La caduta del regime sanguinario di Bashar al Assad è stata accolta con entusiasmo, ma anche da una serie di dubbi e preoccupazioni sul futuro della Siria. Come si può governare un paese così diviso? Come si possono normalizzare i rapporti tra i vari gruppi, tra gli islamisti di Hayat tahrir al Sham (Hts), le forze curde e quello che resta della struttura militare di Assad? Come s’impedisce che i diversi obiettivi di questi gruppi facciano ripiombare il paese nella guerra? Il leader di Hts Ahmed al Sharaa, noto con il nome di battaglia Mohammed al Jolani, ha mostrato segni di apertura verso le altre comunità, dicendo di voler condividere il potere e di affidarsi alle istituzioni. Hts, considerata un’organizzazione jihadista, è alla ricerca di una legittimazione internazionale. Ma fino a che punto potrà o vorrà realizzare questo progetto? Proviamo ad analizzare le questioni in gioco nella nuova era che sta cominciando in Siria.

La questione alawita

Il primo punto riguarda gli alawiti, che hanno un rapporto ambiguo con l’Hts. Per lo più hanno sofferto per la dittatura come il resto della popolazione siriana, ma sono ben rappresentati nei circoli politici e soprattutto nei vertici militari (gli Assad appartengono alla stessa confessione religiosa). Da un lato, il gruppo di Al Jolani guarda gli alawiti con sospetto, perché li vede come uno strumento del regime e li aveva invitati a prenderne le distanze prima della sua caduta. Dall’altro, dice di considerarli essenziali per il futuro della Siria e ha promesso che saranno lasciati in pace. Questa promessa sarà rispettata?

Per il momento il gruppo a capo della rivolta lancia segnali di buona volontà, che sembrano escludere l’eventualità di un’operazione militare nel prossimo futuro. “Le forze di opposizione non vogliono essere coinvolte ora nel fronte costiero occidentale (dove è concentrata la popolazione di fede alawita), per evitare una frattura che sembrerebbe più religiosa che politica”, sostiene Ziad Majed, ricercatore esperto di Siria.

Un’ipotesi che lascia qualche dubbio, visto che l’esercito siriano è fuggito in massa nelle regioni di Latakia e Tartous, nella zona occidentale. Resta da capire fino a che punto gli ufficiali alawiti di queste regioni accetteranno di negoziare con il nuovo governo.

Quanto ai curdi, la loro priorità sarà mantenere le conquiste politiche e militari fatte durante la guerra, soprattutto il controllo del nordest della Siria. “Vogliono legittimare quei risultati inserendoli nella costituzione siriana”, sostiene Armenak Tokmajyan, ricercatore associato del Carnegie Middle East center.

Le Unità di protezione del popolo (Ypg) temono il ritiro dell’esercito statunitense dalla Siria quando Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca, uno sviluppo che potrebbe spianare la strada a un’offensiva della Turchia. Il governo di Ankara sta approfittando della caduta del regime siriano per perseguire i propri obiettivi. Dopo i combattimenti le città di Tall Rifaat e Manbij, controllate dalle Forze democratiche siriane (Fds, dominate dalle Ypg), sono passate sotto il controllo dell’Esercito nazionale siriano (Sna), sostenuto da Ankara. “Il rapporto di forza tra le parti curde e le altre fazioni ribelli potrebbe continuare a definirsi intorno ad altre città arabe, come Deir Ezzor e Raqqa, in attesa del ritorno di Trump e degli scambi tra Turchia, Iran e Russia, i paesi che a partire dal 2016 hanno condotto le trattative per mettere fine alla guerra civile siriana”, suggerisce Ziad Majed.

Poi c’è la questione dell’unità dell’opposizione. Finora i vari gruppi sono rimasti compatti nella lotta contro Assad. “È relativamente semplice quando c’è una causa comune”, commenta Tokmajyan, “ma dopo la caduta del regime possiamo aspettarci che emergano disaccordi e divisioni”. Tra l’Hts, l’Sna e i ribelli del sud – tra tendenze islamiste, jihadiste e talvolta laiche – ci sono ancora importanti divergenze. C’è anche la questione curda e il suo progetto nazionalista. La sfida di mantenere l’unità e trasformare i successi militari in successi politici sarà ancora più grande quando si porrà la questione della spartizione del “bottino di guerra”. Come si muoverà l’equilibrio di potere? Che ruolo avranno gli attori stranieri?

Un vero governo

Le prime indicazioni suggeriscono che i gruppi di opposizione vogliono conservare le istituzioni statali e sperano in una “transizione ordinata”. Ma nel corso dell’ultimo decennio lo stato siriano si è molto indebolito. “Tantissime persone qualificate hanno lasciato il paese”, avverte Tokmajyan. “Ricostruire le istituzioni sarà fondamentale, ma sarà un compito estremamente difficile per chiunque prenda il controllo”.

E mentre le organizzazioni ribelli hanno amministrato le province sotto il loro controllo, la gestione di città densamente popolate come Damasco, Aleppo e Homs rappresenta una grande sfida. Si tratterà di soddisfare le esigenze di milioni di persone e di garantire i servizi essenziali, con risorse attualmente limitate. ◆adg

Ultime notizie
I bombardamenti di Israele

◆ Il 10 dicembre 2024 i ribelli siriani che hanno rovesciato il regime di Bashar al Assad hanno nominato Mohammed al Bashir primo ministro di un governo di transizione. Al Bashir era a capo dell’autoproclamato “governo” della provincia di Idlib, la roccaforte dei ribelli nel nordovest del paese. Il giorno prima Ahmed al Sharaa, noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al Jolani e leader del gruppo islamista Hayat tahrir al Sham (Hts), che guida la coalizione ribelle, aveva parlato con il premier uscente Mohammed al Jalali per “coordinare la transizione”. Al Bashir ha promesso calma e stabilità e ha assicurato che saranno garantiti i diritti di tutte le confessioni del paese.

◆Nel nord della Siria, in particolare nella città di Manbij, i combattimenti tra fazioni legate alla Turchia e forze filocurde hanno provocato 218 morti in tre giorni. L’11 dicembre le Forze democratiche siriane (Fds, a maggioranza curda e sostenute dagli Stati Uniti) hanno annunciato una tregua con i gruppi filoturchi.

◆Le Nazioni Unite hanno chiesto a Israele di mettere fine ai raid aerei e alle operazioni di terra in territorio siriano, dopo che il 9 dicembre l’esercito israeliano aveva distrutto dei depositi di armi in Siria per evitare che finissero in mano ai ribelli. L’esercito di Tel Aviv ha annunciato il 10 dicembre di aver condotto 480 attacchi in Siria. Inoltre ha confermato che le sue forze “sono avanzate in una zona cuscinetto in Siria”, al confine con la parte delle alture del Golan occupate da Israele nel 1967 e annesse nel 1981. Afp


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Questo articolo è uscito sul numero 1593 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati