23 maggio 2018 16:06

La crisi finanziaria del 2008 ha creato un’incertezza economica e sociale che i paesi occidentali non sono ancora riusciti a superare – e anzi sembra aggravarsi dopo ogni elezione – ma che ha anche prodotto delle certezze: tra tutte, l’idea condivisa che il grande tema del nostro tempo sia quello delle disuguaglianze economiche e politiche tra gruppi sociali mai stati così distanti.

Oggi diverse analisi partono da un’idea schematica dei rapporti sociali: da una parte c’è il cosiddetto 1 per cento, un’élite ristrettissima di grandi manager, banchieri, amministratori delegati di una manciata di aziende, che da soli gestiscono più ricchezza degli altri gruppi sociali o perfino di interi paesi, che hanno creato sistemi astratti e diabolici per fare soldi e che – grazie ai rapporti privilegiati con i leader politici – hanno continuato ad arricchirsi mentre l’economia sprofondava. Un gruppo così distante dai bisogni del resto del mondo da sembrare una sorta di entità irreale. Dall’altra parte c’è il cosiddetto 99 per cento, quello che spesso è identificato genericamente con la classe media, o addirittura con “il popolo”, formato da chi è stato più duramente colpito dalla crisi e che a un certo punto, vista l’incapacità dei governi di alleviare le sue sofferenze, si è rivolto sempre più spesso a politici con messaggi distruttivi e reazionari.

Questo racconto si è imposto subito negli Stati Uniti e poi anche in Europa, e con il tempo è diventato il pilastro su cui si reggono non solo i vari movimenti che protestano contro le disuguaglianze ma anche le ricette politiche di chi cerca di trovare una soluzione al problema. Ma è possibile che si tratti di un’analisi sbagliata? E che, essendo sbagliata l’analisi, siano sbagliate anche le risposte che si è cercato di dare finora?

La classe media ha accumulato un potere economico, culturale e politico enorme per poi costruirci intorno una fortezza

Ne parlano due articoli usciti negli Stati Uniti in questi giorni. Il primo l’ha scritto il filosofo statunitense Matthew Stewart per l’Atlantic; il secondo, uscito su Time, è firmato dall’avvocato e scrittore Steven Brill. Entrambi fanno dell’autocritica. Stewart e Brill sono due uomini bianchi nati dopo la fine della seconda guerra mondiale da famiglie non particolarmente ricche, appartengono cioè alla cosiddetta generazione dei baby boomer, quella che ha beneficiato della crescita demografica ed economica più rapida della storia degli Stati Uniti. Dovrebbero essere la prova vivente dell’efficacia del sistema statunitense, fondato sulla meritocrazia e sulla mobilità sociale. In realtà, sostengono entrambi, le loro vicende descrivono la parabola di un gruppo che ha accumulato un potere economico, culturale e politico enorme per poi costruirci intorno una fortezza, e alla fine ha contribuito a far aumentare le disuguaglianze e a mandare in crisi la democrazia americana più di quanto abbiano fatto i super ricchi, il cosiddetto 1 per cento.

Stewart definisce questo gruppo, di cui lui fa parte, il 9,9 per cento. Secondo il filosofo la dicotomia dell’1 per cento contro il 99 per cento non funziona. Prima di tutto perché in cima alla piramide economica c’è in realtà lo 0,1 per cento, che nel 2012 era formato da circa 160mila persone e deteneva il 22 per cento della ricchezza nazionale degli Stati Uniti. È vero che lo 0,1 per cento ha continuato ad arricchirsi anche mentre l’economia collassava, e che ha potuto farlo grazie alla sua influenza sul sistema politico, ma non a spese di tutto il resto della società: a pagare il conto è stato il 90 per cento che si trova nella parte più bassa della piramide. In mezzo c’è, appunto, il 9,9 per cento, che detiene più ricchezza del 90 per cento e dello 0,1 per cento messi insieme, una ricchezza che di fatto non è stata toccata negli anni di crisi.

Chi fa parte di questo gruppo sociale? Secondo Stewart si tratta di avvocati, manager, medici e altri professionisti, “proprio il genere di persone che inviteresti a cena”. Sono quelli che secondo il mito americano dimostrano l’efficienza di un sistema fondato sull’istruzione di alto livello e su un mercato del lavoro aperto potenzialmente a tutti. “Parliamo di chi ha un patrimonio netto che va da 1,2 milioni di dollari a dieci milioni”. Amano definirsi “classe media” e parlare di come si sono fatti strada con la fatica e il sudore, “ma in realtà se gli metteste in mano un forcone non avrebbero idea di cosa farci”.

Soprattutto sono convinti di essere arrivati dove sono sfruttando al meglio gli strumenti messi a disposizione da un modello virtuoso e meritocratico, quando in realtà approfittano di un circolo vizioso che perpetua il loro potere economico e sociale e li rende, di fatto, la nuova aristocrazia americana. Come le aristocrazie del passato, anche questa non si è costruita semplicemente accumulando soldi, ma assicurandosi di avere accesso a ciò che di meglio offre la società in tutti i settori. “Noi del 9,9 per cento siamo persone con una buona famiglia, in buona salute, frequentiamo buone scuole, viviamo in bei quartieri, abbiamo buoni lavori”, scrive Stewart.

Boston, 1 luglio 2016. (John Tlumacki, The Boston Globe via Getty Images)

Come ai tempi dei Rockfeller, dei Vanderbilt e dei Carnegie, ancora oggi tutto parte dalla famiglia.“Siamo una nuova specie, e tutte le specie nascono da una storia d’amore o, meglio, dalla selezione sessuale”.

Oggi negli Stati Uniti il numero di matrimoni tra persone che hanno lo stesso livello di istruzione è il più alto dagli anni venti del novecento. Questo dato, unito al fatto che le rette universitarie per gli istituti d’élite continuano ad aumentare, ha l’effetto di tenere separati gruppi sociali diversi e quindi di far crescere ulteriormente le disuguaglianze, perché, come spiega Stewart, i dati dimostrano che c’è un legame diretto tra istruzione, solidità familiare e povertà.

Secondo un recente studio di Harvard, sessant’anni fa solo il 20 per cento dei bambini nati da genitori con un diploma liceale viveva in una casa con un solo genitore, mentre oggi quel dato è salito al 70 per cento; tra le persone che hanno frequentato l’università, invece, la percentuale scende al 10 per cento.

Inoltre, dal 1970 il tasso di divorzio è sceso in modo significativo nelle coppie dove entrambi i partner hanno una laurea, ed è aumentato notevolmente tra le persone con un diploma di liceo. Queste dinamiche hanno effetti a cascata sulle generazioni future: per un ragazzo cresciuto con un solo genitore e in ristrettezze economiche sarà sempre più difficile migliorare la propria condizione rispetto a quella della madre e del padre e avvicinarsi allo status di un suo coetaneo cresciuto in una famiglia della nuova aristocrazia. “La disuguaglianza, in pratica, ha trasformato il matrimonio in un bene di lusso, e la vita familiare stabile è diventata un privilegio che solo le élite possono trasmettere ai loro figli”, scrive Stewart.

Una volta combinato il matrimonio perfetto, il passo successivo dei nuovi aristocratici è stato trovare il posto perfetto dove vivere. Incrociando i dati economici con l’accesso ai servizi, sostiene l’autore, si scopre che il 9,9 per cento si è costruito per sé un paese all’interno del paese, un regno dove la ricchezza si tramanda tra le generazioni e dove le barriere d’ingresso sono altissime. La prima barriera è quella del mercato immobiliare. “Tra il 1986 e il 2016 a Boston, dove vivo, il valore delle case si è moltiplicato di sette volte, con un ritorno sull’investimento iniziale del 157 per cento. È successo lo stesso a San Francisco, a New York, a Los Angeles e in molte altre città”. Tutto questo è stato frutto di leggi che hanno imposto una serie di restrizioni allo sviluppo edilizio e hanno fatto salire i prezzi.

Così la ricchezza immobiliare si è concentrata nelle mani di pochissimi e chi non era in grado di sostenere quei prezzi è stato costretto a fare le valigie e a spostarsi in posti economicamente depressi, dove le opportunità economiche erano poche e i servizi scarsi. Alla fine questo processo ha creato di fatto una segregazione economica e culturale. “Nel mio quartiere benestante di Boston il 53 per cento degli adulti ha una laurea; se ci si sposta di poco a sud, in un quartiere più povero, la percentuale scende al 9”. E questo vale anche per tutti gli indici di benessere. “La vicinanza al potere economico è una forza di selezione naturale”, scrive Stewart. “In zone come la mia l’aspettativa di vita è più alta, ci sono reti sociali più sviluppate, meno criminalità”. Mentre è dimostrato che nelle zone isolate l’incidenza di obesità, stress, insonnia, solitudine e divorzi è più alta.

Questi dati, secondo il filosofo, smontano uno dei grandi miti della società americana. E cioè l’idea che chiunque, attraverso il lavoro e l’abilità, possa aprirsi una strada verso il successo o quanto meno verso una vita dignitosa. La mobilità sociale, in pratica, giustificherebbe le disuguaglianze. In realtà, come ha dimostrato l’economista Alan Krueger, succede esattamente il contrario: l’aumento delle disuguaglianze va di pari passo con la diminuzione della mobilità sociale. Secondo statistiche citate da Stewart, nel 2016 un americano con livello medio di ricchezza doveva aumentare il suo patrimonio di 12 volte per entrare a far parte del 9,9 per cento. “Su questo l’America di oggi somiglia a quelli degli anni venti del novecento”. Lo dimostra il fatto che nelle classifiche sulle opportunità di vita gli Stati Uniti sono molto più vicini a paesi come Cile e Argentina che a Canada e Germania.

La storia di Steven Brill
Era inevitabile che a un certo punto un gruppo con un potere economico e culturale così grande prendesse il controllo del sistema politico. Raccontando la sua storia su Time, Steven Brill spiega com’è andata. “Dopo il college sono andato alla scuola di legge di Yale, in un periodo in cui la richiesta di avvocati stava esplodendo. A metà degli anni ottanta l’industria legale valeva più di quella dell’acciaio e del tessile. I nuovi avvocati andavano a lavorare in massa per studi legali che difendevano gli interessi delle grandi aziende ed erano disposti a pagare salari altissimi. Ben presto il divario tra i salari del settore privato e di quello pubblico era così grande che nessuno voleva più lavorare per il governo, una dinamica che il professore di Stanford Robert Gordon ha definito ‘uno degli atti più antisociali della storia recente’”.

Questo succedeva mentre i soldi delle grandi aziende inondavano la politica statunitense, e serviva qualcuno che facesse da intermediario e si accertasse che i soldi fossero ben spesi: un esercito di avvocati come Brill si è trasferito in pianta stabile a Capitol Hill, e da allora la presenza dei lobbisti a Washington è aumentata costantemente (oggi ci sono circa venti lobbisti per ogni parlamentare). I risultati di queste pressioni sono stati esenzioni fiscali per i ricchi, sussidi alle industrie, indebolimento delle regole sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, leggi antisindacali, norme contro gli investimenti federali nelle scuole e nell’edilizia pubblica e altri provvedimenti che alla fine sono serviti a difendere la fortezza che circonda la nuova aristocrazia. Così si è cristallizzata una situazione di ingiustizia che oggi sta destabilizzando il sistema politico e sta erodendo la fiducia degli americani nella democrazia.

Oggi il cuore della base elettorale del Partito democratico è formata, paradossalmente, proprio dalla nuova aristocrazia

La questione delle disuguaglianze negli Stati Uniti, e in generale nel mondo occidentale, è dunque molto più complessa di come viene presentata. Ed è ulteriormente complicata dal fatto che oggi il cuore della base elettorale del Partito democratico, cioè della forza politica che dovrebbe essere la più determinata nella lotta alle disuguaglianze, è formato, paradossalmente, proprio dalla nuova aristocrazia di cui parla Matthews. Alle elezioni presidenziali del 2016 le contee che hanno votato per Hillary Clinton rappresentavano il 64 per cento del pil statunitense, contro il 36 per cento delle contee vinte da Trump; inoltre il valore medio degli immobili degli elettori del Partito democratico era di 250mila dollari, centomila dollari in più rispetto a quello degli elettori repubblicani. I sostenitori di Trump, infine, appartengono a segmenti sociali in cui l’incidenza di malattie e dipendenze è più alta e dove il livello di istruzione è più basso.

Come se ne esce? La storia degli Stati Uniti, sostiene Stewart, dimostra che le aristocrazie crollano a causa di eventi traumatici che costringono la società a ridistribuire le risorse economiche e a dare potere politico a gruppi emarginati. È successo con la guerra civile, nell’ottocento, che ha portato al declino di un gruppo sociale che fondava la sua ricchezza sulla schiavitù. Ed è successo dopo la grande depressione degli anni venti, che fece crollare l’economia e aprì la strada al New Deal di Roosvelt.

Stiamo andando verso qualcosa di simile? È probabile, visto che oggi il risentimento di chi resta fuori della fortezza nei confronti delle élite politiche ed economiche è ai massimi storici. Per evitare un conflitto sociale, sostiene Stewart, c’è bisogno di una ridistribuzione che può partire solo da interventi radicali del governo federale. “Negli Stati Uniti il governo crea monopoli e può distruggerli, può aprire la porta ai soldi in politica e può chiuderla, può trasferire potere dal lavoro al capitale e può cominciare a fare il contrario”.

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