Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden non è più il candidato del Partito democratico alle presidenziali di novembre, ma resta da capire se la sinistra riuscirà a vincere senza di lui. Il 21 luglio Biden ha annunciato il ritiro, appoggiando la candidatura della vicepresidente Kamala Harris. La notizia, arrivata appena 107 giorni prima del voto, ha provocato un terremoto politico. I democratici sono sembrati subito rinvigoriti e si sono coalizzati intorno a Harris, anche per non rischiare ulteriori passi falsi in una corsa elettorale che sarà molto diversa dalle precedenti.
Nella storia moderna degli Stati Uniti nessuno ha mai vinto le presidenziali cominciando la campagna elettorale così in ritardo. La futura candidata del Partito democratico, oltre a non poter contare sulla forza che deriva dalla vittoria alle primarie, dovrà confrontarsi con l’ex presidente Donald Trump, che dopo aver lasciato la Casa Bianca non ha mai interrotto la campagna elettorale e che il 13 luglio è sopravvissuto clamorosamente a un attentato, un evento che ha dato la carica all’elettorato repubblicano.
Biden si è fatto da parte con una lettera pubblicata sul social network X dopo un mese di incertezze strazianti sia per lui sia per il suo partito. Il dibattito in tv del 27 giugno, in cui aveva risposto in modo confuso ed era apparso molto più debole di pochi mesi prima, aveva scatenato il panico tra i politici democratici, costringendoli seriamente a pensare di cambiare candidato.
Nelle settimane successive Biden aveva cercato di calmare le acque, senza riuscirci. Dopo aver aspettato quasi una settimana prima di confrontarsi con i parlamentari democratici, aveva cercato di rimediare partecipando a una serie di interviste ed eventi elettorali, in cui però non era riuscito a fugare i dubbi sulla sua salute. I finanziatori del partito si stavano tirando indietro, mentre i sondaggi rivelavano che la maggior parte degli elettori progressisti avrebbe voluto un cambio. Più di trenta parlamentari gli hanno chiesto pubblicamente di rinunciare alla nomination, mentre in privato i leader più influenti, come Nancy Pelosi e Barack Obama, hanno fatto pressione perché abbandonasse la corsa. “Ci sono persone che hanno letteralmente provato a seppellire la carriera politica di Joe Biden. Ciò che è successo è il risultato di un massacro pubblico”, accusa un ex funzionario della Casa Bianca. “Anche se avesse voluto, il presidente non avrebbe mai potuto sopravvivere a questo attacco”.
Prospettiva ribaltata
Da tempo i sondaggi indicano che una solida maggioranza degli elettori è scettica sia su Trump sia su Biden. Harris al momento non sembra molto più popolare, ma ha un’immagine politica meno definita rispetto a quella di Biden, e questo offre a entrambi gli schieramenti l’occasione di rimescolare le carte. La vicepresidente, che in passato è stata procuratrice di San Francisco e procuratrice generale della California (la procuratrice generale è responsabile dell’applicazione della legge in uno stato, ed è eletta dai cittadini ogni quattro anni), si è dimostrata estremamente efficace durante le udienze in senato e nei dibattiti televisivi. Nella sua campagna per le primarie democratiche del 2020 il momento migliore era arrivato quando aveva attaccato Biden per aver collaborato con un politico favorevole alla segregazione razziale.
Harris, 59 anni, ha origini giamaicane da parte di padre e indiane da parte di madre. Nel paragone con Donald Trump, che ha 78 anni e appartiene alla generazione dei baby boomer (le persone nate subito dopo la seconda guerra mondiale), emerge un evidente contrasto generazionale. Sostituendo un presidente arrivato alla soglia degli 81 anni con una donna molto più giovane, i democratici punteranno sul divario di età. Ora Trump è il più anziano candidato nella storia degli Stati Uniti.
L’ottimismo dei democratici è alimentato anche dal discorso pronunciato il 19 luglio da Trump, durante la convention del Partito repubblicano. Nei primi quindici minuti del suo intervento l’ex presidente ha parlato della necessità di restare uniti, facendo riferimento all’attentato subìto, ma poi si è lanciato in un’invettiva di novanta minuti, aggressiva e noiosa, contro i suoi avversari politici, convincendo molti democratici che la battaglia sia ancora aperta.
Resta il fatto che quattro anni fa Biden è riuscito a sconfiggere Trump, mentre l’unica campagna elettorale nazionale di Harris, per le primarie del 2020, si è conclusa in modo fallimentare. Inizialmente favorita (anche grazie al sostegno dell’establishment e dei finanziatori democratici), Harris aveva perso consensi con il passare delle settimane, cambiando più volte i collaboratori e tentennando sul sostegno all’assistenza sanitaria per tutti, per poi ritirarsi ancora prima che gli elettori cominciassero a votare.
Biden l’aveva scelta come candidata vicepresidente dopo aver promesso che avrebbe nominato una donna, e in un momento in cui riceveva forti pressioni per scegliere una persona non bianca, mentre nel paese scoppiavano le proteste antirazziste del movimento Black lives matter. Aveva poche alternative tra i parlamentari democratici di primo piano.
Bakari Sellers, ex deputato della South Carolina e sostenitore di lunga data di Harris, sottolinea il lungo percorso compiuto dalla vicepresidente, convinto che nei tre anni trascorsi nella Casa Bianca abbia acquisito esperienza, abilità e carisma. “Oggi è molto diversa dal passato”, spiega Sellers. “È migliorata come persona, come politica e come funzionaria pubblica. Si è formata sul campo”.
Per mesi Trump e la sua squadra hanno basato la loro strategia sulle aggressioni contro il presidente in carica, ma la settimana scorsa alla convention è apparso chiaro che stavano cominciando a prepararsi per l’entrata in scena di Harris, attaccandola ripetutamente dal podio su diversi temi, in particolare l’immigrazione.
Dopo la notizia del ritiro di Biden, i collaboratori di Trump l’hanno immediatamente presa di mira. “Kamala Harris è ridicola quanto Joe Biden”, hanno scritto in un comunicato Chris LaCivita e Susie Wiles, i due presidenti della campagna elettorale repubblicana. “Sono entrambi responsabili per la pessima situazione del paese. Tra loro non c’è nessuna differenza. Harris difenderà la fallimentare amministrazione Biden E ANCHE le posizioni progressiste e deboli sul crimine che ha sostenuto in California”.
Il comitato nazionale repubblicano ha subito diffuso un video in cui incolpa Harris di alcune delle crisi che Biden non è riuscito a risolvere, soprattutto quella descritta come un’invasione di migranti al confine con il Messico. Nel filmato Harris è presentata come “la responsabile della politica migratoria” di Biden, anche se nessuno all’interno dell’amministrazione ha mai usato questa definizione.
Attacchi da destra
Negli ultimi decenni non era mai capitato che uno dei due grandi partiti non avesse un candidato in una fase così avanzata della campagna elettorale. Inoltre è la prima volta dal 1968 che un presidente in carica sceglie di non ricandidarsi. All’epoca era stato Lyndon Johnson a farsi da parte, spinto dalle proteste contro la guerra in Vietnam. Il favorito per sostituirlo, Robert F. Kennedy, fu assassinato poche settimane dopo. Nell’estate del 1968 la convention nazionale democratica si tenne a Chicago in un clima segnato dal caos e dalle lotte intestine sul nome del candidato, mentre all’esterno dell’edificio la polizia reprimeva nel sangue le proteste dei pacifisti. Quel contesto favorì inevitabilmente la vittoria di Richard Nixon.
Il ricordo del 1968 è ancora vivo nella memoria dei democratici. Ora sperano che la storia non si ripeta il mese prossimo, quando comincerà la convention (ironia della sorte, proprio a Chicago) e sono previste contestazioni degli attivisti che chiedono la fine della guerra nella Striscia di Gaza. Considerando che mancano poche settimane all’appuntamento, il ritiro di Biden ha lasciato al partito poco margine di manovra. Dopo che tutti i principali leader democratici hanno appoggiato Harris, è improbabile che le giornate di Chicago possano riservare sorprese.
La vicepresidente è stata avvantaggiata anche dal fatto di poter ereditare facilmente i fondi raccolti finora dai democratici per la campagna elettorale (visto che era già candidata come vicepresidente), cosa che probabilmente non potrebbe fare un altro eventuale candidato. I repubblicani potrebbero contestare il diritto di Harris a usare quei soldi (come ha suggerito un loro esponente della Federal election commission, l’agenzia governativa che regola i finanziamenti delle campagne elettorali) ma si tratta di una procedura complicata che difficilmente potrebbe avere un esito positivo.
Alcuni commentatori sostengono che il procedimento in corso rischia di sembrare poco democratico, consolidando l’idea che Harris sia la candidata scelta dai vertici del partito e non dal popolo. Una dinamica che contrasterebbe con il messaggio dei democratici, secondo cui Trump e i repubblicani rappresentano una minaccia per la democrazia visto il loro rifiuto di accettare la sconfitta del 2020, culminato nell’assalto del 6 gennaio 2021 al congresso. Alcuni leader repubblicani, come lo speaker della camera Mike Johnson, hanno detto addirittura che il cambio di candidato potrebbe essere illegale perché in contrasto con il risultato delle primarie, e hanno detto di voler fare ricorso.
È difficile che queste minacce abbiano effetti concreti, ma dimostrano che per i democratici la situazione è ancora complicata. Nessuno vorrebbe affrontare un caos simile alla vigilia delle elezioni, ma è innegabile che dopo il disastroso dibattito con Trump la stella di Biden era sbiadita rapidamente, al punto che una sua sconfitta sembrava ormai quasi sicura. Ora i democratici scopriranno se il cambio al timone potrà dare una svolta alla gara. ◆ as
◆ Il 21 luglio 2024 il presidente statunitense Joe Biden ha ritirato la sua candidatura alle elezioni presidenziali di novembre, cedendo alle pressioni di chi da settimane gli chiedeva di farsi da parte a causa della sua età (ha 81 anni). Biden ha detto che appoggerà la sua vice Kamala Harris. La scelta su chi lo sostituirà spetta ai delegati, circa quattromila tra funzionari, dirigenti e attivisti del partito, eletti con le primarie che si sono tenute all’inizio dell’anno (e che Biden ha stravinto perché era di fatto senza avversari). I delegati dovrebbero esprimersi durante la convention che si terrà a Chicago tra il 19 e il 22 agosto. Ma non è escluso che, visto il consenso solido per Harris emerso negli ultimi giorni, i delegati si pronuncino in anticipo, con un voto online che era previsto già prima del ritiro di Biden. Harris ha già conquistato il sostegno di un numero sufficiente di delegati.
Una volta nominata, la persona scelta per sfidare il repubblicano Donald Trump dovrà indicare il candidato o la candidata alla vicepresidenza. Secondo i commentatori, Harris potrebbe scegliere Josh Shapiro, il governatore della Pennsylvania, o Roy Cooper, governatore della North Carolina.
Nel giro di poche ore il comitato elettorale di Harris ha raccolto più di ottanta milioni di dollari di donazioni, in gran parte provenienti da singoli elettori che finora non avevano ancora contribuito alla campagna. I sondaggi delle prossime settimane daranno qualche indicazione in più. Quelli condotti prima del ritiro di Biden fanno pensare che Harris potrebbe fare più presa di lui tra le donne non bianche, i giovani e gli elettori indipendenti. Npr, Bbc
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Questo articolo è uscito sul numero 1573 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati