto mirato a riproporre l’utilizzo del lavoro forzato dei carcerati russi sulla Bam, la strada ferrata costruita principalmente dai prigionieri del gulag tra gli anni trenta e cinquanta del novecento, sembrano confermare che è in atto un tentativo, da un lato, di appropriarsi dello spazio della memoria del gulag, e dall’altro di proporre una visione più accettabile degli orrori sovietici.

Nella prefazione a un libro su cui ha lavorato in carcere e nei pochi mesi trascorsi in libertà tra un processo e l’altro, Dmitriev scrive di essere stato preso di mira perché propone un’idea diversa del rapporto tra cittadini e istituzioni in Russia: “Non l’individuo al servizio dello stato, ma lo stato al servizio dell’individuo”. Seguono circa 500 pagine di biografie di cittadini uccisi dal regime sovietico.

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