10 maggio 2018 17:49

Con l’uscita di Loro 2 si completa il film di Paolo Sorrentino sulla parabola berlusconiana. Io non posso definirmi un “sorrentiniano”, ma neanche un “antisorrentiniano”. Mi limito a fare una veloce riflessione. Il regista del Divo e della Grande bellezza ci invita a fare un giro nell’universo dell’ex presidente del consiglio. Pazienza se il film politicamente non è dirompente (anzi, visti i tempi, quasi meglio così), pazienza se Sorrentino ha deciso anche di non piegare il suo stile a chissà quali alte missioni. Semmai la forza del regista è proprio questa. Il suo film non può non incuriosire il pubblico italiano, magari con l’eccezione degli “antisorrentiniani”, ma anche loro dovrebbero andare a vederlo, se non altro per avere nuovi argomenti.

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Discutibile la scelta di dividere l’esperienza in due, dividendo la storia in due film. Senza voler azzardare paragoni a livello politico o storico, se siamo sopravvissuti ai 195 minuti di Warren Beatty su John Reed (Reds) e, soprattutto, visto che oggi siamo più poveri rispetto agli anni novanta, prima cioè dei quattro governi Berlusconi, i circa 200 minuti di Loro 1 e di Loro 2 li avremmo visti volentieri in una sola sbigliettata. E se dovessimo decidere, per motivi di tempo, di denaro o insomma per qualche motivo, di vedere solo uno dei due film? Qualche anno fa, senza che nessuno se ne accorgesse, proiettarono The tree of life di Terrence Malick con il primo e il secondo tempo invertiti. Quindi forse meglio vedere prima il secondo tempo e, semmai, tornare a vedere il primo. Del resto Gianni Agnelli, quando andava a vedere la Juventus allo stadio, usciva sempre all’intervallo. Insomma è soggettivo. Io forse sceglierei di vedere prima il 2 e poi eventualmente l’1, perché sono più solidale con il pubblico della Cineteca di Bologna, che con l’avvocato.

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Si parla molto di Iran. Purtroppo non per il nuovo film di Asghar Farhadi, Todos lo saben, che ha aperto il festival di Cannes raccogliendo giudizi tiepidi, né per Il dubbio. Un caso di coscienza di Vahid Jalilvand, presentato a Venezia, che arriva adesso nelle sale. Il cinema iraniano ha una grande forza. I suoi migliori autori, tra cui citerei Jafar Panahi e anche Asghar Farhadi (ma ce ne sono altri), sono capaci di raccontare in modo sincero (e molto convincente a livello cinematografico, anche se con stili diversi) quello che succede nel paese, e, come ho già scritto anni fa, dell’Iran non ne sappiamo mai abbastanza.

Il dubbio. Un caso di coscienza racconta di un medico che accidentalmente investe una famiglia (padre, madre e figlio) con l’automobile. Il medico, che sembra una persona per bene, fa parte di quella che si può definire una classe ricca e privilegiata, mentre i tre investiti sono dei disgraziati. Inizialmente, almeno, sembrano illesi, ma poi, il giorno dopo, il bambino muore. La morte è attribuita a cause che non hanno niente a che fare con l’incidente, ma il medico si chiede se sia davvero così. Magari non è pienamente riuscito, ma Il dubbio andrebbe visto anche solo perché ci avvicina un po’ a una società e una cultura lontane.

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In uscita anche due divertenti commedie italiane: una più sociale, Si muore tutti democristiani, diretto dal Terzo segreto di satira; l’altra più demenziale e virtuosistica, Tonno spiaggiato di Matteo Martinez, con Frank Matano.

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