01 marzo 2018 16:30

Gentile bibliopatologo,
ogni volta che comincio un libro si presenta questo scenario. I primi giorni mi immergo in una lettura appassionata. Poi, con lo scorrere delle pagine, eccomi di fronte al fatidico bivio: la perdita di interesse o il desiderio che non finisca mai. In qualunque direzione mi spinga il libro in questione, l’effetto è lo stesso: lo abbandono. Dove finiscono i libri?
–Giovanni L.

Caro Giovanni,
lo sapevi che Teresa d’Avila, da ragazzina, era stata una grande appassionata di romanzi cavallereschi? Sapeva immergersi in quelle storie d’armi e d’amori con mistico abbandono, e leggendo si dimenticava del mondo: “Giunsi anzi a tal punto d’infatuazione, che se non avevo sottomano un nuovo libro non mi pareva praticamente di vivere”. Ma le toccava leggere di nascosto dal padre perché per una donna del suo secolo, il sedicesimo, la lettura era considerata un’attività poco commendevole. Un’altra cosa sapeva fare, Teresa d’Avila: sollevarsi fisicamente da terra e restare sospesa a mezz’aria. E anche quella grazia avrebbe voluto riceverla in segreto:

Una volta avvenne quando stavamo tutte insieme nel coro e io ero in ginocchio, in procinto di ricevere la comunione. Ciò mi provocò un doloroso imbarazzo, perché lo ritenevo un evento straordinario e avevo paura che desse origine a troppi pettegolezzi.

C’è un nesso tra i due doni della santa, l’illusione letteraria e la levitazione? Errico Buonanno, che ha appena scritto Vite straordinarie di uomini volanti, suppone di sì. Gli uomini volanti di cui racconta sono “principi, villani, dottori di chiesa o miscredenti, che solcarono i cieli di un’Europa bambina” senza ricorrere a trucchi meccanici o ad ali posticce. Semplicemente, volavano. Alcuni finirono nelle segrete dell’Inquisizione; altri, schiantati al suolo. Per tutti il volo era un fenomeno spontaneo, una cosa che gli capitava e basta: “Sono difetti di natura”, diceva di sé il secentesco Giuseppe di Copertino, noto anche come Frate Asino, che una volta, senza volerlo, decollò perfino davanti al papa, con tutto che gli avevano espressamente proibito di volare in pubblico.

Le traiettorie degli uomini volanti di cui racconta Buonanno si intrecciano tutte nei cieli dell’Europa cristiana, dove il volo era uno stato di grazia che, in quanto tale, nessuno poteva estorcere al Padreterno. Qualche ora di aereo verso oriente e l’autore si sarebbe ritrovato in India, dove la levitazione è invece uno dei siddhi, i poteri che lo yogin può acquisire con l’esercizio ascetico. Insomma, laggiù sono convinti da millenni che si possa imparare a volare. E va bene, mi dirai tu, ma questo cosa c’entra con il mio problema? C’entra, caro Giovanni, c’entra. Il caso vuole che la formula più comune che usiamo per descrivere l’ingresso nel mondo immaginario di un romanzo, coniata da Coleridge, abbia una curiosa risonanza yogica: willing suspension of disbelief, ossia “sospensione volontaria dell’incredulità”. Sospensione sta qui per interruzione temporanea, ma la parola indica anche il restare a mezz’aria. La willing suspension è l’arte di chi si è addestrato, con disciplina, a lievitare: nella propria stanza o tra le pagine di un romanzo.

Il fenomeno degli uomini volanti, in Europa, si interrompe all’alba dell’illuminismo. Da allora, dice Buonanno, le cronache non lo attestano più. E per spiegarsi la coincidenza ricorre a Peter Pan e ai Giardini di Kensington: “Nel momento stesso in cui si dubita di poter volare, si perde per sempre la capacità di farlo”. Veniamo così alla tua domanda: dove finiscono i libri? Ti darò due risposte, una induista e una cristiana. Finiscono nel punto esatto in cui la tua concentrazione yogica vien meno, perdi i tuoi siddhi e non sai più tenerti in sospensione volontaria. E finiscono quando sei così rapito dal volo che ti viene il terrore di cadere dalla grazia – ma è segno che l’hai già perduta: come Pietro che, chiamato da Gesù a camminare sulle acque, s’impaurisce per la violenza del vento e per poco non annega. Uomo di poca fede, perché hai dubitato?

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