Il 13 aprile 1975 a Beirut alcuni uomini armati a bordo di un’auto spararono dei colpi d’arma da fuoco contro un gruppo di persone, tra cui il leader del partito falangista Pierre Gemayel, che stava assistendo alla consacrazione di una chiesa. Qualche ora dopo i falangisti cristiani di Gemayel uccisero trenta palestinesi. È l’inizio della guerra civile libanese, che si concluse ufficialmente solo il 13 ottobre 1990.

Si stima che 120mila persone morirono nel conflitto e circa un milione di libanesi furono costretti ad abbandonare le loro case. Ancora oggi ci sono 76mila sfollati. Nei primi anni settanta le tensioni politiche e sociali innescate dalla crescente presenza nel paese dei guerriglieri palestinesi e dall’affermazione di nuovi movimenti politici e sociali legati alle diverse religioni avevano portato alla formazione di milizie rivali. La violenza crescente aggravò la contrapposizione tra le comunità dei cristiani maroniti e dei musulmani. La guerra portò alla divisione della capitale Beirut lungo una “linea verde”, con la zona ovest riservata ai musulmani e quella est ai cristiani. Molti apparati statali, compreso l’esercito, si disintegrarono in varie componenti su base confessionale.

La guerra coinvolse anche paesi stranieri, primi tra tutti la Siria, che nel 1976 lanciò un’invasione su larga scala del Libano, e Israele, che fin dall’inizio fornì armi e finanziamenti alle milizie cristiane che combattevano contro i palestinesi e nel 1982 cominciò l’occupazione del sud del paese. Nel marzo del 1978 fu dispiegata la forza militare di interposizione delle Nazioni Unite. Tra gli episodi più sanguinosi della guerra civile ci fu il massacro compiuto dalle milizie falangiste cristiane – con la complicità dell’esercito israeliano – nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila tra il 16 e il 18 settembre del 1982, in cui morirono almeno ottocento civili.

Le immagini di Gabriele Basilico (1944-2013) sono state scattate nel 1991 a Beirut, alla fine della guerra civile. Insieme alla scrittrice Dominique Eddé, il fotografo era stato coinvolto in un progetto che aveva lo scopo di documentare le devastazioni nel centro della città.

“Quando mi ha chiamato sembrava disperato, continuava a ripetere che non era un fotografo di guerra. Poi un giorno Eddé lo ha portato in cima all’Holiday Inn e per la prima volta, da quella prospettiva, ha capito che la città era viva e che solo la sua pelle era stata profondamente martoriata”, racconta la photo editor e curatrice Giovanna Calvenzi.

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