10 novembre 2020 17:05

Teju Cole è stato in Svizzera per la prima volta nel 2014. Era stato invitato per una residenza artistica nel comune di Interlaken. “La Svizzera non era una meta che avrei scelto spontaneamente. Tutti pensano che sia un paese pulito, efficiente e noioso. Ma quando sono arrivato lì la prima volta, mi sono subito innamorato del blu del lago e della vertiginosità delle montagne”, dice lo scrittore, fotografo ed ex critico fotografico del New York Times.

Da allora Cole è tornato in Svizzera molte volte, per cinque anni, visitando ogni parte del paese, che per lui è diventato quasi un’ossessione, oltre che il luogo dove ha capito il modo in cui avrebbe voluto fotografare. “Anche se ammiro fotografi come Henri Cartier-Bresson, Paolo Pellegrin o Alex Webb, mi sono reso conto che non era il tipo di approccio che volevo seguire. Quello in cui organizzi un complesso campo visivo e aspetti che qualcuno entri in questo campo, per fermare quel magico momento decisivo, dove tutto sembra avere un equilibrio”, spiega.

Cole vuole rivolgere la sua attenzione alle scene ordinarie: “Ho cominciato a pensare all’idea che lo spazio può emanare una forza basata sulla quintessenza della tua visione come fotografo. E ho riflettuto sul lavoro di fotografi come William Eggleston, Stephen Shore, Guido Guidi e Joachim Brohm”.

Da questi viaggi è nato un racconto, scattato in pellicola a colori, di una Svizzera priva di presenza umana, ma ricca delle tracce lasciate dalle persone. Le immagini sono state raccolte nel libro intitolato Fernweh, una parola tedesca che indica il desiderio di essere altrove. Il volume è stato pubblicato dalla casa editrice Mack.

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