Il 28 giugno padre Francisco de Roux, presidente della commissione per la verità in Colombia, ha presentato la relazione finale sulla guerra civile e, nel suo discorso, ha fatto una serie di domande a cui è difficile rispondere. “Perché i colombiani e le colombiane hanno tollerato questa frammentazione interna, come se non li riguardasse? Perché abbiamo osservato i massacri in tv come se fosse un romanzo di poco valore?”. De Roux ha citato i sequestri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), le stragi commesse dai paramilitari e le esecuzioni sommarie dell’esercito. Ma durante i sessant’anni di conflitto, ha sottolineato, le vittime sono state soprattutto civili. Le domande poste dal sacerdote non erano rivolte solo alle persone attivamente coinvolte nella guerra, ma a tutti i colombiani. “Cos’ha fatto la società? Cos’ha fatto lo stato?”, ha chiesto.
Il rapporto – un volume di quasi novecento pagine – è un documento storico ricco di numeri, date e quasi trentamila testimonianze. Ma è anche un testo che cerca di andare oltre, analizzando le emozioni dei colombiani e la cultura di una società in guerra. Già nell’introduzione chiede se la violenza non sia ancora presente nonostante diversi processi di pace, non solo a causa del narcotraffico e del mercato delle armi ma anche per la mancanza di solidarietà. “La Colombia deve impegnarsi per cambiare l’assenza di empatia con questo dolore”, si legge nel rapporto. “In contesti come quello colombiano, segnato da una violenza collettiva diffusa e prolungata, il distacco emotivo e la perdita di sensibilità sono conseguenze psicologiche che colpiscono tutti”.
La costruzione del nemico ha oltrepassato le relazioni personali
Tutti sono nemici
Il documento dedica un capitolo speciale alla cultura nella guerra. Gli autori insistono su un concetto fondamentale, cioè l’idea del nemico interno. “Un elemento centrale che potrebbe spiegare la persistenza del conflitto è la stigmatizzazione come meccanismo di costruzione del nemico e come base per la persecuzione e lo sterminio fisico, sociale e politico”, si legge nel rapporto. “Questo meccanismo si è installato nella nostra cultura come estensione dei tanti pregiudizi che hanno accompagnato la costruzione della nazione”.
Chi è il nemico interno? Tutti, secondo la commissione per la verità. Per le Farc i nemici erano gli imprenditori e le élite, oltre che i militari. L’esercito e i paramilitari puntavano il dito contro i movimenti sociali, i partiti di sinistra e i guerriglieri. I colombiani non armati hanno ereditato tutti questi nemici e così è cresciuta la diffidenza ed è scomparsa l’empatia.
Il concetto di nemico interno ha due storie separate, una più attuale e l’altra più lontana nel tempo. Il rapporto sottolinea che “dagli anni sessanta in poi la dottrina del nemico interno si è infiltrata nella cultura nazionale”. Nella seconda metà del novecento il nemico era il militante di sinistra, e questo dipendeva dall’ingerenza degli Stati Uniti che volevano combattere il comunismo. Il documento sottolinea le raccomandazioni statunitensi accolte dal governo del presidente colombiano Alberto Lleras Camargo (1958-1962) in una serie di decreti, ma chiarisce che furono adottate “non solo a causa dell’influenza di Washington ma anche perché utili ai settori che controllavano il potere politico, economico e sociale”.
Gli autori hanno recuperato un _Manuale operativo contro le forze irregolari _del 1962, che già metteva a rischio i cittadini comuni. “La stretta relazione tra la popolazione civile e le forze irregolari può richiedere misure drastiche di controllo”, si legge nel testo militare. Un altro manuale, del 1976, consentiva all’esercito di suddividere la popolazione in tre gruppi: liste bianche che appoggiavano i militari, liste nere che sostenevano i sovversivi e liste grigie, cioè gli indecisi. Nelle zone in cui erano attivi i gruppi ribelli, qualsiasi civile era sospettato. Come ha detto un indigeno alla commissione per la verità, per l’esercito nel suo territorio “tutti i nativi erano guerriglieri” .
Il nemico interno è cambiato con il protrarsi del conflitto: se all’inizio era il comunismo, con il governo di Richard Nixon negli Stati Uniti e la sua dichiarazione di guerra alle droghe diventò il narcotraffico. Questo passaggio portò alla criminalizzazione del boss del narcotraffico Pablo Escobar, ma anche di centinaia di contadini che coltivavano la coca nelle zone più povere del paese.
Dopo gli attacchi contro le torri gemelle nel 2001, a New York, il nemico è stato identificato con il terrorista o il narcoterrorista.
La narrazione militare del nemico interno si è estesa anche ad altre sfere sociali. Il rapporto cita un episodio del 2003 in cui l’ex presidente colombiano Álvaro Uribe, di destra, reagì a un libro critico pubblicato da un gruppo di ong definendo gli autori “politicanti al servizio del terrorismo”. Perfino l’organizzazione di attivisti per i diritti umani Programa de desarrollo y paz del Magdalena Medio – fondata da Francisco de Roux – fu segnalata nel 1998 dalla polizia. Si sospettava che gli attivisti fossero collaboratori dell’organizzazione guerrigliera dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln).
Il nemico interno, insomma, poteva essere chiunque. Se una persona scompariva o era uccisa, la società civile alimentava i sospetti con frasi come “di sicuro si era immischiato in qualcosa”, “probabilmente ha avuto un ruolo in quello che è successo”, “ci si può aspettare tutto da questa gente”.
“La costruzione del nemico ha oltrepassato le relazioni personali e intime”, si legge nel rapporto, “coinvolgendo le istituzioni, il modo d’interpretare e applicare la legge e soprattutto la politica, che per definizione è il luogo della difesa del bene comune. E così la democrazia si è indebolita”. I mezzi d’informazione in alcuni casi hanno indagato sui crimini della guerra, ma in altri “hanno favorito la violenza stigmatizzando e censurando alcuni temi. E questo ha inciso sulla cultura e sul modo di relazionarsi tra le persone”.
Corpi oltraggiati
Secondo il rapporto, l’idea del nemico interno ha comunque un’origine antica. “La nostra cultura ha ereditato una visione escludente nei confronti dell’altro, dei popoli nativi, del contadino povero, del dissidente”, scrivono gli autori. “La diffidenza per il diverso non è nata con il conflitto armato, anche se è aumentata in quegli anni”. Il rapporto fa riferimento a una storia di esclusione che affonda le sue radici nella colonizzazione spagnola, quando cominciò un processo di concentrazione della proprietà terriera e si affermò un sistema di dominio razzista, classista e maschilista che aveva bisogno di qualcuno con cui prendersela. Citando lo storico Jorge Orlando Melo, il documento sottolinea che “in questo modo è nata la prima immagine del ‘nemico interno’ nella storia della Colombia, un’immagine associata al nero o all’indigeno ribelle che non accettava un’autorità imposta con la forza e per questo era indicato come responsabile della violenza esercitata contro di lui”.
Questa giustificazione potrebbe sembrare velleitaria, ma secondo alcune testimonianze fornite dalle vittime del conflitto e raccolte dalla commissione, nella violenza della fine degli anni sessanta riecheggiava un sistema culturale razzista e coloniale. Una donna afrodiscendente del Caribe ha raccontato di essere stata torturata da un gruppo di paramilitari e marchiata con un ferro incandescente. “È ancora qui con me, non ho potuto dimenticare niente”, ha detto la donna. “Credo che quell’uomo mi abbia segnata perché sono nera. Mi ha trattata come se fossi una schiava. Quando c’era la schiavitù marchiavano le donne nere e i paramilitari hanno fatto lo stesso con me”. In Colombia la schiavitù fu abolita nel 1851, dopo l’indipendenza, ma non significa che sia scomparsa l’idea secondo cui i corpi possono essere oltraggiati e violentati.
Il rapporto della commissione non ha valore giuridico e non è una base per nessuna condanna penale. Ma, come uno specchio, riflette gli atteggiamenti che per più di sessant’anni hanno distrutto la solidarietà in Colombia. Come ha spiegato il professore Germán Rey, lavori simili “hanno già cominciato a creare nuovi modi di rappresentazione della verità”.
Il richiamo alla solidarietà da parte della commissione è arrivato pochi giorni prima dell’incontro tra il presidente eletto Gustavo Petro (di sinistra) e il suo più grande avversario politico, l’ex presidente Uribe. Per molte persone vicine all’uribismo, Petro è sempre stato un guerrigliero (da giovane militò nel gruppo M-19). Per i sostenitori di Petro, Uribe è un alleato dei paramilitari. Non sappiamo cosa nascerà da quest’incontro, ma vederli seduti vicini è già un passo avanti verso la scomparsa del fantasma del nemico interno. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati