Se Luka Love avesse conservato i suoi bitcoin, oggi sarebbe milionario. Nel 2010 Love 25 anni, viveva a Melbourne, in Australia, e aveva lasciato l’università. Un amico gli aveva fatto leggere un documento di un misterioso sviluppatore noto come Satoshi Nakamoto che spiegava come una nuova valuta digitale avrebbe trasformato il commercio su internet. “Mi sembrava una cosa geniale”, racconta. All’epoca si potevano comprare 12 bitcoin con un dollaro, e Love cominciò subito a comprare e spendere criptovaluta online. Sfortunatamente, nonostante la sua lungimiranza, non ha conservato nemmeno una moneta digitale. Se lo avesse fatto, lo scorso novembre, quando la quotazione del bitcoin è arrivata a 90mila dollari (un dollaro neo­zelandese vale 0,61 euro), avrebbe potuto vendere 12 bitcoin a più di un milione di dollari. “Vorrei prendermi a schiaffi per non essermeli tenuti”, ammette.

In seguito Love ha tentato altri investimenti. Dopo aver guadagnato “un sacco di soldi” come impiegato in una società di selezione del personale in Australia, ne ha persi molti investendo in alcuni fondi colpiti dalla crisi finanziaria globale. Poi ha mancato la bolla successiva, quella immobiliare. Ora Love, che ha 37 anni e sta studiando per prendere il diploma in ingegneria meccanica all’università di Waikato, in Nuova Zelanda, dice che non può permettersi una casa di proprietà. In compenso, forse è arrivato in tempo per la prossima bolla speculativa.

Circa tre anni fa Love ha incontrato Geoff Simmons, responsabile economico e leader dell’Opportunities party, che gli ha spiegato il concetto dell’Emissions trading scheme (Ets), il sistema usato dalla Nuova Zelanda per scambiare quote di emissioni di gas a effetto serra. “È stata una folgorazione”, racconta Love.

L’Ets è il principale strumento di cui si è dotato il paese per rispettare gli obiettivi climatici. Il sistema fissa un prezzo sulle emissioni di gas serra (anche se il metano prodotto dagli animali da allevamento, che rappresenta quasi la metà delle emissioni neozelandesi, al momento non è incluso). Per ogni tonnellata di gas a effetto serra prodotta, un’azienda deve comprare e poi cedere una “unità di emissione”, comunemente nota come credito di carbonio: sostanzialmente, un’autorizzazione a inquinare.

L’obbligo ricade sul punto più alto della filiera: importatori di petrolio e carbone, aziende di estrazione del carbone, produttori di gas e acciaierie, che ne trasferiscono il costo sui consumatori. Per contro, chiunque pianti un albero può incassare un credito dallo stato e rivenderlo agli inquinatori. Tutti, infine, possono comprare crediti di carbonio, esattamente come si comprano titoli in borsa.

Affascinato dalla prospettiva di combattere il cambiamento climatico – e magari di guadagnare qualche soldo – Love ha rimesso in moto il cervello. Usando un’app ha comprato dei fondi della borsa neozelandese basati interamente sui crediti di carbonio. Può sembrare un investimento strano, come quello in criptovalute, ma nell’ultimo anno il valore dei crediti di carbonio è più che raddoppiato. Dopo più di dieci anni di stagnazione, dall’inizio del 2021 al febbraio 2022 il prezzo di un credito è passato da 37 a 86,25 dollari. “È una cosa incredibile”, dice Love.

Quasi nessuno se l’aspettava. Fino a poco tempo fa, l’Ets era poco compreso e quasi completamente ignorato. Ultimamente, però, investitori e speculatori – banche, società di trading energetico, fondi d’investimento e Luka Love – hanno cominciato ad accumulare crediti di carbonio, scommettendo su un rialzo del prezzo con la prospettiva di vendere e capitalizzare. Gli effetti a cascata si sono avvertiti non solo sull’economia neozelandese, ma anche sull’atmosfera e sul paesaggio, con i proprietari terrieri che stanno tappezzando il paese di pini, potenzialmente per secoli. Comincia a essere chiaro chi sono i vincitori e gli sconfitti della politica climatica del paese.

La prima asta

Alle nove del mattino del 17 marzo 2021, James Shaw ha suonato la campana della borsa della Nuova Zelanda, lanciando la prima asta di crediti di carbonio del paese. La presenza del ministro per il cambiamento climatico nel cuore del sistema finanziario del paese è il simbolo di come la Nuova Zelanda ha deciso di tagliare le emissioni di CO2: affidandosi alle forze di mercato della domanda e dell’offerta.

Non è stato sempre così. Nel 2008, quando l’Ets è stato creato, il governo aveva fissato un prezzo massimo per i crediti di carbonio. All’inizio il tetto era di 25 dollari, tale da determinare un aumento di sei centesimi sul prezzo di un litro di benzina. Gli emettitori potevano comprare un numero illimitato di crediti a quel prezzo ed erano liberi anche di comprarne dai piantatori di alberi o dall’estero. Una decina di anni fa un’ondata di crediti “spazzatura” di dubbia integrità provenienti dalla Russia e dall’Ucraina ha fatto crollare il mercato. Nel 2013 il prezzo ha toccato il minimo storico di 1,45 dollari. Nel 2015, una volta terminato lo scambio di crediti dall’estero, il prezzo ha cominciato lentamente a risalire, ma il limite di 25 dollari rimaneva. Nel 2018 un rapporto della commissione per le attività produttive scriveva che l’Ets era stato “inefficace nell’indurre una riduzione significativa delle emissioni”. Era un eufemismo: le emissioni erano rimaste invariate.

Nel 2021 il governo ha completamente rivisto il sistema e ha abolito il prezzo massimo. Ora le aziende devono competere per una base fissa di crediti che sono messi all’asta dal governo quattro volte all’anno. La base di crediti si restringe ogni anno in linea con gli obiettivi climatici del paese, creando le condizioni per un aumento dei prezzi.

Il governo, tuttavia, si è riservato una quota di controllo per evitare impennate improvvise. Se i prezzi aumentassero troppo velocemente, le imprese non avrebbero il tempo di adattarsi ad alternative più verdi e non potrebbero far altro che comprare crediti e assorbirne il costo o scaricarlo sui consumatori. Perciò ogni asta prevede un prezzo limite. Se il prezzo di un credito supera i cinquanta dollari, il governo può inondare il mercato fino a un massimo di sette milioni di crediti per stabilizzarlo. Il tetto serve a far in modo che i prezzi “non aumentino fino al punto di avere gravi conseguenze sulle famiglie e sull’economia”, si legge in un documento, e dev’essere abbastanza alto da “essere toccato raramente, preferibilmente mai”. In realtà, in primavera il tetto è stato sforato.

Alla prima asta, nel marzo 2021, il prezzo si è attestato a 36 dollari. All’asta di giugno è balzato a 41,70 e poi a settembre ha sfondato il tetto dei 50 dollari. Il governo ha inondato il mercato con tutti e sette i milioni di crediti a sua disposizione, ma l’asta ha chiuso comunque a 53,85 dollari. David Hall, ricercatore sul cambiamento climatico della Auckland university of technology (Aut), ha definito questo esito “molto problematico”, osservando che il prezzo dell’Ets non aveva reagito come previsto, probabilmente a causa di comportamenti speculativi. All’ultima asta dell’anno, senza più strumenti di controllo a disposizione del governo, il prezzo ha raggiunto i 68 dollari. Poi ha continuato a crescere. All’Ets erano spuntati i denti.

Alle 4 del mattino del 4 ottobre 2020, Murray Simpson ha sentito squillare il telefono. Era il vicino, che gli ha detto di guardare fuori dalla finestra. Un muro di fiamme alto trenta metri stava spazzando via la pineta accanto alla sua fattoria, illuminando la notte di una spettrale luce arancione. “Pensavo che saremmo stati cancellati dalla faccia della Terra”, ricorda Simpson. Simpson, 68 anni, è un uomo alto quasi due metri e ha una corporatura da manovale. Da 45 anni lavora a Balmoral, un allevamento di pecore di cinquemila ettari in mezzo ai cespugli d’erba, nel distretto di Waitaki. All’inizio allevava incroci di razze e merino, cambiando le greggi nel corso degli anni in funzione del calo della domanda di lana pregiata. Poi è arrivato un nuovo tipo di agricoltura.

Nel 2013 la New Zealand Carbon Farming ha comprato la proprietà confinante, Fairview, e ci ha piantato 1.326 ettari di pinus radiata, o pino di Monterey. Questi alberi non saranno mai abbattuti. Non sono stati piantati per produrre legname, ma per i crediti di carbonio. Sono la specie preferita dai carbon farmer (coltivatori di carbonio): non sono costosi da piantare, crescono rapidamente quasi ovunque e permettono di accumulare crediti più velocemente rispetto a qualsiasi altro albero. Dopo dieci anni un ettaro di pini è in grado di catturare fino a 296 tonnellate di carbonio; con le colture autoctone se ne tratterrebbe circa un terzo.

Simpson dice che il primo problema che ha avuto con il suo nuovo vicino sono stati gli animali parassiti: ogni notte una trentina di cervi uscivano dal bosco e venivano a sfamarsi nella sua fattoria. Per tenerli lontani ha dovuto mettere un recinto. Quindi c’è stato il problema dell’acqua. Il bosco è stato piantato accanto ai grandi affluenti del fiume Kakanui, e secondo Simpson gli alberi li prosciugavano, riducendo la portata del fiume e danneggiando gli agricoltori a valle. In base ad alcuni studi, piantare pini può ridurre i flussi d’acqua fino all’80 per cento.

Con l’aumento del prezzo del carbonio, in molte zone il carbon farming è diventato molto più redditizio delle attività agricole tradizionali

Poi è arrivato l’incendio. In una notte ventosa, un albero è caduto sui cavi dell’alta tensione provocando una vampata che in pochi minuti si è propagata per tutta la foresta di Fairview. Simpson dice che non c’erano fasce antifuoco per rallentarla, e alle cinque del mattino le fiamme hanno raggiunto la sua proprietà, bruciando un capanno pieno di macchine agricole e avanzando verso la casa. Simpson e la moglie hanno preso le foto del matrimonio e sono scappati. Fortunatamente, i vigili del fuoco sono riusciti a domare l’incendio prima che inghiottisse anche la casa, ma i terreni sono stati completamente bruciati.

Pini di due anni piantati a Dannevirke, Nuova Zelanda (Mark Coote, Bloomberg/Getty Images)

A febbraio, quando sono andato a intervistare Simpson, Balmoral era ancora circondata da tronchi anneriti. L’incendio ha distrutto quasi la metà della foresta di Fairview. Parte degli alberi è stata abbattuta e ripiantata, ma in altri punti sono state semplicemente interrate nuove piantine tra le file di alberi carbonizzati. “Ora c’è un sacco di benzina per il prossimo incendio, vedrai”, dice Simpson. “È solo questione di tempo”. Sei mesi dopo l’incendio, Simpson ha scoperto che anche i 2.590 ettari di Hazeldean, l’allevamento ovino e bovino dall’altro lato della sua proprietà, erano stati venduti alla New Zealand Carbon Farming. Presto sarebbe stato circondato da foreste permanenti. A Hazeldean le piantine di pino erano già a state messe a dimora: piccoli steli verdi tra i cespugli dorati. “Questo paesaggio non esisterà più”, dice Simpson. “Dio sa quante centinaia di anni ci vorranno perché torni com’era”. L’anno scorso Simpson ha venduto la proprietà e si è trasferito a Ōamaru, dove dice che il traffico gli dà ai nervi. Ha fondato un movimento per impedire che altre zone di campagna spariscano sotto un tappeto di pini. “Non voglio che tra dieci anni mi dicano: ‘Perché non ci hai avvertito?’”.

Una conversione dannosa

L’Ets è stato creato per incoraggiare il rimboschimento, e per ottimi motivi: il ruolo delle foreste è fondamentale per raggiungere gli obiettivi climatici. Nel 2019 gli alberi hanno ridotto di un terzo le emissioni nette della Nuova Zelanda, e per compensarle ulteriormente la commissione per il cambiamento climatico ha raccomandato di piantare entro il 2035 altri 380mila ettari di foresta esotica (e 300mila di foresta autoctona): più del doppio della superficie dell’isola Rakiura-Stewart. Con l’impennata del prezzo del carbonio, gli incentivi per la forestazione sono notevolmente aumentati.

Le foreste esotiche permanenti sono il modo più redditizio di guadagnare crediti di carbonio. Se la foresta è abbattuta, gran parte dei crediti dev’essere ceduta al governo, a compensazione delle emissioni rilasciate quando gli alberi si biodegradano o bruciano. Se invece non viene abbattuta mai, può continuare ad accumulare crediti per decenni. Ogni credito può essere venduto per ricavarne un profitto. Con l’aumento del prezzo del carbonio, in molte zone del paese il carbon farming è diventato molto più redditizio delle attività agricole tradizionali. Secondo un documento di consultazione pubblicato recentemente dal governo, le foreste esotiche permanenti garantiscono rendimenti più alti rispetto alla produzione forestale e “molto più alti rispetto all’allevamento ovino e bovino”. Se il prezzo del carbone arrivasse a 110 dollari, scrive il rapporto, il carbon farming potrebbe “competere con le attività casearie meno produttive”.

Gli agricoltori, i silvicoltori e gli investitori hanno preso nota. Nel 2021 un rapporto commissionato dalla Beef+Lamb New Zealand ha stimato che un terzo delle aziende agricole vendute stavano per trasformarsi in foreste per la cattura del carbonio, e questo prima che il prezzo salisse alle stelle. Un’analisi del ministero delle industrie primarie sui grandi silvicoltori ha riscontrato che tra il 2019 e il 2021 la superficie destinata alla foresta esotica era quasi raddoppiata, arrivando a toccare i 45.300 ettari. Quasi un quarto di questa superficie era dedicata alla cattura del carbonio. Nel frattempo, le colture locali languono: l’anno scorso i silvicoltori hanno pianificato di piantare solo settecento ettari di “alberi autoctoni a fusto alto” e 5.100 ettari di mānuka.

Nessun altro sistema di scambio di quote di emissioni al mondo prevede incentivi alla forestazione come quello neozelandese, che permette ai coltivatori di accumulare crediti illimitati. Nel sistema di scambio dell’Unione europea, per esempio, la forestazione non è neanche nominata. A quanto pare, quest’anomalia ha attirato l’interesse degli investitori stranieri. Nel 2018 il governo ha approvato una “sperimentazione speciale” che autorizza gli investitori stranieri a comprare terreni agricoli sensibili (sottoposti a tutela per varie ragioni) senza l’obbligo di dimostrare i benefici che trarrebbe la collettività (un requisito che invece non è aggirabile quando si comprano terreni sensibili per altri scopi).

Secondo Radio New Zealand, alla fine del 2021 erano stati venduti a compratori stranieri 212.346 ettari. Una contessa austriaca ha rilevato un allevamento vicino a Masterton per farne una pineta. L’Ikea si è aggiudicata un allevamento ovino e bovino di 5.500 ettari nello sperduto Catlins, mentre il colosso delle assicurazioni tedesco Munich Re ha comprato grandi lotti di terreno vicino a Gisborne e al Southland. L’anno successivo all’introduzione della riforma, il prezzo dei terreni sull’isola del Nord è raddoppiato.

La nuova normativa, in teoria, vale solo per le terre comprate per produrre legname. Alcuni esperti, tuttavia, sono convinti che quando arriverà il momento di tagliare gli alberi, fra una trentina d’anni, la normativa non sarà applicata e le piante resteranno al loro posto.

Keith Woodford, professore emerito della Lincoln university, in Nuova Zelanda, osserva che alcuni di questi terreni sono troppo ripidi per abbattere gli alberi in modo economicamente efficiente, e sospetta che siano stati acquistati solo per i crediti di carbonio.

Regione di Otago, Nuova Zelanda (Byvalet/Alamy)

Occupazione a rischio

Diverse associazioni, da Forest and bird a Federated farmers, hanno espresso preoccupazione per le conseguenze della forestazione delle campagne. Alcune comunità rurali sentono minacciata la loro sopravvivenza e temono che non ci sarà lavoro in una foresta destinata a non essere mai abbattuta. Secondo un rapporto, l’83 per cento dei pascoli di Tairāwhiti potrebbe essere trasformato in foresta permanente, mettendo a rischio diecimila posti di lavoro. Poi va considerato l’impatto ambientale. Gary Taylor, amministratore delegato dell’organizzazione non profit Environmental defence society, sostiene che il carbon farming “farà disastri per più di 150 anni” e che con la crescita e la caduta degli alberi “il valore paesaggistico subirà un danno su scala industriale”. Un’altra paura ancora è che l’Ets non porterà a un reale taglio delle emissioni, con i grandi emettitori che si limiteranno a piantare più alberi per rispettare gli obblighi previsti invece di ridurre la dipendenza dai carburanti fossili. Alcuni tra i maggiori inquinatori del paese – Air New Zealand, Contact Energy, Genesis Energy e Z Energy – hanno costituito una società chiamata Dryland Carbon che prevede di acquistare ventimila ettari da forestare entro cinque anni. Nel 2020 l’azienda è stata autorizzata a piantare una foresta permanente di un milione di pini a sud di Gisborne.

Nel 2021 la commissione neozelandese per il cambiamento climatico ha lanciato un allarme su questi incentivi, sottolineando che l’Ets rischia di favorire la messa a dimora di più foreste di quante ne servono davvero al paese. Quindi la commissione ha raccomandato al governo di rivedere la normativa entro la fine dell’anno. Ora il governo è passato all’azione. A marzo l’esecutivo ha annunciato che sta valutando se escludere le foreste esotiche dalla categoria Ets di “foresta permanente” utile per l’acquisto di crediti (un’eccezione potrebbero essere le foreste convertite alle colture autoctone). Anche le norme sugli investimenti esteri stanno diventando più restrittive. Alla fine di febbraio il governo ha annunciato che la “sperimentazione speciale sulla forestazione” non si applicherà più ai progetti di conversione: gli investitori dovranno dimostrare che l’acquisto dei terreni su cui vogliono piantare gli alberi porterà benefici al paese, esattamente come per qualsiasi altro terreno sensibile. Queste misure, però, rischiano di arrivare tardi. Nessuno si aspettava una simile impennata del prezzo del carbonio.

In cerca di soldi facili

A marzo ho cercato “CO2” su un’app d’investimenti e ho trovato il Carbon Fund, una società quotata alla borsa neozelandese che investe quasi esclusivamente in crediti di carbonio della Nuova Zelanda. Sfruttando un’offerta di registrazione gratuita e un credito di cinque dollari, ho comprato una quota di un credito di carbonio. Mi è bastato scorrere il pollice per diventare uno speculatore nell’Ets. Quando è stato lanciato, nel 2018, il Carbon Fund era la prima entità del genere al mondo. All’inizio non aveva destato grande interesse, ma a marzo la sua capitalizzazione di mercato ha sfiorato i cento milioni di dollari.

Quintin Tahau è il direttore di emsTrade­point, una piattaforma per lo scambio dei crediti di carbonio di proprietà della Transpower, l’azienda statale che distribuisce l’energia elettrica. Secondo le sue stime, circa un terzo del mercato del carbonio è composto da speculatori. Tra questi ci sono grandi società d’investimento e trader globali dell’energia. “Le società di trading internazionali, che sono dei colossi, stanno manifestando grande interesse per il mercato neozelandese del carbonio”, dice Tahau. “Se dai un’occhiata all’andamento dei prezzi nell’ultimo anno capirai perché”.

Nel 2018 la commissione sulle attività produttive precisava che il prezzo del carbonio avrebbe dovuto attestarsi fra i 30 e gli 80 dollari entro il 2030 se il paese voleva raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette nel 2050. La soglia degli 80 dollari è stata già superata nel febbraio 2022. Per spiegare questo aumento improvviso, alcuni hanno puntato il dito sugli speculatori. Radio New Zealand ha scritto che il sistema è stato “preso di mira dagli speculatori in cerca di soldi facili”. Keith Wood­ford ha sottolineato che alle aste per i crediti di carbonio il governo si è ritrovato “disarmato davanti agli investitori istituzionali” e che “alcune delle più grandi aziende neozelandesi sono entrate nella partita”. Secondo l’esperto di governance dei mercati del ministero dell’ambiente Dan Tulloch, però, alcuni di questi investitori forniscono effettivamente un servizio. Le banche e altre istituzioni offrono contratti a termine alle aziende per aiutarle a bloccare il prezzo del carbonio per obbligazioni future. Gli speculatori, aggiunge, contribuiscono a far funzionare il mercato in maniera efficiente aumentando il numero dei compratori e dei venditori. Sono 277 le aziende costrette a comprare crediti nell’Ets, e i cinque importatori di petrolio del paese pesano per quasi la metà del mercato obbligatorio.

Ivan Diaz-Rainey, professore di finanza all’università di Otago e fondatore del Climate and energy finance group, che studia i mercati del carbonio nel mondo, dice che la speculazione “sta sicuramente avendo un ruolo” nell’impennata dei prezzi. Gli speculatori, osserva, stanno comprando titoli che potrebbero aumentare di valore quando le imprese affronteranno il problema del cambiamento climatico, tra cui i crediti di carbonio. Ma non pensa che sia un male, almeno non ancora. “Per molto tempo il carbonio è stato sottovalutato”, dice. “Di fronte a un prezzo di 200 dollari è normale chiedersi se sia una valutazione realistica, ma in questo momento credo che sia un bene. Cominciano a esserci forti incentivi a decarbonizzare”.

Scambi di quote
Andamento globale
Mercati delle quote di emissione di gas serra, dollari per tonnellata di CO2 equivalente (fonte: the economist-Bloomberg, refinitiv)

Secondo il ministero dell’ambiente, un prezzo del carbonio a 75 dollari sarebbe un incentivo a tagliare le emissioni della produzione di energia elettrica del 70 per cento, perché renderebbe il carbone svantaggioso. La compagnia energetica Genesis Energy si sta già preparando a sperimentare il biocarburante a Huntly, dove c’è l’unica centrale a carbone del paese. A un prezzo di 60 dollari, ai produttori caseari dovrebbe convenire usare il biocarburante per i bollitori invece del carbone.

Anche se nel 2021 il prezzo del carbonio è raddoppiato, resta comunque una componente marginale dell’aumento del costo della vita. A un prezzo unitario di 80 dollari, l’Ets determina un rincaro della benzina di circa 20 centesimi al litro. Complessivamente, il tesoro stima che un prezzo del carbonio di 75 dollari faccia aumentare di circa 6,80 dollari alla settimana la spesa di una famiglia di medio reddito. Se la Nuova Zelanda spera di raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050, il prezzo dovrà crescere molto di più: secondo la commissione per il cambiamento climatico, 130 dollari entro il 2030 e 250 dollari entro il 2050.

I rischi delle speculazioni

Matt Walsh e Bruce Miller sono due agricoltori improbabili. La loro esperienza ha più a che fare con gli uffici e l’aria condizionata che con la lana e gli stabilimenti caseari. Insieme, però, gestiscono più terreni di ogni altro coltivatore in Nuova Zelanda. Prima di lavorare in un’azienda agricola Miller è stato a lungo nel settore bancario: ha cominciato alla National Bank di Hamilton per poi andare a fare il trader di materie prime e derivati alla Bankers Trust International di Londra negli anni novanta. Quando è tornato in Nuova Zelanda si è occupato dei primi contratti sui crediti di carbonio per la Mercury, un’azienda energetica. Walsh, invece, ha passato vent’anni in varie start­up tecnologiche e delle telecomunicazioni in Nuova Zelanda e nella Silicon valley e alla fine ha avuto un’illuminazione: fondare la prima azienda di carbon farming del paese. Miller e Walsh hanno costituito la New Zealand Carbon Farming nel 2010. L’azienda compra e affitta terreni – spesso da allevatori di ovini e bovini –, li rimboschisce e poi vende sul mercato i crediti di carbonio, soprattutto attraverso contratti forward (con pagamento a una data futura) con i grandi emettitori di CO2. Tra i suoi clienti ci sono la Fonterra, la Mercury e le principali compagnie petrolifere. Tra terre di proprietà e in affitto, l’azienda possiede 102mila ettari, che comprendono anche le fattorie di Fairview e Hazeldean, nella Waitaki valley.

Compensazioni
Settore in espansione
Quota delle emissioni globali di gas serra coperte dal mercato dei crediti di carbonio (fonte: financial times-banca mondiale)

Walsh e Miller rispediscono a Murray Simpson le accuse che fa alla loro azienda: gli incendi, i parassiti, la perdita di posti di lavoro. Secondo Walsh, le foreste non sono l’anticamera di una catastrofe ambientale, perché saranno gestite in modo responsabile e riconvertite in colture autoctone. I siti, spiega, sono stati attentamente selezionati per la vicinanza ad alberi autoctoni esistenti che arricchiscono i terreni di semi. Dopo una decina d’anni, una parte dei pini sarà abbattuta per ricavarne biocarburante, e al loro posto saranno piantati alberi autoctoni. Nel giro di un secolo, anche i pini rimanenti saranno sostituiti da piante autoctone. “Oggi avremo il carbonio che serve per salvare il pianeta e domani le foreste autoctone che tutti vogliono”, dice Walsh.

Secondo Murray Simpson è molto improbabile che una foresta autoctona possa rigenerarsi nella campagna secca ed esposta al sole di Hazeldean. “Le uniche cose che ricrescono da quelle parti sono la ginestra e il ginestrone”. Un rapporto del ministero dell’industria primaria ammette che non ci sono ancora prove sufficienti che il passaggio dai pini agli alberi autoctoni riesca. Le zone più adatte alla rigenerazione, si legge, sono quelle con piogge abbondanti, piante autoctone e pochi parassiti.

Quanto all’incendio, Walsh dice che la proprietà era attrezzata contro il rischio di roghi, con tanto di fasce tagliafuoco. Lui e Miller contestano anche l’accusa di aver distrutto l’occupazione, ribattendo che la loro terra garantisce almeno lo stesso numero di posti di lavoro dell’agricoltura e della silvicoltura (l’azienda ha cinquanta dipendenti a tempo pieno e duecento collaboratori a contratto). Anche in questo caso, i dati disponibili sono contrastanti. Secondo un rapporto del 2020 della PwC New Zealand le foreste di carbonio garantiscono due posti di lavoro ogni mille ettari, contro i 17 dell’allevamento e i 38 della produzione forestale. Secondo Walsh, tuttavia, l’analisi non tiene conto dell’indotto proveniente dall’attività di rigenerazione.

La domanda fondamentale è se la New Zealand Carbon Farming – o chiunque possiederà le foreste – avrà le risorse per contrastare i parassiti e piantare alberi autoctoni in un arco di cento anni. I crediti accumulati da una foresta a lungo andare si riducono perché gli alberi invecchiano e assorbono meno carbonio. Proprio per questo, un rapporto sull’impatto potenziale del carbon farming a Tairāwhiti sostiene che le aziende in futuro avranno difficoltà anche a pagare le tasse sulla proprietà in base ai valori catastali attuali. Tra l’altro, i proprietari che si trovano in questa situazione non possono semplicemente passare a una nuova coltivazione: se gli alberi sono abbattuti, tutti i crediti di carbonio devono essere ripagati.

Quando le foreste diventano un’attività in perdita, chi paga il conto? È un modello che si basa sulla fiducia. Walsh dice che l’Ets prevede sanzioni fino a cinque anni di reclusione e multe salatissime se le foreste non sono gestite in modo corretto. Secondo il ministero dell’ambiente, tuttavia, non ci sono sanzioni in caso di mancata transizione dai pini permanenti agli alberi autoctoni. In ogni caso, quando si saprà se la foresta si sarà rigenerata o no, Miller e Walsh non ci saranno più.

Alla metà di aprile controllo il mio investimento e mi torna in mente Luka Love, che ancora si dispera per aver perso il treno di Bitcoin. Sono sotto di 16 centesimi. Alla metà di febbraio il prezzo dei crediti di carbonio è crollato in tutto il mondo per le turbolenze del mercato dovute alla guerra in Ucraina e alla crisi del carburante: a quanto pare, i grandi emettitori di CO2 avevano bisogno di liquidità e hanno venduto parte delle loro quote. In Nuova Zelanda il calo è stato più contenuto – da un picco di 86,25 dollari a meno di 70 dollari in neanche un mese – poi il prezzo ha cominciato a risalire. Alla prima asta dell’anno, il 16 marzo, ha superato di nuovo i 70 dollari. Ancora una volta il governo ha inondato il mercato con i suoi crediti di riserva ma, a differenza del 2021, non tutti sono stati venduti. L’asta ha chiuso a 70 dollari. Ora non si sa cosa succederà. “L’anno prossimo potremmo scendere a cinquanta dollari o salire a 150. Non scommetterei né sulla prima né sulla seconda opzione”, dice Diaz-Rainey.

Anche l’effetto delle nuove norme introdotte dal governo è tutto da valutare. Le consultazioni sulla proposta di escludere le foreste esotiche dall’Ets si sono concluse. La Beef+Lamb New Zealand ha chiesto al governo di andare avanti e di limitare la quantità di emissioni che è possibile compensare piantando alberi. La commissione parlamentare per l’ambiente aveva fatto una raccomandazione simile nel 2019. Anche il ventilato inasprimento delle regole sugli investimenti esteri potrebbe rallentare la diffusione dei pini in Nuova Zelanda. Ma il sistema a cui il governo sta affidando la soluzione del problema più urgente della nostra epoca presenta ancora tante incertezze.

Luka Love non si scoraggia. “Non intendo vendere ora”, dice. “Per me è un investimento a lungo termine, vado avanti per la mia strada”. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati