24 maggio 2018 23:12

La verità è che ormai siamo fregati. Dopo quasi tre trilogie più un prequel è praticamente impossibile decidere di non vedere Solo. A Star Wars story e che tutto sommato non c’interessa sapere come Han Solo si è fatto un nome nella galassia lontana lontana. Quindi tutti pronti per l’ennesimo “strike back”. Tanto più che lo sceneggiatore è Lawrence Kasdan che è salito sul Millenium Falcon all’epoca dell’Impero colpisce ancora e che alla regia c’è Ron Howard che conosce George Lucas dai tempi di American graffiti.

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Sono ripartiti da una singola battuta che un giovane Harrison Ford rivolgeva a uno sconcertato sir Alec Guinness nella celebre taverna di Mos Eisley. È a questo che bisogna prepararsi, perché la exploitation della saga ideata da George Lucas è solo all’inizio. Oltre a quello di Han (interpretato da Alden Ehrenreich) ritroviamo altri personaggi familiari come il wookiee, Chewbecca, e Lando Calrissian (Donald Glover). Nel cast anche Woody Harrelson, Thandie Newton ed Emilia Clarke.

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Hotel Gagarin, di Simone Spada, è una commedia in cui si parla molto di sogni e di felicità. Per mettere le mani sui soldi di un finanziamento, un truffatore (Tommaso Ragno) si finge produttore cinematografico e mette insieme una troupe di polli. Nicola (Giuseppe Battiston), un professore di liceo appassionato di cinema è l’autore del copione che ha ottenuto il finanziamento europeo, fondamentalmente perché si svolge in Armenia. Intorno a lui, una faccendiera d’accordo con il truffatore (Barbora Bobulova) raccoglie la troupe, improbabile e improvvisata: la diva (Silvia D’Amico), un elettricista (Claudio Amendola) e un direttore della fotografia (Luca Argentero). S’imbarcano per l’Armenia con l’idea di aver colto un’occasione per cambiare vita.

In uno sperduto hotel in mezzo alla neve i loro sogni sembrano spezzarsi. Ma come ricorda un misterioso personaggio locale (interpretato da Philippe Leroy) la parola crisi, in cinese, vuol dire anche opportunità. Spada, al suo esordio anche se ha un lunghissimo curriculum come assistente alla regia, sfrutta molto bene il bel cast. Barbora Bobulova (che non ha bisogno di presentazioni) e Caterina Shulha (già vista in Smetto quando voglio e La vita possibile di Ivano De Matteo) dimostrano che le attrici che arrivano dall’est sono una bella risorsa del nostro cinema. Come del resto è una risorsa Silvia D’Amico, romana, versatile, brava.

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Di un altro cosmonauta (successivo a Gagarin) e, in qualche modo, di sogni parla anche Sergio e Sergei del regista cubano Ernesto Daranas. Sergio, professore di filosofia dell’Avana, marxista convinto e radioamatore, entra casualmente in contatto con Sergei, cosmonauta russo parcheggiato a oltranza sulla Mir dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il curioso rapporto che si crea tra i due, accomunati da una convinzione nell’utopia comunista messa a dura prova dagli eventi (in primis la caduta del muro di Berlino), offre a Daranas l’occasione per una riflessione a momenti anche amara su un mondo e un’epoca scomparsi per sempre.

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Per finire due film francesi, entrambi importanti. Il primo è Mektoub, my love. Canto primo di Abdellatif Kechiche. Nell’estate del 1994 Amin, un giovane aspirante sceneggiatore di origini nordafricane che vive a Parigi, torna nel sud della Francia per una vacanza estiva. Là ritrova amici e parenti, una comunità aperta e serena. Amin è timido e partecipa poco. Un po’ come se osservasse quel presente da un futuro molto meno allegro e aperto. Il film, presentato a Venezia, ha alimentato, curiosamente soprattutto in Francia, una strana polemica sul “voyeurismo” di Kechiche. Metterei da parte la polemica e mi concentrerei sull’intenso film dall’autore di La schivata e La vita di Adele, che è assurdo liquidare (qualcuno l’ha fatto) come un pretesto per filmare giovani corpi.

Arriva in sala anche Monparnasse. Femminile singolare, ritratto di una trentenne anticonformista (Lætitia Dosch) che cerca di sbarcare il lunario a Parigi. Con questo film, al festival di Cannes 2017, l’autrice Léonor Serraille ha vinto la Caméra d’or, premio riservato alla migliore opera prima.

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