È strano vedere la propria foto tra le schede dei ricercati. E quando sotto la foto c’è anche una ricompensa, ci si sente come un criminale in un film western. È quello che mi è successo la sera di capodanno. Il ministro dell’interno turco aveva inserito il mio nome tra quelli dei terroristi più ricercati del paese, con la foto che avevo usato anni fa per la richiesta di rinnovo del passaporto. Nella lista, insieme a me, c’erano persone che combattono nelle montagne contro i soldati turchi o che sono accusate di aver preso parte al tentato colpo di stato nel 2016. Io non ho ucciso nessuno, non ho piazzato bombe né ho rapinato banche. Il mio “crimine” è aver provato che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha fornito di nascosto armi ai jihadisti in Siria attraverso i servizi segreti turchi. La notizia è stata ripresa da agenzie di stampa internazionali, ma qui in Turchia mi è costata una pena a 27 anni e mezzo di carcere, un periodo in cella d’isolamento, un attentato a cui sono scampato e la confisca di tutti i miei beni, oltre all’esilio. Ma per Erdoğan non era abbastanza. “Pagherà un caro prezzo”, aveva detto quando è stato pubblicato l’articolo. Ha mantenuto la promessa: ora mi chiama terrorista e ha messo una ricompensa di 500mila lire turche sulla mia cattura, circa 25mila euro.

Niente di nuovo, in fondo. Il presidente ha chiesto più volte all’Interpol d’inserire il mio nome nella lista dei ricercati e di emettere un mandato di arresto internazionale nei miei confronti. Ogni volta l’istanza è stata respinta perché le motivazioni politiche di Erdoğan erano chiare. In visita in Germania nel 2018, in una conferenza stampa congiunta con Angela Merkel mi aveva chiamato “spia”e aveva chiesto la mia consegna. “È un giornalista. Su questo non siamo d’accordo”, aveva replicato la cancelliera.

Io non ho ucciso nessuno. Il mio “crimine” è aver provato che il presidente turco ha fornito di nascosto armi ai jihadisti in Siria

Perché tanta ostinazione? Perché questo passo proprio ora? Da capodanno mi ripeto queste domande. Le risposte sono tante. Un primo indizio si può rintracciare nelle parole di Thomas Haldenwang, direttore dell’ufficio federale tedesco per la difesa della costituzione. In una recente intervista all’agenzia di stampa tedesca Dpa, Haldenwang ha dichiarato: “I conflitti interni turchi vengono risolti qui. I giornalisti dell’opposizione sono spiati e intimiditi in Germania”. Non è vero che ci lasciamo tutti intimidire. Continuiamo a raccontare le elezioni turche dalla Germania, dato che i mezzi d’informazione turchi non possono parlarne, e per questo continuiamo a essere sotto tiro. Ma è vero che siamo spiati. Nella “lista grigia” dei terroristi di Erdoğan, oltre a me, ci sono altri quattordici giornalisti. La maggior parte lavorava per mezzi d’informazione vicini al movimento di Fetullah Gülen, che è ritenuto responsabile di aver organizzato il tentato golpe contro Erdoğan del 15 luglio 2016. A settembre Sabah, uno dei quotidiani controllati dal presidente, ha pubblicato una foto del giornalista Cevheri Güven, anche lui nella lista, davanti alla porta di casa sua in Assia, rendendolo così un facile bersaglio. Nel suo canale YouTube, seguito da mezzo milione di persone, Güven svela gli episodi di corruzione in cui è coinvolta la cerchia vicina al presidente turco. I suoi video raggiungono milioni di persone.

Anche Abdullah Bozkurt, direttore del sito Nordic Monitor, è nella lista grigia ed è stato aggredito da tre uomini davanti alla sua abitazione in Svezia. Nel marzo 2022 a Stoccolma Ahmet Dönmez, un altro giornalista nell’elenco, è stato picchiato da due uomini davanti agli occhi della figlia di sei anni ed è finito in rianimazione. Un metodo della campagna d’intimidazione citata da Haldenwang è ricorrere a criminali con base all’estero per far tacere i dissidenti. Un altro è rimpatriarli in Turchia attraverso accordi bilaterali oppure con operazioni dei servizi segreti.

Una volta fuggito in Ucraina, Nuri Gökhan Bozkır, il principale testimone del mio reportage su come i servizi segreti turchi hanno fatto arrivare le armi nelle mani dei ribelli siriani, ha pubblicato sulla stampa locale ulteriori informazioni su quel traffico di armi. Poco dopo Erdoğan è arrivato a Kiev e, al termine di un colloquio con il presidente Zelenskyj ha dichiarato: “Ho chiesto l’estradizione di Bozkır. Per noi è della massima importanza”. Ma l’Ucraina non l’ha consegnato. Quando poi nel marzo 2021 è cominciata l’invasione russa, Zelenskyj ha chiesto alla Turchia molti droni militari. Nelle negoziazioni, Ankara ha preteso ancora una volta l’estradizione di Bozkır, che alla fine è stato consegnato. Erdoğan l’ha definito “un successo dei servizi segreti”.

Con le elezioni previste per aprile, Erdoğan cerca di prevenire la guerra delle informazioni con la caccia all’uomo

Il presidente ha dimostrato la sua capacità di usare la crisi ucraina come opportunità politica. Quando, in un vertice del giugno 2022, è stato chiesto alla Turchia di ratificare l’adesione della Svezia e della Finlandia alla Nato, ha tirato fuori un elenco di 73 nomi e ha detto: “Se non estradate questi terroristi, il nostro consenso è in dubbio”. Nella lista c’era anche Amineh Kakabaveh, all’epoca deputata del parlamento svedese di origine curda. Per Erdoğan è una “sostenitrice del Pkk che è riuscita a entrare in parlamento” ma deve essere estradata. Il ministro della giustizia svedese ha fatto notare che nel suo paese ci sono giudici indipendenti a vigilare sul rispetto delle leggi. “Allora cambiate le leggi”, ha replicato il presidente turco.

Erdoğan ha preso di mira i due paesi scandinavi proprio nel momento in cui erano minacciati dalla Russia. A un certo punto il governo di Stoccolma si è seduto al tavolo delle trattative e ha promesso di revocare l’embargo svedese sulle armi alla Turchia, di mantenere le distanze dalle organizzazioni curde che combattono lo Stato islamico in Siria e di vietare la propaganda contro la Turchia. A dicembre Mahmut Tat, uno dei giornalisti nella lista di Erdoğan, è stato estradato dalla Svezia e arrestato in Turchia. In seguito Stoccolma ha modificato la sua costituzione per poter limitare la libertà di riunione ai gruppi con legami con il terrorismo, e ha rivisto la definizione giuridica di terrorismo. Ma nemmeno queste modifiche hanno permesso la consegna dei giornalisti. La corte suprema svedese ha respinto la richiesta di estradizione del giornalista Bülent Keneş.

Un altro teatro della caccia all’uomo di Erdoğan sono gli Emirati Arabi Uniti. Il boss mafioso Sedat Peker, noto da anni come sostenitore del presidente, è fuggito dalla Turchia nel 2020 trovando rifugio negli Emirati Arabi Uniti, ai tempi ai ferri corti con Ankara. Lì ha girato dei video e ha cominciato a rivelare crimini commessi dai funzionari governativi con cui prima collaborava. In Turchia queste prove hanno raggiunto milioni di persone, mettendo il governo in difficoltà. Nel suo ultimo video Peker ha annunciato che avrebbe fatto i conti con Erdoğan prima delle elezioni. Era pronto a svelare altri segreti del palazzo. Ma a quel punto Ankara è intervenuta. Nel febbraio 2022 il presidente turco è andato ad Abu Dhabi. Sono stati firmati tredici accordi bilaterali. Nel video pubblicato dopo quella visita, Peker ha spiegato di aver ricevuto un avvertimento dai funzionari degli Emirati e che “a causa di un alto rischio per la sua sicurezza” avrebbe dovuto smettere di pubblicare i video. Di recente persone a lui vicine hanno rivelato che, sapendo di rischiare la vita, Peker ha salvato tutte le informazioni in suo possesso e le ha inviate in due paesi diversi. Se fosse ucciso, l’opinione pubblica turca verrebbe a conoscenza di tutto.

È come se la Turchia non stesse affrontando delle elezioni, ma uno scontro all’ultimo sangue. Con il voto anticipato previsto a maggio, Erdoğan sta cercando di prevenire la guerra delle informazioni con la caccia all’uomo. Ha dato del terrorista a chiunque avesse pubblicato qualcosa di sfavorevole nei suoi confronti o avesse lasciato trapelare informazioni, tanto che la lista dei presunti terroristi è arrivata ormai a comprendere quasi due milioni di persone. La Turchia è così il paese con il maggior numero di terroristi al mondo. Il comportamento del presidente non fa discutere solo in Turchia, ma anche in molti altri paesi, tra cui Germania, Svezia, Finlandia e Ucraina.

Secondo il rapporto del 2021 di Freedom house, un’organizzazione statunitense che difende i diritti umani, le campagne di repressione del governo turco all’estero sono aumentate dopo il fallito colpo di stato del 2016. Il regime di Erdoğan dà la caccia agli oppositori in almeno 31 paesi tra Stati Uniti, Europa, Medio Oriente, Africa e Asia. Ci sono stati 58 casi di estradizione o sequestro. Le liste di proscrizione, i ricatti, i rapimenti di esponenti dell’opposizione e le vessazioni da parte di gruppi criminali non basteranno a garantire la vittoria elettorale a un regime oppressivo. Bastano, però, a screditare sul piano dei diritti umani i governi che collaborano con quel regime. ◆ nv

Can Dündar è un giornalista turco. Mentre era direttore del quotidiano Cumhuriyet è stato arrestato e incarcerato. Vive in esilio in Germania, dove ha fondato il sito d’informazione Özgürüz. Il suo ultimo libro è Erdoğan. Il nuovo sultano (Nutrimenti 2022).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati