Celso Simbine cammina svelto lungo le stradine di Cidade de Pedra, sull’Ilha de Moçambique (Isola di Mozambico), lungo la costa settentrionale del paese, con una bombola da sub su una spalla e una borsa con l’attrezzatura per le immersioni sull’altra. Dodici anni fa Simbine non sapeva ancora nuotare, anche se era cresciuto in una città di mare. Oggi l’uomo ha 32 anni e sta raggiungendo i suoi colleghi su una spiaggia per un’immersione nell’oceano Indiano. Insieme a lui ci sono un altro mozambicano, un senegalese e un brasiliano: sono i giovani archeologi subacquei neri che fanno parte di un team internazionale impegnato nell’esplorazione di quello che potrebbe essere il relitto dell’Aurore, una nave schiavista francese del settecento.

La squadra si è riunita in Mozambico per due settimane di immersioni esplorative e di lezioni in aula coordinate dallo Slave wrecks project (Swp, Progetto relitti navi schiaviste), un programma dedicato alla ricerca in tutto il mondo dei relitti di queste navi e alla formazione di archeo­logi subacquei africani e afrodiscendenti. Lo scopo è fornire alle comunità locali le conoscenze e le risorse per identificare, preservare e raccontare le storie dei naufragi avvenuti nelle loro acque. “Gran parte della storia africana è stata scritta da una prospettiva eurocentrica”, afferma Simbine, che insegna all’università Eduardo Mondlane nella capitale Maputo ed è dottorando in archeologia marina all’università di Pretoria, in Sudafrica.

La squadra parte su tre barche a motore da una spiaggia vicino al forte di São Sebastião, una struttura difensiva del cinquecento usata dai portoghesi per rinchiudere le persone ridotte in schiavitù. Le barche superano a gran velocità alcuni pescherecci, dirigendosi verso il luogo del naufragio. L’obiettivo è individuare le sezioni della nave, identificare la parte dell’imbarcazione su cui stanno già lavorando e raccogliere informazioni sulla sua costruzione e sulla dinamica del naufragio.

Rivolta a bordo

L’Swp ha cominciato a cercare l’Aurore nel 2015 quando un archivista, Richard Allen, ha trovato a Mauritius un resoconto del naufragio scritto dal capitano della nave e l’ha sottoposto al progetto Swp, che ha individuato il sito nel 2022. Secondo il documento, nel novembre 1789 la nave francese lasciò quella che oggi è l’isola di Mauritius diretta in Mozambico per caricare delle persone ridotte in schiavitù lungo la rotta verso la sua destinazione finale, cioè i Caraibi francesi.

Nel gennaio 1790, mentre le persone venivano fatte salire sulla nave nel porto dell’Ilha de Moçambique, i 365 che erano già saliti a bordo tentarono un ammutinamento e quattro affogarono. A causa della rivolta, l’equipaggio rinchiuse gli uomini nelle stive. Donne e bambini furono tenuti sul ponte. Un mese dopo, quando la nave era pronta a partire, ci fu una tempesta. L’equipaggio rifiutò di aprire le stive finché l’imbarcazione non cominciò ad affondare. Quando aprirono il portello era troppo tardi: erano morte 331 persone.

“Fu omicidio”, afferma Steve Lubkemann, un archeologo subacqueo statunitense, cofondatore dell’Swp. “Non c’è altro modo per definirlo. È un aspetto della tratta degli schiavi spesso trascurato: le persone non si lasciavano prendere docilmente”.

“L’Aurore fu un simbolo della resistenza e della rivolta di persone nere che non volevano essere strappate alla loro terra”, aggiunge Simbine.

La nave ha una sua rilevanza archeologica perché si è conservata molto bene. “Forse è il miglior esemplare di nave schiavista del settecento”, afferma Marc-André Bernier, l’archeologo subacqueo canadese che ha sviluppato il programma di formazione dell’Swp, aggiungendo che questa ricerca aiuterà i suoi colleghi a comprendere la struttura di altre navi schiaviste e com’era organizzata la vita al loro interno.

Non è ancora confermato che il relitto sia quello dell’Aurore, ma alcuni elementi lo fanno pensare: la nave giace proprio nell’area descritta dal racconto del capitano; l’imbarcazione fu costruita usando le tecniche francesi dell’epoca; la zavorra trovata nel relitto proveniva da Mauritius, l’ultimo scalo che fece prima del Mozambico.

Più di mille navi

L’Swp è stato lanciato nel 2008 da quattro istituzioni – la statunitense George Wash­ington university, i musei Iziko del Sudafrica, il centro risorse sommerse del servizio dei parchi nazionali statunitense e l’agenzia sudafricana per le risorse e il patrimonio (Sahra) – per attirare l’attenzione sullo studio dei relitti delle navi schiaviste e per rafforzare competenze e capacità nella ricerca in archeologia subacquea. Nel 2013 si sono uniti il museo nazionale della storia e cultura afroamericana dello Smith­sonian institute e l’organizzazione non profit Diving with a purpose. Nel 2015 il progetto ha identificato la São José Paquete Africa, una nave schiavista portoghese naufragata nel 1794 nei pressi del Capo di Buona Speranza, in Sudafrica. È stato il primo ritrovamento del relitto di una nave affondata mentre trasportava persone ridotte in schiavitù.

Secondo gli archivi, in varie parti del mondo affondarono più di mille navi coinvolte nella tratta transatlantica, per la quale furono schiavizzati più di dodici milioni di africani. Meno di una decina di relitti è stata localizzata e studiata come sito archeologico.

Un motivo è lo scarso valore economico delle navi, che non incentiva le persone a cercare i relitti, spiega Kamau Sadiki, uno dei dirigenti di Diving with a purpose. “Non c’era molto oro su quelle navi”, spiega Sadiki. “Ma dal punto di vista culturale e storico, trovarle è fondamentale. Perché il periodo della riduzione in schiavitù degli africani è stato probabilmente quello che ha avuto le conseguenze più profonde nel mondo”.

Sul fondo

Un’altra ragione è la scarsa presenza di afrodiscendenti nell’archeologia subacquea, osserva Jay Haigler, tra i fondatori di Diving with a purpose. “Gli archeologi marini sono i primi ad arrivare sulla scena, che in realtà è una scena del crimine”, dice. “Quale interesse può avere il 99 per cento delle persone che lavorano in questo campo a esplorare un’attività che non mette in buona luce l’umanità?”.

Cézar Mahumane, un archeologo marino mozambicano, che come Simbine ha cominciato la sua formazione con l’Swp nel 2013, oggi dirige il centro per la ricerca e le risorse archeologiche dell’Ilha de Moçambique (Cairim). Portando alla luce le storie nascoste del loro popolo e dei loro paesi, gli allievi imparano a mettere in discussione la storia che hanno studiato. “Ora possiamo raccontarla dalla nostra prospettiva”, dice. “Sono orgoglioso di partecipare e non vedo l’ora di formare altre persone per condividere con loro le mie conoscenze”.

L’Swp vuole aprire centri di formazione in Senegal e in Brasile, dove sono stati individuati i relitti di altre navi schiaviste. Nel dicembre 2023 alcuni sub hanno localizzato in Brasile i resti della Camargo, una nave che secondo gli archeologi fu deliberatamente incendiata e affondata dall’unico commerciante di schiavi statunitense messo a morte per questo commercio.

“Non basta formare le persone. Bisogna aiutarle a costruire un’istituzione”, dice Lubkemann.

In Mozambico il team comprende rappresentanti della comunità che assistono gli archeologi e s’immerge al mattino per mappare, scavare e fotografare l’Aurore, rimuovendo delicatamente la sabbia per scoprire la struttura sottostante. In due settimane gli scavi hanno rivelato che il relitto è adagiato su un fianco e che alcune porzioni della nave sono intatte. Nel pomeriggio i componenti della sua squadra frequentano lezioni di project management, sicurezza durante le immersioni e princìpi di recupero di manufatti. Tra i mentori ci sono anche il brasiliano Gilson Rambelli, capo di una spedizione per la ricerca della Camargo vicino a Rio de Janeiro, e i sudafricani Jaco Boshoff, responsabile scientifico della spedizione per trovare il São José Paquete Africa, e Jonathan Sharfman, impegnato nella stessa missione.

Nel relitto dell’Aurore gli archeologi hanno trovato ceramiche, pallini di piombo e coperchi per barili, ma il loro obiettivo è capire la struttura dell’imbarcazione. Potrebbero decidere di prelevare alcuni manufatti, ma comunque non c’è un progetto per riportare in superficie la nave.

“Non è necessario per raccontare la sua storia”, afferma Lubkemann, facendo l’esempio del São José Paquete Africa, dal quale sono stati prelevati alcuni manufatti esposti allo Smithsonian institute a Washington. Un’altra ragione per lasciarla dov’è, osserva, è che in quel posto morirono delle persone. “Non ci sono i corpi, però è il luogo di una tragedia. Va trattato con rispetto”, spiega.

Nel settecento e nell’ottocento il Mozambico ebbe un ruolo importante nel commercio mondiale degli schiavi. Centinaia di migliaia di mozambicani furono venduti nella tratta atlantica, nella tratta orientale (gestita dagli arabi nell’oceano Indiano) e nella tratta francese, verso le isole dell’oceano Indiano. Il paese è un’ex colonia del Portogallo, uno dei primi e più attivi a intraprendere quel commercio.

Le ex potenze schiaviste non sono state in grado di fare i conti con il loro passato. All’inizio di quest’anno il presidente portoghese Marcelo Rebelo de Sousa ha dichiarato che il paese deve “pagare il prezzo” dei crimini commessi durante la tratta degli schiavi. Nel 2022 il primo ministro olandese Mark Rutte aveva chiesto formalmente scusa per il ruolo dei Paesi Bassi nel commercio schiavistico.

In un’aula improvvisata in una foresteria di Cidade de Pedra, Mahumane sta meticolosamente mappando una sezione del relitto sulla base degli appunti e delle misurazioni condotte sott’acqua.

“Da un punto di vista storico potremmo trovarci di fronte a una delle più grandi testimonianze di un crimine contro l’umanità come la tratta degli schiavi”, dice. “Ogni volta che sei là sotto e tocchi la struttura, entrano in gioco molte emozioni e significati. Non si tratta solo di guardare agli aspetti scientifici, a volte è un lavoro che ti tocca l’anima”.

La ricerca dell’Aurore e la scoperta del relitto sono passate per lo più inosservate presso la comunità dell’Ilha de Moçam­bique. Gli abitanti sanno che ci sono dei relitti risalenti alla tratta degli schiavi ma poco altro, dice Samira Jamú, 23 anni, abitante dell’isola. La ragazza racconta di saperne di più da quando nel 2018 è diventata referente comunitaria dell’Swp per educare i bambini e gli altri abitanti alla conoscenza del patrimonio culturale sommerso e dell’ambiente marittimo. “Stiamo imparando. Stiamo conoscendo noi stessi. Ci stiamo riappropriando della nostra storia”, dice.

Una mattina, prima dell’immersione, cinque o sei persone dell’Swp si mettono in cerchio sulla spiaggia. Sadiki consegna a ciascuna una conchiglia di ciprea, chiamata anche cauri, un tempo usata come moneta per commerciare le persone in schiavitù, e poi chiede a tutti di portare le conchiglie al relitto. È un rituale che ha compiuto anche durante le esplorazioni del São José Paquete Africa in Sudafrica e della Clotilda, l’ultima nave schiavista arrivata negli Stati Uniti.

“Siamo di nuovo in queste acque sacre per ricordare, per rivendicare ma soprattutto per resistere”, dice Sadiki. “Vogliamo che vi ricordiate che i nostri antenati opposero resistenza. Resistettero alla disumanità di cui sono stati vittime. Ma soprattutto lottarono per rivendicare e conservare la loro umanità”.

Poi gli uomini s’incamminano verso le barche che li aspettano, e si dirigono in mare per un’altra mattinata di esplorazioni. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati