Chike ci pensa su per un po’, ma alla fine spara: “Allora”, dice, “mettiamo che io arrivo nel tuo paese. Diventa buio. Non so dove andare. Mi presento alla porta di una casa. Mi daranno un posto per dormire?”.

“Una porta qualsiasi?”.

“Di una casa, sì”.

“Be’, no”.

“Ah, ecco”.

“È anche possibile che se ti vedono piantato davanti alla porta” – mi sta per scappare “con quell’aria lì”, ma non lo dico – “qualcuno chiami la polizia”.

Chike abbassa lo sguardo e scuote la testa contrariato.

Nouakchott, 17 gennaio 2020 (John Wessels, Afp/Getty Images)

Vogliamo attraversare la Mauritania da nord a sud, dalla frontiera con il Sahara Occidentale (il territorio occupato dal Marocco, ma rivendicato dal popolo sahrawi) fino alla foce del fiume Senegal. Viaggiamo lungo la strada che attraversa il paese da un capo all’altro, dal Sahara al Sahel, con l’oceano Atlantico da una parte e il deserto dall’altra. Quello che troviamo lungo la strada, quello che lì si vive e si racconta, è la storia di un paese giovane, in costruzione. Un paese che ha appena sessant’anni, dove la vita che è andata avanti per secoli – il nomadismo, la dipendenza dal deserto, il ciclo annuale delle piogge, l’agricoltura lungo il fiume, l’appartenenza tribale – sta cambiando rapidamente, a un ritmo incredibile.

Ci fermiamo a riposare all’ombra di una khaima, la tipica tenda beduina, vicino alla strada. Mangiamo pane con sardine del Marocco e formaggi francesi, beviamo latte in lattina confezionato nei Paesi Bassi. Finiamo il pasto con delle mele rosse e lucide con l’etichetta “Girona”. Conosco bene la provenienza di queste mele, vicino alle spiagge di Sant Pere Pescador, sulla costa spagnola a nord di Barcellona.

Lungo il percorso abbiamo incrociato numerosi migranti – burkinabé, maliani, guineani – che cercano un posto su qualche cayuco _(piccole imbarcazioni simili a canoe) diretto alle isole Canarie e una volta lì, chissà, magari in Spagna. Già me li immagino – _inshallah! – mentre si dirigono in bici verso i campi dove si coltivano le mele che stiamo mangiando. Mele che si muovono con incredibile facilità, se pensiamo a tutti gli ostacoli e alle difficoltà che devono affrontare le persone costrette a scavalcare i muri: l’orrore.

Dopo mangiato, Chike prepara un tè. Sta per buttare dentro alla teiera mezzo pacchetto di zucchero e le nostre proteste non bastano a fermarlo. Il tè è affare suo: il più bel momento della giornata. Ne beviamo anche cinque al giorno, quanti sono i tempi delle preghiere. E ogni volta tre bicchieri. L’ultimo ha un sapore amaro che resta in bocca per ore, come se avessi masticato una radice.

Chike è il nostro autista. Fino a pochi anni fa portava i cammelli al pascolo nella provincia di Trarza, nel sudovest del paese. A guidarlo erano le stelle e le piogge. A delimitare casa sua solo l’orizzonte. L’appartenenza, la famiglia. Il paese, le altre persone in movimento. Ha abbandonato la vita nomade e i cammelli quando gli animali sono morti o li ha dovuti sacrificare per via della siccità, dei cambiamenti climatici che affliggono la regione.

Nouadhibou, aprile 2017 (Johannes Glöckner, Picture-alliance/Dpa/Ap/Lapresse)

Chike torna alla questione che lo preoccupa: “Mettiamo che arrivo a casa tua. Cosa fai?”.

“Tu cosa faresti se io arrivassi a casa tua?”.

“Uccido un agnello!”.

“Io preparo una paella”.

“Già, ma posso fermarmi a dormire?”.

“Quante notti?”.

Chike si ferma a pensare. Discute un po’ con l’uomo che ci ha aperto la khaima dove ci stiamo proteggendo dalla tempesta di sabbia.

“Sai una cosa?”, dice guardandomi fisso negli occhi. “Quando cammino nei quartieri di Nouakchott, lontano da casa mia, se ho bisogno di andare in bagno busso a una porta qualsiasi, entro, faccio quello che devo fare, mi lavo, ci beviamo un tè insieme. È così che la vedo io”.

L’uomo della _khaima _annuisce.

Bassa marea

Prima che venisse costruita la strada, nel 2004, il viaggio da Nouadhibou alla capitale Nouakchott avveniva su strade sterrate e, una volta superato capo Timiris, si approfittava della bassa marea per passare sulla spiaggia. Era un viaggio bellissimo e molto pericoloso. Non solo perché ci sono degli scogli lungo la costa – una grande spiaggia che si estende per 360 chilometri fino alla foce del fiume Senegal – ma anche perché questo territorio fragile, ventoso, chiuso tra il mare e il deserto, questa terra di nessuno, lo sbar (le dune costiere), può essere ingannevole, e non ci si deve mai fidare delle apparenze. “Quanto alle vecchie saline, che sembrano rigide come l’asfalto, (…) a volte cedono sotto il peso delle ruote. La bianca crosta di sale si squarcia allora sul miasma di un acquitrino nero”, scrisse Antoine de Saint-Exupéry in Terra degli uomini. Saint-Exupéry, uno dei piloti che aprirono la linea aerea tra Tolosa e Dakar, conosceva bene questa regione, dove trascorse lunghi periodi e dove dovette fare diversi atterraggi d’emergenza. Uno di questi ispirò Il piccolo principe. Quando il suo aereo aveva un problema, Saint-Exupéry cercava di farlo atterrare su un terreno elevato, un “tappeto di conchiglie”, di certo per questioni di sicurezza, ma forse anche per passione filosofica e spirito d’avventura. Lo scrittore racconta che in una di queste occasioni riuscì ad atterrare su un terreno “infinitamente vergine” che “mai nessuno, animale o uomo, aveva sciupato”. Raccolse la sabbia con la mano. La lasciò cadere come pioggia dorata. Sentì di non essere altro che un granello di polvere nell’immensità dell’universo. Il primo uomo a turbare quella banchisa minerale. La prima testimonianza di vita. Nessuno. Tutto.

Oggi Chami fa impressione. Il brulicare di persone, la frenesia edilizia

Lasciamo Nouadhibou alle prime luci dell’alba. All’uscita dalla città ci aspettano Salima e un gruppo di donne del quartiere della Charca. Salgono sul pick-up, lasciamo la strada, aggiriamo una serie di dune e raggiungiamo le saline in riva al mare. Le piscine di sale sulla sabbia danno vita a un paesaggio fatto di uccelli, cielo e acqua, spezzato all’orizzonte dalla muraglia blu scuro dell’oceano.

Ho conosciuto Salima qualche anno fa, quando insieme ad altre donne aveva appena creato una cooperativa per sfruttare il sale della baia. La cooperativa è nata dalla volontà – e dall’entusiasmo – di Nedwa Nech, una donna di una famiglia ricca che un giorno è andata a visitare la Charca e si è vergognata dell’estrema povertà in cui vivevano le donne. Senz’acqua corrente nelle case. Circondate dal fango e dalla spazzatura. Molte di loro non erano sposate e dovevano occuparsi da sole dei figli.

Nouadhibou è il principale porto di pesca della costa: prospera grazie alla flotta di piroghe, al commercio, alle miniere di Zouérat e alla pesca in alto mare dei grandi pescherecci industriali dei paesi ricchi. Ma questa abbondanza non è ripartita equamente, e per le persone povere può essere una condanna. Le donne hanno raccontato a Nedwa che si guadagnavano da vivere preparando da mangiare e il tè per i pescatori. “Bastava osservare i volti di quei bambini, avevano tratti asiatici, europei, neri, arabi… Eh!”, esclama Nedwa. Si è messa in contatto con alcune ong ed è riuscita a ottenere finanziamenti dall’Unione europea per portare avanti il progetto delle saline.

Salima conserva in casa un ritaglio di quei primi tempi gloriosi: una pagina ormai ingiallita del giornale Ouest France su cui compaiono lei e altre tre donne in posa insieme ai produttori di sale marino di Guérande, sulla costa atlantica della Francia, dove avevano seguito un breve corso di formazione. L’articolo parla della calorosa accoglienza della popolazione locale, della solidarietà dei donatori che appoggiavano l’iniziativa di Nouadhibou, delle belle parole, del desiderio che gli africani potessero gestire le loro risorse, esercitando la propria sovranità.

Durante quel viaggio, Salima e le sue amiche hanno imparato a estrarre dal mare sale purissimo. Scavano piccoli pozzi, ne raccolgono l’acqua con i secchi e riempiono delle piscine foderate con teli di plastica, da cui l’acqua evapora lasciando il sale. Nell’arco di tre giorni, una sola piscina può produrre fino a 25 chili di sale, sufficiente a far vivere decentemente un’intera famiglia. Ma oggi qui regna un’atmosfera desolata: come spesso succede nel mondo della cooperazione, il progetto è stato abbandonato dai finanziatori prima che potesse consolidarsi, diventasse qualcosa in grado di trasformare la vita delle persone. Oggi queste donne non hanno neanche un mezzo di trasporto per arrivare alle saline.

Proseguiamo il nostro viaggio decisi a raggiungere Chami prima del tramonto. Lo specchietto retrovisore cattura l’immagine di Salima che ci saluta, completamente sola. Chami è l’El Dorado della Mauritania. Quando passarono di qui i cooperanti catalani della Caravana solidaria, nel novembre del 2009 – poco prima che tre di loro fossero rapiti da Al Qaeda nel Ma­ghreb islamico al chilometro 170, superata la stazione di servizio Gare du Nord – a Chami c’erano a malapena quattro baracche e qualche negozietto per attirare i viaggiatori di passaggio.

Oggi Chami fa impressione. Il brulicare di persone, la frenesia edilizia e il caos di veicoli, animali, officine e negozi sono tali che non si può far altro che fermarsi, mettersi a sedere, respirare a fondo e aspettare che tutto ciò che si sta osservando piano piano si metta in ordine.

Compriamo banane, acqua. Ci sediamo alla stazione di servizio, dove si radunano i veicoli carichi di cercatori d’oro in partenza verso il deserto. Sono lavoratori irregolari. Paria. Molti sono migranti. Di solito un piccolo imprenditore – uno che ha la macchina, ha comprato un generatore, un metal detector, pale, picconi e corde – carica tre o quattro ragazzi sul pick-up e si addentra nel deserto per avvicinarsi alla grande miniera d’oro. Lì i giovani manovali scavano piccoli pozzi dove si cala un uomo sorretto da corde, il quale fruga nel buio quasi senza ossigeno e riempie di pietre e terra un secchio che i suoi compagni riportano su con una carrucola e la forza delle braccia. Più di 15mila persone lavorano in questo modo. Gli incidenti mortali sono all’ordine del giorno. Invece i dipendenti della grande miniera gestita dai canadesi con tecnologie d’avanguardia, recintata, ben controllata e inaccessibile ai curiosi sono circa cinquemila. Sono gli operai d’élite della Kinross Gold Corporation, che ha già raddoppiato la produzione, e viaggiano su pulmini aziendali bianchi con l’aria condizionata.

All’uscita della città, in un enorme spazio aperto, si ammassano i laboratori artigianali dove i minatori informali spaccano le pietre, le triturano con grandi macine, poi versano la polvere in vasche piene d’acqua per setacciarla e cercano di separare l’oro buttando del mercurio nell’acqua. La maggior parte di loro dorme in baracche e casette di cemento di tre o quattro metri quadrati dove possono stiparsi fino a dieci persone. Le baracche sono sparse disordinatamente tra le dune, e i residui di questa febbre dell’oro – bombole di gas vuote, compressori, generatori, pneumatici, motori guasti, bidoni bucherellati – si accumulano sulla sabbia. C’è anche un cinema che proietta partite di calcio e serie televisive, annunciando, chissà, futuri quartieri residenziali, mentre nel centro di Chami si vedono già i segni di una città moderna: lampioni nuovi e villette a schiera destinate agli ingegneri della miniera, alle autorità locali e ai militari; un piccolo albergo per i visitatori illustri; una caserma sulle cui pareti il vento del deserto ha creato un’immensa duna che arriva fino alle garitte di sorveglianza, come per ricordare che perfino nella città d’oro il deserto detta legge.

Ci fermiamo a dormire in una khaima _in uno spiazzo che si presenta come un campeggio. Troviamo una coppia di spagnoli. Viaggiano su un camper attrezzato per il deserto. Hanno trovato “orribile” quello che hanno visto finora del paese. La tempesta di sabbia che li ha accompagnati dalla frontiera settentrionale è stata un incubo. Cercano inutilmente i bagni, l’elettricità, il wifi. La donna è contrariata. Ha comprato dei frutti di mare a Noua­dhibou “a un ottimo prezzo” e non ha ancora avuto tempo di preparare la _paella.

“Qui la potrà preparare tranquillamente”, cerchiamo di incoraggiarla.

Parco nazionale del Banc d’Arguin (Hemis/Alamy)

“Già, ma noi la paella la mangiamo sempre di domenica e ormai è lunedì”.

Due attività

“Benvenuti! Accomodatevi”, dice Lamin mentre toglie la sabbia dai cuscini sparsi sul pavimento e ci riceve nel suo negozio di alimentari. Lamin el Kanane Mohamed parla uno spagnolo eccellente. È uno dei tanti sahrawi che si trasferirono a vivere da queste parti dopo che la ritirata spagnola dal Sahara Occidentale e la successiva guerra con il Marocco li costrinsero ad abbandonare le loro terre. Siamo nel paesino di El Mhaijrat. Lo potremmo chiamare El Mhaijrat di sopra, perché la parte più antica è vicina alla spiaggia, a circa due chilometri di distanza. Quando fu costruita la strada, gli abitanti della zona vicino al mare, in gran parte pescatori, cominciarono a spostarsi verso la striscia d’asfalto per vendere ai viaggiatori la bottarga (uova di muggine) e il pesce essiccato, ottimo per i diabetici. Nella zona ce ne sono parecchi per via del tè troppo zuccherato. Così nacque un nuovo paese, che continua a crescere grazie al commercio. Ancora non è ben chiaro se per gli abitanti di El Mhaijrat la strada è più redditizia della spiaggia, e se il commercio sostituirà la pesca. Oggi si dividono tra le due attività.

Il negozio di Lamin è uno di quei posti dove tutto quello che è in vendita rispecchia l’austerità a cui è costretta la maggior parte della popolazione. Solo l’acqua si vende in grandi bidoni. Il resto – tè, caffè, tabacco, zucchero, riso, uova – si vende a unità o in minuscoli sacchetti di plastica adatti a un’economia familiare dove ogni pasto è un giorno guadagnato.

“Quindi arrivate da Nouadhibou?”, sorride Lamin, che ha voglia di chiacchierare e ci sta già raccontando la sua vita. Ricorda il giorno in cui, quando ancora era un bambino, scoppiò la guerra e la sua famiglia fu costretta a scappare dalla Güera, il quartiere spagnolo di Nouadhibou. E di come, in mezzo al caos, la famiglia si dovette dividere e lui non rivide più i genitori fino a cinque anni dopo, nel campo profughi di Tindouf, in Algeria. “Mia nonna fu uccisa da un aereo. Ci attaccavano i marocchini, i mauritani, i francesi. E gli spagnoli ci abbandonarono. Certo, ora mi vedete in questa desolazione. Magari un altro giorno mi ritroverete alle Canarie, a lavorare nel settore alberghiero. La vita può cambiare”, dice Lamin. Ci racconta di quando a Tindouf fu imbarcato con altri 35 bambini su un aereo diretto a Cuba, dove rimase poi per cinque anni ospite nella Isla de la Juventud.

Lamin parla dell’esilio, di famiglie sparse per il mondo, della lotta del Fronte Polisario. Storie tramandate oralmente, come quelle di tanti altri popoli dimenticati. Ci vorrebbero tante Svetlana Aleksievič per raccoglierle prima che vengano dimenticate man mano che i loro protagonisti scompaiono.

In mezzo al parco naturale la Cina ha cominciato a costruire un grande porto

“Vedremo mai nascere la Repubblica sahrawi?”.

“Dopo tante sofferenze, sarebbe giusto”, dice Lamin con sguardo sognante.

Uno dei militari della caserma del paese entra a salutare ed evita di parlare di cosa è giusto o no. Lamin manda il ragazzo che lo aiuta in negozio – il negozietto, la tiendita, dice con il suo dolce accento delle Canarie – a prendere dei sacchi di sabbia della duna. Il ragazzo torna con la sabbia, la stende sul tappeto dandole una forma quadrata. Il militare apre la borsa di stoffa che ha con sé. Tira fuori alcune palline nere, fatte con escrementi di cammello e qualche bastoncino ricavato da rametti di acacia. Disegna un reticolo di linee diagonali. Distribuisce i pezzi. Lamin sceglie i bastoncini. Se la prendono con calma. “Si gioca come a dama”. La partita può durare anche tre ore.

Ci lasciamo alle spalle il parco nazionale del Banco di Arguin, il territorio degli imraguen, una comunità d’origine berbera che da secoli si dedica alla pesca. La loro tecnica ancestrale consiste in un canto che invoca la complicità tra l’uomo e la natura. Gli imraguen usavano addentrarsi in mare formando un cerchio, camminando in zone poco profonde, ed erano i delfini a spingere verso le loro reti spiegate i banchi di pesce. Oggi questa pratica è scomparsa e gli imraguen pescano su barche tipiche delle Canarie, a vela latina. Fare il bagno in queste acque, dormire in una khaima cullati dal vento e dalle onde, svegliarsi con centinaia di migliaia di uccelli che volano imbiancando il cielo, l’acqua e la sabbia, mangiare un pesce _capitaine _o un’aragosta alla brace… Cosa si può chiedere di più?

Arriviamo a Nouakchott verso sera. L’illuminazione dei lampioni che comincia trenta chilometri prima della città, le pale eoliche che si susseguono accanto a gruppi di cammelli, capre e pecore, le file di alberelli che cercano di sopravvivere in vasetti di plastica che un camion innaffia a uno a uno con una pompa: sono la testimonianza più evidente della capacità di costruire dell’essere umano, della sua testardaggine quando si trova ad affrontare un progetto inverosimile, come la creazione di una città in mezzo al nulla.

Riempire il vuoto

Il giorno in cui fu proclamata l’indipendenza della Mauritania, Nouakchott, la città destinata a diventare la capitale, non esisteva ancora. Era solo una duna in un deserto che un tempo era stato un fondale marino – conchiglie e sabbia – con una piccola fortificazione costruita dai francesi, all’interno della quale alloggiavano quindici soldati al comando di un sergente. Sessant’anni dopo Nouakchott è la più grande città del Sahel.

Perché si decise di costruire una città in un luogo inospitale, battuto dal vento, senz’acqua dolce, senza una casa né una storia da raccontare? Il primo presidente mauritano, Moktar Ould Daddah, voleva che lo stato creato su un territorio colonizzato dai francesi partisse da zero. Rompesse con il passato. Che si costruisse un’identità nazionale fino ad allora inesistente. Avrebbe potuto scegliere come capitale la città di Port-Étienne, oggi Nouadhibou, o Rosso, sul fiume Senegal. Ma la prima era troppo a nord e la seconda troppo a sud. A nord predomina il mondo arabo e berbero, a sud il mondo nero africano. Costruire la capitale a metà strada era un modo per conciliare la diversità culturale del nuovo stato, dove tutto era ancora da fare.

Uno degli artefici della nuova città è stato l’architetto Tidiane Diagana. Siamo andati a trovarlo a casa sua. Diagana ricorda il suo primo viaggio con il presidente Daddah fino alla duna. Ricorda che le prime case furono delle _khaima _e che proprio in una di quelle tende si svolse il primo consiglio dei ministri. Che Nouakchott era chiamata la città dei cartelloni perché centinaia di cartelloni conficcati nella sabbia annunciavano quello che sarebbe stato costruito in seguito: la scuola, la moschea, il parlamento, l’ospedale. Il generale Charles De Gaulle andò a visitare la duna nel suo tour attraverso i paesi africani che stavano ottenendo l’indipendenza dalla Francia. Improvvisamente si scatenò il panico. Non c’era un letto abbastanza grande per il generale – alto un metro e novantasei – e dovettero andarlo a cercare a Saint-Louis, in Senegal. Di quegli anni Diagana ricorda soprattutto l’entusiasmo. Non c’era nemmeno l’acqua, racconta, e dovettero portarla con i secchi da Rosso fino a quando i francesi scavarono – e pagarono – alcuni pozzi nella regione di Idini e poi si costruirono le condotte fino al fiume Senegal che oggi riforniscono la città.

Lasciamo Nouakchott per dirigerci a sud. Viaggiamo in compagnia di un biologo di Madrid, José Manuel Baldó, detto Mané. Ci accompagna una forte tempesta di sabbia. A Tiguent troviamo Ivan e Goran. Uno è serbo, l’altro croato. Viaggiano in bicicletta. Vogliono ripercorrere la rotta dei migranti, ecco perché vanno da sud a nord, con il vento in faccia. In direzione contraria, dicono, perché è così che si chiama il loro progetto. Andare in direzione contraria: è proprio quello che fanno mettendosi insieme un serbo e un croato che vogliono attirare l’attenzione sull’orrore della guerra e che decidono di intraprendere il viaggio di quelli che – com’è capitato a loro durante l’infanzia – oggi vivono nuove guerre.

All’incrocio per Legweichich ci fermiamo a chiacchierare con alcuni giovani topografi e topografe dei laboratori promossi dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Stanno costruendo una strada per semplificare il trasporto di prodotti ittici. I loro genitori, spiegano, sono agricoltori e nomadi. Loro vogliono un’altra vita. Binta parla delle difficoltà delle donne in un mondo dominato dagli uomini. Prima di diventare topografa non aveva le idee chiare. Ora, dice, ama la topografia perché le permetterà di essere indipendente. Sta già progettando una vita in cui sarà lei a prendere le decisioni: “Non voglio essere una moglie in una famiglia poligama”.

Navighiamo lungo il delta del fiume in mezzo a una vegetazione di mangrovie e ogni sorta di uccelli. Gestendole bene, dice Mané, queste foreste di mangrovie potrebbero essere redditizie per la popolazione locale, che potrebbe “affittarle” alle aziende inquinanti per compensare le loro emissioni di gas serra, come prevede il protocollo di Kyoto.

Una famiglia di pescatori avanza senza motore, approfittando del vento, con una vela ricavata dai ritagli di una _khaima _sulla quale è ricamata la parola amore. Ci salutano con la mano. Alla fine del delta, nel bel mezzo del parco naturale la Cina ha cominciato a costruire un grande porto. C’è segretezza assoluta intorno a quest’opera faraonica, che comprende un porto militare, uno commerciale e un altro di pesca. Una baguette regalata a una delle guardie ci permette di entrare nella zona dei lavori. Vediamo una nave militare. Grandi edifici in costruzione. Piccole casette per gli operai. Un immenso appezzamento costellato di pannelli fotovoltaici.

In mare aperto, proprio davanti alla foce del fiume, è stato trovato un enorme giacimento di gas. Ora si teme che questa ricchezza naturale, che andrà divisa con il Senegal ed è estremamente necessaria a entrambi i paesi, possa essere una maledizione, alimentando la corruzione e modificando gli equilibri naturali senza alcun rispetto per l’ambiente. La Mauritania, che ha poco più di quattro milioni di abitanti, ha oggi le risorse sufficienti – oro, ferro, pesca, gas – per essere una Norvegia del sud.

N’Diago è l’ultima città mauritana prima di attraversare il fiume Senegal. Una città di pescatori tradizionali wolof. In questi ultimi mesi il livello del mare è salito tanto da portare via la prima fila di case. Non ci sono posti dove fermarsi a dormire, quindi raggiungiamo Kajara, un paesino tra dune bianche e palmeti. Amadou ci offre una casa. Dobbiamo lavarci. Un ragazzo va a cercare dei bidoni d’acqua. Si può mangiare? Andiamo dal capo del paese e ci presenta una donna che ci vende un pollo. E chi lo cucina? Nessun problema. Troviamo la donna che lo spennerà e lo metterà in padella. Con le cipolle va bene? Perfetto. Al risveglio Amadou si presenta con un vassoio di tè. Da lì a pochi giorni tornerà a pescare, ci spiega, è un capitano e ha la sua piroga. Magari verrà a trovarci in Spagna. “Mi piacerebbe molto”, dice salutandoci. ◆ sc

Bru Rovira è un giornalista spagnolo. Per venticinque anni è stato corrispondente del quotidiano catalano La Vanguardia. Oggi scrive soprattutto di temi sociali per vari giornali spagnoli. Il suo ultimo libro è Solo pido un poco de belleza (Ediciones B 2016).

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Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati