31 gennaio 2018 14:54

Gentile bibliopatologo,
leggo la maggior parte dei libri in formato elettronico, e non solo per gli ovvi vantaggi (peso, costo, disponibilità immediata), ma per un’altra ragione: se mi trovo in un luogo pubblico, posso nascondere facilmente cosa sto leggendo. Io stesso sono sempre incuriosito da ciò che leggono gli altri, e mi perdo spesso in catene infinite di pensieri che vorrebbero spiegarmi perché quella tal persona (che non conosco minimamente) abbia scelto di leggere quel libro, forse nella speranza di intuire qualcosa della sua personalità. Che ne pensa?
– Edoardo

Caro Edoardo,
hai addosso una giacca, in questo momento? Di che foggia, di che colore? Lo so, sembrano le domande di un maniaco telefonico, ma giuro che non sto ansimando sulla cornetta, anzi ti invito a seguirmi passo passo su un castissimo sentiero argomentativo. Il punto di partenza è che i nostri vestiti sono una specie di sintomo nevrotico, una formazione di compromesso tra due spinte contraddittorie: la spinta a mostrarsi e la spinta a nascondersi.

Roland Barthes, nel suo libro sulla moda, parlava della “fondamentale ambivalenza dell’indumento, incaricato di indicare una nudità nel momento stesso in cui la nasconde”. A rigore l’idea non era sua, l’aveva presa dal freudiano John Carl Flügel, autore nel 1930 di una Psicologia dell’abbigliamento, ma il rigore in queste cose serve a poco: la paternità delle buone intuizioni è sempre dubbia, la saggezza è un pozzo a disposizione di chiunque voglia attingervi, e come Barthes aveva alle spalle Flügel, così Flügel era stato preceduto da Georg Simmel, che aveva scritto qualcosa di molto simile vent’anni prima in un saggio sulla civetteria:

Il rifiuto e l’occultazione si fondono qui, in un solo e medesimo atto, al richiamo e all’esibizione. Chi si adorna, anche parzialmente, ricopre o nasconde ciò che viene adornato; ma chi si ricopre o si nasconde richiama l’attenzione su di sé e sulle proprie attrattive. È per così dire una necessità ottica che il primo gradino dell’abbigliamento debba fissare la contemporaneità del sì e del no, che è poi la formula generale della civetteria.

La copertina sta al libro come l’indumento all’uomo, e non è un caso che in inglese si dica jacket quella che noi chiamiamo “sopraccoperta”. È come una giacca tagliata su misura per il libro, che può essere sobria o sgargiante, elegante o pacchiana, monocromatica o psichedelica. Jhumpa Lahiri, scrittrice americana di origini indiane, ha dedicato a questa analogia Il vestito dei libri, un volumetto che ha come copertina un gilet in tessuto spigato.

L’ambivalenza del coprire e dello svelare, dell’attirare l’attenzione con lo stesso gesto con cui la si storna, vale anche per i libri e per le loro copertine, chiamate a figurare nel gran teatro della vita sociale e a mettere in scena timidezze e civetterie, esibizionismi e imbarazzi. Guardati intorno. Cosa cerca di comunicare quell’uomo pallido e ombroso che, rincantucciato nel vagone di una metropolitana, non stacca gli occhi e gli occhiali dai Frammenti di Eraclito, avendo però cura che gli altri passeggeri, i profani e i dormienti, possano spiarne la copertina?

La sua posa ambivalente sembra dire che non ha bisogno di noi, che forse perfino ci disprezza; ma che, allo stesso tempo, non può fare a meno del pubblico dei disprezzati per veder riconosciuta la propria superiorità. Due spinte contrastanti trovano qui il loro compromesso. E dopo venticinque anni ho ancora bene impressa la scena della compagna di liceo desiderata da tutti che leggeva, ostentatamente assorta, Il diario segreto di Laura Palmer, la conturbante confessione di una teenager divisa tra sesso, droga e sciamanesimo: era un caso di scuola (superiore) di civetteria simmeliana, un morbido oscillare tra il sì e il no, un chiamare a raccolta gli sguardi e bloccarli sull’uscio.

La tua predilezione per i libri elettronici, che non hanno un vestito ma neppure sono nudi, segnala se non altro una voglia di passare inosservato, di non partecipare allo spettacolo quotidiano in cui tutti sono al contempo attori e spettatori. Il perché, solo tu puoi saperlo: io ti ho dato un bandolo per l’autoanalisi. Magari è solo inibizione. Magari leggi libri troppo imbarazzanti per essere mostrati (Allacciarsi le scarpe: un corso illustrato in dodici lezioni o Il clistere, il mio migliore amico). Magari – e torniamo alla domanda iniziale – hai paura che la sopraccoperta del libro distolga gli sguardi dalla tua giacca hawaiana a pappagalli fluorescenti.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it