“Fin dall’antichità il consumo di carne è stato oggetto di rituali che permettono di giustificare l’uccisione di un essere in carne e ossa. Ma riducendo gli animali a semplice materia prima, l’industrializzazione dell’allevamento e della macellazione perturba il nostro rapporto con questa ‘uccisione alimentare’”. Così scriveva Claude Lévi-Strauss negli anni novanta, in un articolo pubblicato sul quotidiano italiano la Repubblica. In piena crisi della mucca pazza, mentre i bovini bruciavano a centinaia su gigantesche pire, l’antropologo faceva una lunga riflessione sul nostro desiderio di carne: “Verrà un giorno in cui l’idea che gli uomini, per nutrirsi, abbiano potuto allevare e massacrare degli esseri viventi e poi esporre con compiacimento la loro carne a brandelli nelle vetrine, ispirerà senza dubbio la stessa repulsione che i pasti cannibali dei selvaggi americani, australiani o africani ispiravano ai viaggiatori del cinquecento o del seicento”.

Ci possiamo chiedere se quel giorno è arrivato, almeno per alcuni di noi, e quanto Lévi-Strauss sia stato profetico nell’annunciare nel 1996 che i banchi dei macellai avrebbero suscitato sempre più “disagio”. Il tempo, a quanto pare, sembra dargli ragione: il consumo di carne diminuisce e ci allontaniamo sempre di più dai tagli che ricordano il corpo, se non l’idea stessa, dell’animale. L’antropologa Noëlie Vialles associa questa repulsione contemporanea alla sarcofagia, l’abitudine di mangiare carne di cadaveri. Un concetto che indica il fatto che preferiamo il macinato alla trippa, il petto di pollo al cervello di agnello o i nuggets alla lingua di manzo.

Di fatto la grande distribuzione propone ormai dei pezzi sempre più disossati, tagliati e confezionati, “disanimalizzati”, sintetizza Vialles. Nei contenitori di plastica il pollame non ha più né piume né becco né zampe, e nei piatti confezionati la pelle, le cartilagini e le ossa sono scomparse. Per il sociologo Stephen Mennell, autore di All manners of food (1995), il fatto che gran parte del manzo sia ormai consumato sotto forma di hamburger è il “sintomo dell’alto livello di ripugnanza provata nei confronti delle parti degli animali troppo identificabili”.

Il disgusto sempre più diffuso verso tutto quello che nella dieta carnivora ricorda da vicino il corpo della bestia è il segno, secondo Vialles, del nostro disagio di fronte all’uccisione degli animali da macello. Già nel 1968 uno dei personaggi del romanzo di Marguerite Yourcenar L’opera al nero affermava che gli “dispiaceva digerire le agonie” di altri esseri viventi. “Lei mangia dei tormenti”, affermava lo scrittore Lanza del Vasto a Michel Tournier mentre assaporava una bistecca. Un lessico negativo destinato a sottolineare un’evidenza che cerchiamo di scacciare dalla mente: la carne è l’unico alimento che presuppone l’uccisione di altri esseri viventi.

Mentre nessuno contesta le basi morali dell’alimentazione vegetale, da millenni il consumo di carne suscita intense discussioni filosofiche. Fin dal sesto secolo aC l’orfismo e il pitagorismo condannavano il principio stesso del sacrificio animale. Sei secoli dopo, anche Plutarco denunciava la condanna a morte delle bestie destinate alle tavole degli uomini, sottolineando che le prime usano la ragione e soffrono. Argomenti ripresi nel terzo secolo dC dal filosofo neoplatonico Porfirio, che difendeva il vegetarianismo in un trattato sull’“astinenza dalla carne degli animali”.

Mangiare carne, constata l’etnologa Colette Méchin, non è affatto innocente: “Chi si prenderà la responsabilità del gesto di uccidere? Con quali mezzi renderà questo alimento accettabile e presentabile?”, si chiede in Le mangeur et l’animal (1997). “Quello che, dopo le analisi di Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne sulla cucina sacrificale dei greci, chiamiamo ‘uccisione alimentare’ è un gesto di tale gravità che tutte le civiltà hanno escogitato dei modi particolari per gestirlo”, sottolinea Jean-Pierre Poulain, professore di sociologia all’università Jean-Jaurès di Tolosa e autore di Alimentazione, cultura e società (Il Mulino 2008).

Questa preoccupazione era già presente nell’Egitto dei faraoni, nell’antica Grecia e a Roma. Per allontanare il senso di colpa dall’uccisione alimentare, queste società mettevano il consumo di carne all’interno di rituali elaborati. “Il manzo, il vitello o l’agnello erano sempre sacrificati su un altare e per mano di un sacerdote”, ricorda il ricercatore Eric Birlouez sulla rivista Médicine & Nutrition. “Sugli affreschi greci che rappresentano i sacrifici, la scena in cui il coltello affonda nell’animale non è mai raffigurata e il coltello stesso è gettato in mare. La responsabilità di quell’assassinio è attribuita all’arma, non al sacrificatore”.

Questi dispositivi sociali sono comuni a tutti i gruppi umani che, secondo Poulain, cercano di calmare o di rendere accettabile “il conflitto morale tra il bisogno di mangiare carne e il fatto di dover togliere la vita agli animali e imporgli delle sofferenze”. Queste pratiche consistono “nel distinguere le specie animali commestibili da quelle che non lo sono, stabilendo delle classificazioni variabili in funzione delle culture, come mostra l’esempio del cane, del coniglio o del cavallo. Si cerca inoltre di definire attraverso dei rituali il difficile momento del passaggio dall’animale vivente all’alimento”.

Le società animiste, che attribuiscono agli animali dei sentimenti, un linguaggio, una morale e una cultura che non differisce fondamentalmente da quella degli esseri umani, accompagnano la caccia con “il dialogo, lo scambio e la negoziazione con gli animali”, continua il sociologo. “Così, per continuare a convivere tranquillamente, il cacciatore inuit si scusa con la sua preda e ne getta via un pezzo per permettere alla sua anima di ricostituire un corpo. Questo gesto è indispensabile in un universo di significato in cui il cibo degli uomini è ‘interamente fatto di anime’, secondo le parole dello sciamano inuit Ivaluardjuk”.

Il consumo di carne diminuisce e ci allontaniamo sempre di più dai tagli che ricordano il corpo dell’animale. Preferiamo il petto di pollo al cervello di agnello

L’infrastruttura del mondo occidentale è completamente diversa: come scrive l’antropologo Philippe Descola, nella nostra civiltà fondata sul dualismo natura-cultura e sulla separazione tra esseri umani e non umani, è il cristianesimo che modella da duemila anni il nostro rapporto con la carne. La sua storia comincia in un paradiso vegetariano: nel giardino dell’Eden, Dio offrì come cibo ad Adamo ed Eva “erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme”. Ma dopo la caduta, modificò l’ordine delle cose da mangiare autorizzando Noè a consumare “quanto si muove e ha vita”, cioè gli animali.

Mentre il giudaismo e l’islam codificano molti divieti alimentari, regolamentando con cura le specie consumabili e le tecniche di macellazione, il cristianesimo toglie fin dai primi secoli l’alimentazione dalla “tutela del sacro”, osserva Poulain. “Poiché il rito cristiano commemora il sacrificio di Gesù nell’eucarestia, il sacrificio degli animali diventa inutile. In questo universo religioso la morte animale è lecita, ci si pone solo la questione delle sue modalità. Quando Dio autorizza Noè a consumare la carne, pone una sola condizione: ‘Non dovete mangiare la carne con la sua anima, con il suo sangue’”.

Questa codificazione ha un carattere minimalista, e comunque viene abbandonata molto rapidamente. “Nel primo secolo, ai non ebrei che vogliono diventare cristiani l’assemblea di Gerusalemme vieta di mangiare una sola cosa: gli animali immolati agli idoli o dissanguati in modo non corretto”, racconta Bruno Laurioux, specialista di storia dell’alimentazione e professore all’università di Tours. “Queste regole saranno a lungo rispettate dai cristiani d’oriente, ma dal nono secolo non sono più osservate dai cristiani d’occidente. Dal decimo secolo non ci sono più divieti alimentari pubblici nel mondo cristiano occidentale”.

Ma il cristianesimo, anche se si astiene dal proibire il consumo di determinate specie animali o l’uso di alcune tecniche di macellazione, si preoccupa invece moltissimo di un alimento che, nella sua stessa etimologia – carne in latino si dice caro, come corpo – evoca il godimento sessuale. “La cristianità associa la carne animale alla golosità, al peccato, al desiderio o alla lussuria”, continua Laurioux. “Negli scritti teologici di Tommaso d’Aquino, nel duecento, la carne è collegata al caldo: per il teologo questo alimento è uno dei più piacevoli ed eccitanti, infiamma il corpo”.

È in nome della temperanza che la carne è stata sottoposta a severe restrizioni: durante i giorni di “magro” è vietato mangiarla. “Queste privazioni, molto rispettate a partire dall’epoca carolingia, sono imposte durante i quaranta giorni della quaresima, alla vigilia delle grandi feste religiose e in alcuni giorni della settimana (il venerdì, ma talvolta anche il sabato o il mercoledì), cioè per più di cento giorni all’anno”, precisa Laurioux, che ha curato con Catherine Esnouf e Jean Fioramonti il volume L’alimentation à découvert (2015). “In questi momenti di astinenza il cristiano fa uno sforzo su se stesso per raggiungere la purezza”.

Molte pitture medievali illustrano questo forte contrasto tra la voluttà dei giorni di grasso e la penitenza dei giorni di magro. Realizzata a partire dai disegni preparatori di Pieter Bruegel il vecchio, la stampa del 1563 dedicata alla cucina grassa dell’incisore Pieter van der Heyden è piena di prosciutti, salsicce, polli e teste di maiale, mentre in quella della cucina di magro viene mostrato uno scarno piatto composto da una cipolla, uno stoccafisso, qualche frutto e dei molluschi. “Questa dualità che divide l’anno e la settimana è illustrata anche nelle opere letterarie e teatrali attraverso la battaglia tra Quaresima e Carnevale”, aggiunge Laurioux.

Perché stupirsi quindi se la carne animale è stata associata per secoli al piacere, alla voluttà e all’edonismo, e se è stata identificata da tutti quelli che ne erano privati con il progresso, la salute e il benessere? Nel corso dei secoli la carne, in quanto alimento associato alla forza, ha conquistato tutte le classi sociali. “Nel cinquecento, nel seicento e nel settecento il consumo di carne è relativamente scarso, in particolare a causa della crescita demografica, ma dall’ottocento comincia un nuovo ciclo”, osserva Laurioux. “Durante la rivoluzione industriale il consumo di carne aumenterà in continuazione”.

Beatrice Bandiera

In un articolo pubblicato nel 2002 sulla Revue Belge de Philologie et d’Histoire, il professor Yvan Lepage constata che in meno di due secoli il consumo medio di carne in Francia si era quintuplicato: con la prosperità economica era passato da 19 chili pro capite all’anno dell’inizio dell’ottocento a più di cento chili nel 1985. La lingua francese ha assimilato questa transizione nutrizionale con un’espressione coniata negli anni novanta dal ricercatore americano Barry Popkin: dopo la seconda guerra mondiale non si lavorava più per guadagnarsi “la pagnotta”, ma “la bistecca”.

Il periodo del boom economico ha incarnato l’apogeo di questo trionfo della carne animale. Negli anni cinquanta la “bistecca con patatine fritte” faceva parte delle “mitologie” di Roland Barthes. Illustrato da un’immagine del 1939 in cui un uomo affamato divora un pezzo di carne sotto lo sguardo di un prete e della sua perpetua, il testo dedicato alla bistecca evoca un “alimento al tempo stesso rapido e denso”, che “si adegua a tutti i ritmi, al confortevole pasto borghese e a quello frettoloso dello scapolo”. È un nutrimento, conclude il semiologo, che rappresenta “il cuore della carne: chiunque se ne cibi, assimila forza taurina”.

Oggi questo regno incontrastato della carne animale sembra essere alle spalle. Dagli anni ottanta il consumo di manzo e poi delle altre carni è stabilizzato, mentre è emerso un dibattito sulla legittimità morale dell’alimentazione carnivora, come testimonia la moda del concetto di “uccisione alimentare”. “Una cinquantina di anni fa nessuno, se non in alcuni ambienti intellettuali, usava questa espressione”, ricorda Jean-Pierre Corbeau, professore di sociologia all’università François-Rabelais di Tours. “È apparsa negli ambienti vegani all’inizio degli anni novanta, per poi essere rivendicata dall’associazione per i diritti animali L214 nei suoi video sui mattatoi”.

Allevamenti sovraffollati, maltrattamenti, condizioni di trasporto orribili: dalla sua creazione nel 2008, L214 ha dedicato più di cento inchieste all’uccisione alimentare, che in Francia sostiene colpisca ogni giorno più di tre milioni di animali terrestri e acquatici. La parte nascosta dell’industria agroalimentare non è particolarmente attraente. “L’allevamento e la macellazione sono ormai concepiti in modo scientifico e organizzati come una catena di montaggio”, osserva Poulain. “Questo processo contribuisce alla reificazione dell’animale destinato all’alimentazione: ridotto al rango di materia prima, è disanimalizzato, devitalizzato”.

Oggi, nel campo dell’etologia come della filosofia, l’animale è considerato un soggetto dotato di una propria individualità, affettività e intelligenza. Le leggi francesi portano traccia di questa rivoluzione concettuale: un tempo considerati come dei beni mobili, dal 2015 gli animali sono definiti dal codice civile come “esseri viventi dotati di sensibilità”. Siamo lontani dalla teoria dell’“animale macchina” formulata nel seicento da Cartesio. Gli animali, scriveva il filosofo, sono dei semplici automi che “non hanno né anima né coscienza”, che non provano “né piacere né dolore”, che “reagiscono a degli stimoli”.

In questo nuovo paesaggio culturale e cognitivo, come concepire le nostre relazioni con i capi d’allevamento? Quale statuto dare a questi esseri viventi dotati di sensibilità, che facciamo spesso crescere in capannoni industriali e che macelliamo in luoghi organizzati come fabbriche? “Gli animali da compagnia sono ormai antropomorfizzati: fanno parte della famiglia e mangiano alimenti di qualità che garantiscono un buon equilibrio alimentare”, osserva Poulain. “Nel frattempo gli animali selvatici sono stati idealizzati, ci danno delle lezioni di morale, come l’orso del film di Jean-Jacques Annaud. Gli animali d’allevamento invece sono diventati molto difficili da immaginare concettualmente”.

Questo anche perché la maggior parte di noi, osserva Laurioux, ha perso ogni “prossimità sensoriale” con gli animali d’allevamento. “Trenta o quarant’anni fa la maggior parte delle famiglie aveva ancora un rapporto stretto con la vita rurale”, sottolinea Corbeau. “Si andava in vacanza da un nonno o da un cugino che la domenica uccideva un pollo o un coniglio. Quando ero bambino il passaggio del camion che trasportava il bestiame faceva parte della nostra esperienza quotidiana: pensate a Mio zio di Jacques Tati, del 1958. Oggi chi abita in città non vede mai gli animali da fattoria e i mattatoi sono situati in periferia, al riparo da sguardi indiscreti”.

L’epoca in cui l’allevamento e l’uccisione degli animali era un’esperienza comune e condivisa sembra finita. Fino a un’ordinanza reale del 1838 che impose nuovi limiti, alcuni animali di macelleria erano uccisi per strada a Parigi e nelle fattorie l’uccisione dava luogo a una cerimonia preparata accuratamente. “Era un rituale raro e festivo, a cui partecipava la famiglia e a volte i vicini”, osserva Corbeau. “Prima di uccidere il maiale, nel corso di una messa in scena i contadini litigavano con l’animale che avevano nutrito per un anno e gli rimproveravano di averli rovinati”, precisa Poulain. “Questa presa di distanza autorizzava la sua condanna a morte”.

La macellazione degli animali era così intimamente legata alla vita di tutti i giorni che per secoli è stata un motivo ricorrente dell’estetica pittorica. Nel suo quadro del 1566 Manzo macellato, Marten van Cleve mette in primo piano la testa dell’animale con gli occhi aperti in un grande secchio accanto a un’ascia, mentre il Bue macellato di Rembrandt del 1655 o il Maiale macellato di Adriaen van Ostade, del 1650 circa, mostrano delle immense carcasse attaccate a travi di legno. La tradizione continuò nell’ottocento con Claude Monet che nel 1864 firmò un Pezzo di carne di un rosso intenso.

Con l’industrializzazione che aveva ormai ridotto gli animali d’allevamento a materia prima, l’uccisione alimentare presente nella vita delle famiglie e nei quadri diventò al tempo stesso invisibile e impensabile. “Tutti gli aspetti simbolici che nel passato permettevano di gestire l’uccisione scompaiono”, osserva Corbeau. “Oggi consumiamo la carne in modo passivo e ordinario, ma siamo completamente esclusi dall’allevamento e dalla macellazione, che seguono processi razionalizzati. La carne non ha più storia, anzi ha la triste storia del produttivismo”.

Per Poulain questa nuova situazione antropologica ha generato una “crisi del modello igienista, produttivistico e scientifico dell’uccisione dell’animale”. Lo sconcerto o il vero e proprio disagio nato da questo stravolgimento ha portato molti di noi a diventare sarcofagi: anche se mangiamo molta più carne animale dei nostri antenati, preferiamo chiudere gli occhi sul modo in cui è prodotta. “Vogliamo mangiare la carne, ma non vorremmo uccidere gli animali”, sintetizza il sociologo Claude Fischler. “Non potendo soddisfare entrambe le esigenze insieme, facciamo in modo di dimenticare, di non pensarci troppo”.

Per evitare che lo spettro dell’animale venga a “turbare le nostre griglie e le nostre pentole”, secondo le parole di Noëlie Vialles, la sua uccisione è fatta dietro le porte chiuse dei mattatoi, e le carni che compriamo sono ridotte alla loro “fredda materialità”, come dice lo scrittore Pierre Gascar. “I macellai non ostentano più la cacciagione e le carcasse di animali nelle loro vetrine, e hanno cambiato le tecniche di taglio”, osserva Corbeau. “Per ridurre gli scrupoli del mangiatore di carne, i macellai trascurano i pezzi che evocano maggiormente il corpo della bestia – le interiora, gli zamponi o la testina di vitello – e propongono invece dei tagli più piccoli che mascherano l’animale: il carpaccio, il petto di pollo o la carne macinata”.

Questi accurati sistemi per aggirare la questione della morte animale sono oggi amplificati dalla crisi ecologica. Obbligandoci a ridurre il nostro consumo di carne, spingendoci a riflettere sulla nostra relazione con il mondo vivente, la crisi ci obbliga a mettere in discussione la cecità venata di colpevolezza che domina questi primi decenni del nostro secolo. Dobbiamo fare un lavoro di riflessione enorme, tanto è lunga la storia dell’alimentazione animale degli uomini. Ma il tempo stringe: il cambiamento climatico non ci lascerà dei secoli per ripensare le nostre idee sulla carne. ◆ adr

Anne Chemin è una giornalista francese. Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde con il titolo Comment nous avons désanimalisé la viande.

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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati