Il 16 dicembre 2021 un gruppo di uomini vestiti in modo informale, sobrio e firmato – com’è tipico delle startup della Silicon valley – si è riunito su una pista di atterraggio alle porte di Salinas, in California, negli Stati Uniti. Di fronte a loro c’era una capsula nera e lucida appoggiata su tre gambe sottili, una specie d’incrocio tra una supposta e un carrello da golf, con una coda a V come quella di una balenottera. Sull’unica ala c’erano dodici eliche, sei davanti e sei dietro, che facevano il rumore di un’aspirapolvere assordante. Mentre gli spettatori spostavano nervosamente il peso da un piede all’altro, la macchina si è sollevata in aria, si è inclinata leggermente in avanti e ha stazionato in volo per circa dieci secondi, per poi scendere dolcemente a terra. Tutti hanno applaudito e si sono scambiati abbracci vagamente distaccati. Intanto, nella sede della Archer Aviation a Palo Alto, i dipendenti dell’azienda esultavano guardando la dimostrazione su un grande schermo.

Era il primo volo di collaudo per il Maker, la versione della Archer Aviation di un nuovo modello di aereo chiamato “veicolo elettrico a decollo e atterraggio verticale”. Anche il suo acronimo, Evtol, è difficile da pronunciare e non tutti sono d’accordo che la e debba essere maiuscola. La scommessa di molti investitori è che gli Evtol, se continueranno a essere chiamati così, saranno un grande cambiamento. Tre mesi prima del volo di collaudo, la Archer si è fusa con una spac, un tipo di società costituita appositamente per quotarsi in borsa, nota anche come società ad assegno in bianco.

Eccezione alla regola

Occupandosi di cose come lo scambio dei motori su un vecchio velivolo Dornier o la trasformazione di scarpe da corsa puzzolenti in carburante, non si può certo dire che l’aviazione sostenibile sia un campo affascinante. Gli Evtol sono l’eccezione che conferma la regola. Pensiamo alla fusoliera personalizzata e ai comandi di volo digitali; al modo in cui le eliche del Maker si dispongono in posizione orizzontale per il decollo e l’atterraggio, ma si inclinano per il volo; alla promessa dell’automazione completa. L’elettrico puro ha la capacità di parlare all’estetica antisettica e presuntuosa della nostra epoca. Se sbirciate tra i meccanismi interni di un Maker, vedrete delle batterie sistemate in modo ordinato e alcuni cavi; la cabina ha un odore di auto a noleggio appena igienizzata.

Dopo il primo fortunato volo di collaudo, l’amministratore delegato della Archer, Adam Goldstein, dovrà sottoporre il Maker alla certificazione della Federal aviation administration statunitense, una procedura che può richiedere anni e costa centinaia di milioni di dollari. Questo significa anche prepararsi per la produzione in serie (la Archer ha avviato una partnership con la Stellantis, uno dei più grandi produttori di auto al mondo), identificare rotte e piste di decollo in accordo con le autorità comunali e preparare il pubblico a un potenziale cambiamento nelle sue abitudini di volo: il momento in cui l’aereo smetterà di cercare di essere come il treno – che svolge un servizio a orari prestabiliti da un punto a un altro e mette insieme tante persone – e diventerà un taxi.

Centinaia di aziende sono entrate nell’ipercapitalizzato mondo della mobilità aerea urbana, che nei prossimi anni si ridurrà a poche decine di operatori in grado di reggere la competizione. La Joby, una delle concorrenti californiane della Archer, e l’azienda tedesca Lilium si sono portate avanti con il lavoro, fondendosi con una spac. Nel gennaio 2022 la Boeing ha investito 450 milioni di dollari nella Wisk Aero, una startup finanziata da Larry Page, uno dei fondatori di Google. Ci sono poi CityAirbus NextGen, il programma di mobilità aerea urbana della Airbus, e la startup israeliana Urban Aeronautics, il cui piccolo CityHawk è spinto da rotori nascosti nella fusoliera e, secondo un delizioso comunicato stampa, “ha più cose in comune con gli uccelli che fanno il nido sui tetti che con quasi tutti gli altri prototipi di Evtol esistenti”. Ma questi investimenti porteranno l’industria al suo obiettivo dichiarato, il volo a zero emissioni?

Nel 2018 le emissioni di CO dell’aviazione civile rappresentavano circa il 2,4 per cento delle emissioni totali dovute all’attività umana. Ma gli effetti dell’aviazione sul clima vanno oltre l’anidride carbonica, che costituisce poco più di un terzo del peso del settore sulla crisi climatica. Un aereo rilascia anche ossidi di azoto, ossidi di zolfo, vapore acqueo e scie di condensazione: nuvole artificiali che si formano quando il vapore acqueo si condensa intorno alla fuliggine dello scarico del velivolo ad alta quota. Questo fa temporaneamente aumentare la quantità di calore intrappolato nell’atmosfera. Sono fattori che hanno conseguenze sul clima: il loro effetto combinato è di riscaldarlo, nel caso delle scie di condensazione in modo molto più intenso e rapido dell’anidride carbonica. Le emissioni degli aerei ad alta quota hanno un impatto da due a quattro volte più grande rispetto a quello delle emissioni paragonabili rilasciate a terra.

Se teniamo conto di tutto questo, possiamo constatare che l’aviazione rappresenta circa il 3,5 per cento del riscaldamento causato dall’attività umana. Può sembrare poco in confronto a circa il 6 per cento del settore del cemento e al 17 per cento del trasporto stradale. Ma il cemento è praticamente in ogni edificio e strada, e le auto e i camion sono vitali per miliardi di persone. L’aviazione è a malapena un’attività di massa, e raramente è essenziale. La maggior parte dei passeggeri di un aereo non lo prende per motivi imprescindibili di lavoro o di famiglia, ma per divertirsi quando arriva a destinazione. L’aviazione si candida a essere l’attività ricreativa più dannosa in circolazione.

In un lungo viaggio in auto, diciamo di undici ore, comprese le soste per fare benzina e per altre esigenze, si possono percorrere circa mille chilometri. Se tutti i posti sono occupati, la quantità di carburante consumata per ogni passeggero è inferiore a quattordici chili. Nelle stesse undici ore che un aereo di linea impiega per volare da Parigi, in Francia, a San Francisco, negli Stati Uniti, una distanza di 8.850 chilometri, la quantità media di carburante consumata per ogni passeggero supera i trecento chili. Questo se l’aereo è pieno. Se è mezzo vuoto, la quantità per ogni persona è molto più alta.

Chi inquina di più

A livello globale, il settore dei trasporti è molto indietro nel raggiungimento degli obiettivi climatici. L’aviazione è ancora più indietro e condivide l’ultimo posto con il trasporto marittimo. Per molti settori economici la crisi ambientale ha reso un dato di fatto il principio secondo cui chi inquina paga. Dal carbon pricing (prezzo dell’anidride carbonica) per le centrali elettriche alle multe per gli agricoltori che inquinano i fiumi, fino alle tasse di soggiorno per mitigare gli effetti del sovraffollamento turistico, l’idea che il costo del degrado ambientale debba essere sostenuto da chi lo causa è stata generalmente accettata, anche se controvoglia. Ma non dall’aviazione. Il cliente che l’aviazione tratta meglio, quello che le compagnie aeree adulano più sfacciatamente, il frequent flyer (chi prende spesso l’aereo), è chi inquina di più. E il sistema più logico per ridurre il contributo dell’aviazione al riscaldamento globale, cioè fare in modo che le persone volino di meno, è l’unico che le compagnie aeree – e i loro alleati politici – rifiutano di prendere in considerazione.

L’industria dell’aviazione si crogiola nel suo eccezionalismo, che è inseparabile dal suo senso di legittimazione e si riflette nei privilegi di cui gode. Ancora oggi nell’aviazione non c’è un equivalente della tassa che, per esempio nel Regno Unito, pesa per più di un terzo del prezzo pagato da un automobilista al benzinaio. I biglietti per i voli internazionali non sono soggetti a iva. Come il trasporto marittimo – altro settore che si fa beffe delle giurisdizioni nazionali – l’aviazione transfrontaliera è assente dall’accordo di Parigi sul cambiamento climatico del 2015, anche per la difficoltà di attribuire la responsabilità delle emissioni dei voli internazionali, in cui l’aereo di un’azienda vola da uno stato a un altro e poi a un altro ancora.

Nel 2016 l’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile (Icao), che stabilisce gli standard e le raccomandazioni per tutto il settore, ha approvato un programma di compensazione e riduzione delle emissioni di anidride carbonica per il trasporto aereo internazionale, chiamato Corsia, che punta a stabilizzare le emissioni ai livelli del 2020. Il meccanismo prevede che le compagnie aeree acquistino crediti di emissione – piantando alberi, investendo in centrali fotovoltaiche o distribuendo stufe a basse emissioni – per controbilanciare la crescita delle emissioni oltre il limite stabilito. La compensazione di CO è odiata dalle organizzazioni ambientaliste, secondo le quali gran parte della riduzione delle emissioni prevista dal Corsia avverrà in ogni caso. Anche quando, nel 2027, diventerà obbligatorio (India, Cina e Russia sono tra i paesi che non hanno aderito), il programma non si estenderà ai voli interni, che producono più di un terzo delle emissioni del settore.

Per l’aviazione è sempre più difficile restare lontana dalla campagna internazionale contro la crisi climatica. Nell’ottobre 2022 i componenti dell’Icao hanno adottato un “obiettivo collettivo a lungo termine di emissioni zero entro il 2050”. Willie Walsh, direttore generale della Iata, l’associazione internazionale delle compagnie aeree, ed ex amministratore delegato della British Airways, ha detto: “Le compagnie aeree di tutto il mondo hanno preso una decisione storica. Con gli sforzi collettivi di tutte le attività del settore e le politiche di sostegno dei governi, l’aviazione raggiungerà emissioni nette pari a zero entro il 2050”. Ma prima di farci travolgere dall’entusiasmo per la decisione della Iata e l’obiettivo non vincolante dell’Icao, bisogna ricordare che entrambe autorizzano ad aumentare le emissioni fino alla scadenza del Corsia, nel 2035.

“Forse la domanda più importante che mi fanno è se li stanno costruendo davvero”

A differenza di molti altri settori, gli sforzi di decarbonizzazione dell’aviazione sono appena cominciati. Tra tutte le tecnologie in lizza per dominare il futuro ipotetico dell’aviazione verde, non è chiaro quale sia quella con maggiori possibilità di successo. I sostenitori del volo alimentato a idrogeno sottolineano che questo prodigioso elemento può immagazzinare grandi quantità di energia a emissioni zero; il problema è che l’idrogeno occupa moltissimo spazio e richiede grandi e costosi cambiamenti nella progettazione degli aerei e delle infrastrutture a terra. Chi propone l’uso di un tipo di carburante sostenibile per l’aviazione (Saf) chiamato e-fuel, prodotto catturando l’anidride carbonica dall’aria e combinandola chimicamente con l’idrogeno, ritiene che i biocarburanti inquinino quasi quanto gli idrocarburi che dovrebbero sostituire. Nonostante questo, negli Stati Uniti l’amministrazione di Joe Biden ha messo proprio i biocarburanti, ricavati da colture prodotte in tutto il paese, al centro di un piano per aumentare la produzione di Saf a undici miliardi di litri all’anno entro il 2030 (l’anno scorso si è arrivati ad appena sessanta milioni). Alcuni vedono un’opportunità nel sequestro e stoccaggio di CO, che consiste nel catturare l’anidride carbonica prodotta dall’industria prima che sia rilasciata nell’atmosfera e immagazzinarla sotto terra. Secondo altri è un processo costoso e inutile. Tutti concordano nello sbeffeggiare l’elettrificazione, a parte gli investitori che hanno puntato miliardi sul volo elettrico.

Ma c’è un lato positivo. Migliaia di startup e di nuove divisioni interne alle aziende investono risorse in tecnologie per il volo a zero emissioni. È possibile che questo colosso ingombrante, esigente, petulante e contrario al cambiamento che è l’aviazione moderna stia riscoprendo il coraggio dei primi piloti e che, assumendosi finalmente le sue responsabilità, cominci a eliminare i gas serra che ha spensieratamente emesso per decenni.

Nessuna esagerazione

Gli Evtol hanno cominciato ad attirare l’attenzione nel 2016, quando la Uber Elevate, la divisione per la mobilità aerea urbana della famosa azienda di mobilità e consegne a domicilio, ha pubblicato una ricerca in cui l’uso di piccoli velivoli alimentati a elettricità da fonti rinnovabili è stato presentato come parte di un programma più ampio di decarbonizzazione. La Uber Elevate dichiarava che, grazie a una produzione in serie simile a quella del settore automobilistico, questi apparecchi sarebbero diventati “una forma accessibile di trasporto quotidiano per le masse, perfino meno costosa di un’auto”.

Un aereo sorvola l’Alaska, 15 marzo 2022 (Brian Adams, The New York Times/Contrasto)

Un’altra ondata di clamore c’è stata nel 2019, quando la banca d’affari Morgan Stanley ha detto che entro il 2040 il mercato dei velivoli urbani autonomi potrebbe arrivare a un valore di 1.500 miliardi di dollari, scatenando gli appetiti degli investitori. Poi la Morgan Stanley ha ridotto la stima a mille miliardi, confermando però la previsione che gli Evtol avranno conseguenze sul trasporto altrettanto epocali di quelle che ebbero l’auto all’inizio del novecento e i voli commerciali di linea dopo la seconda guerra mondiale. “Cambiamenti radicali delle modalità di trasporto”, osservava la banca, “più che ‘cannibalizzare’ le forme di trasporto attuali reinventano e ridimensionano il mercato, spesso di vari ordini di grandezza”.

La Archer venderà direttamente alle compagnie aeree, come nel 2021, quando la United Airlines le ha fatto un ordine di un miliardo dollari per i suoi aerei, con un’opzione per un altro ordine di cinquecento milioni. Il secondo obiettivo dell’azienda è diventare una piattaforma di ride sharing: “prendere” un Archer significherà usare l’app per prenotare un posto a sedere in un velivolo che parte nel giro di venti minuti vicino a casa. Una corsa che, miracolosamente, non costringerà il passeggero a stare fermo nel traffico per ore.

Goldstein mi ha mostrato un video del 2020 in cui Jay Merkle, il responsabile della Federal aviation administration che si occupa della certificazione, dice: “Forse la domanda più importante che mi fanno è: ‘Ma li stanno costruendo davvero?’. Sì, non è solo un’esagerazione, abbiamo almeno sei velivoli per cui è stata avviata la procedura di certificazione, il primo passo per far diventare operativo un nuovo aereo”. Nel 2021 la Archer ha superato un secondo livello, avvicinandosi alla completa certificazione commerciale.

I due giorni che ho passato alla Archer sono stati una fiera del bicchiere mezzo pieno

Il modo in cui gli Stati Uniti contribuiscono smodatamente alla crisi climatica per poi aggirare il problema trasformandolo in un’opportunità di affari è affascinante. Alla Archer l’atmosfera non è cupa e apocalittica come in alcune startup europee. Forse è l’effetto del sole della California, ma l’idea che si possa creare un nuovo settore dell’aviazione usando componenti da tutto il mondo e che questo faccia anche bene al clima è stata interiorizzata senza esitazioni.

L’ipotesi che nessun problema di origine umana sia tanto grande da non poter essere superato, e anzi bisogna rallegrarsene perché la soluzione impegna l’ingegno e la fame di profitto degli esseri umani, tira fuori la parte più cinica di me (non sarebbe meglio evitare di creare il problema?). Ma quando ho incontrato Geoff Bower, capo ingegnere della Archer con una faccia da ragazzino, che va al lavoro in una Tesla e ha fatto la tesi di dottorato a Stanford su come gli albatros volano sull’oceano senza sbattere le ali (sfruttano le correnti), ho capito che il problema non sono le astrazioni e il senso di colpa. È la fisica.

Il problema è decollare e atterrare. Più grande è la superficie occupata dai rotori meno potenza ci vuole per decollare, ma più ce ne vuole per viaggiare a velocità di crociera, perché la resistenza aerodinamica è maggiore. La Archer sta cercando di raggiungere un equilibrio tra la superficie dei rotori e la resistenza aerodinamica, inclinando le sei eliche frontali del Maker e affidandosi alle ali fisse per assicurare portanza nel volo orizzontale. Ma tra tutte le tecnologie in fase di sviluppo le batterie elettriche offrono di gran lunga la minore potenza per il maggior peso. Un chilo di benzina ha una capacità di tredici kilowattora (kw). Una batteria di un chilo agli ioni di litio ha una capacità inferiore a 0,3 kilowattora.

Se possiamo anche solo considerare l’idea degli aeroplani elettrici è merito di Elon Musk. La sua azienda, la Tesla, ha fatto più di qualsiasi altra impresa pubblica o privata per stimolare i progressi nella tecnologia delle batterie a ioni di litio. Quei miseri 0,3 kilowattora sono in realtà un’energia cinque volte superiore alle vecchie batterie piombo-acido. I motori elettrici sono tra le due e le tre volte più efficienti dei motori a combustione. E le batterie si possono ricaricare.

Anche se un aeroplano elettrico in volo non produce CO, ossido di azoto o vapore acqueo, non significa che faccia bene al clima. Gli effetti degli Evtol dipendono anche da altri fattori. Il primo sono i componenti. Le conseguenze si possono mitigare con il riciclaggio: le batterie si possono usare a terra molto dopo che si esaurisce il loro uso in volo, e in futuro gli Evtol potrebbero essere realizzati in termoplastiche riplasmabili. Ma, più di ogni altra cosa, la sostenibilità degli aerei elettrici dipende da dove arriva l’elettricità per caricare le batterie.

L’intensità di carbonio di una tecnologia è la misura delle emissioni di CO o equivalenti prodotte nel suo ciclo di vita (che comprende i materiali, la fabbricazione, l’uso, la demolizione e lo smaltimento) rispetto ai megajoule di energia consumata. I progressi che l’aviazione elettrica dovrà fare prima di diventare davvero sostenibile per il clima sono stati illustrati in una valutazione del 2019 di un gruppo di scienziati ambientali e dell’aviazione nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Basandosi sull’intensità media di emissione di CO della rete elettrica statunitense nel 2015, gli scienziati hanno calcolato che un aereo elettrico avrebbe un’intensità di carbonio più alta del 20 per cento rispetto ai moderni velivoli con motore a reazione, anche se, tenendo conto degli effetti non legati alla CO (tra cui gli ossidi di azoto e le scie di condensazione), la stima si ridimensiona di circa il trenta per cento.

Secondo le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), la domanda mondiale di energia elettrica quasi raddoppierà tra il 2010 e il 2040 (senza tenere conto dell’elettrificazione dell’aviazione o del trasporto via terra), e le emissioni legate alla produzione di elettricità si ridurranno solo del 5 per cento, perché si continuerà a usare il carbone. In India prendere un treno elettrico può essere più dannoso per il clima che prendere l’aereo. Se invece si alimenta un aereo usando l’elettricità della rete brasiliana, che sfrutta un’alta percentuale di fonti rinnovabili, le emissioni saranno con ogni probabilità più basse che in Cina, dove gran parte dell’elettricità viene dal carbone. Niente è davvero rispettoso del clima a meno che tutto quello che lo circonda sia rispettoso del clima. E questo, naturalmente, nessun costruttore di aerei è in grado di garantirlo.

L’aeroporto di Heathrow. Londra, Regno Unito, 2003 (Peter Marlow, Magnum/Contrasto)

Uno strano circo

L’Evtol è solo un prodotto commerciale o è anche un’arma contro la crisi climatica? Questa domanda mi girava in testa mentre da Salinas tornavo all’aeroporto di San Francisco. Qualche settimana dopo Richard Aboulafia, un analista della società di consulenza AeroDynamic Advisory, mi ha spiegato che le tecnologie dell’aviazione riproducibili su vasta scala sono spesso quelle meno sostenibili per l’ambiente. Ha descritto gli Evtol come “uno strano circo in cui tutti hanno deciso che la cosa da finanziare è quella che fa meno bene”.

Decarbonizzare non significa creare nuova domanda di emissioni, per quanto brillante possa essere la riduzione del loro impatto. Significa sbarazzarsi di quello che è dannoso per l’ambiente e mettere al suo posto qualcosa che lo è meno, o meglio ancora, che non lo è affatto. Aboulafia ha ragione a dubitare che gli Evtol facciano questo. Le risorse finanziarie e intellettuali investite nel settore sono un’ottima notizia, ma l’unico modo per aiutare il clima in senso generale – e cioè attenuare gli effetti che lo stanno distruggendo – è che il volo elettrico sostenga carichi più pesanti su distanze più lunghe ed entri nel mondo dell’aviazione vera e propria.

Se accettiamo che attualmente i carburanti sostenibili sono l’unica via per il volo a lunga percorrenza a emissioni zero, cosa possiamo dire dei voli sotto gli ottocento chilometri? Due strategie elettriche rappresentano soluzioni possibili. Quella più a portata di mano è l’elettrico ibrido. Un motore ibrido funziona bruciando qualche tipo di carburante e usando l’energia prodotta per caricare le batterie.

Nel giugno 2022 la Rolls-Royce, la seconda maggiore produttrice mondiale di motori per aerei, ha presentato il prototipo di un nuovo motore, un turbogeneratore che usa il carburante per far girare direttamente le eliche o per caricare le batterie a bordo, consentendo al velivolo di passare da una fonte di alimentazione all’altra a seconda della fase di volo e di quanta energia resta nelle batterie. Il generatore può essere scalato per ottenere una potenza tra i 500 e i 1.200 kw, in grado di alimentare un aereo con corridoio singolo ben oltre i circa 250 chilometri che oggi rappresentano il limite massimo degli Evtol più ambiziosi. Per ridurre le emissioni, il pilota potrebbe passare all’alimentazione a batteria durante le fasi del volo in cui si emette più CO, attraversando parti dell’atmosfera sature di ghiaccio (per ridurre le scie di condensazione) o durante il decollo e l’atterraggio. Ma le emissioni ci saranno comunque. Sono inevitabili.

La soluzione non è l’ibrido, ma l’elettrificazione totale, che però richiederà un miglioramento radicale del rendimento delle batterie. Dall’inizio del millennio un’attività frenetica di ricerca e sviluppo ha permesso di aumentare la potenza delle batterie agli ioni di litio di circa il 4 per cento ogni anno. Dalle batterie agli ioni di litio ad alto voltaggio che sta sviluppando la Rolls-Royce alle batterie al litio-aria presentate nel 2022 dall’Istituto nazionale della scienza dei materiali del Giappone, passando per la batteria allo stato solido studiata dalla startup statunitense QuantumScape, l’elemento cruciale dell’aviazione elettrica diventerà ancora più leggero e potente. L’unica domanda è quanto tempo ci vorrà.

Da sapere
Caduta e ripresa
Le emissioni dell’aviazione globale dal 2013 al 2022, milioni di tonnellate di CO2 equivalente (Fonte: Ocse)

Giorno e notte in un laboratorio della Carnegie Mellon university di Pittsburgh, i robot controllati da Venkat Viswanathan, uno dei maggiori esperti di batterie al mondo, fanno esperimenti per migliorare il loro rendimento. Nel 2021 Viswanathan e il collega Shashank Sripad hanno scritto che “una potenza specifica”, la densità, “di batterie di 800 wattora per chilogrammo potrà essere raggiunta intorno alla metà del secolo”. In altre parole, nel 2050 le batterie agli ioni di litio saranno capaci di alimentare un A320 o un Boeing 737 con corridoio singolo per le seicento miglia nautiche (più di mille chilometri) che costituiscono la distanza di una tratta regionale. Ipotizzando che i progressi continuino, velivoli elettrici “con una capacità di percorrenza di 1.200 miglia nautiche (più di duemila chilometri) potrebbero sostituire l’80 per cento delle partenze”.

Ma la capacità in laboratorio non implica necessariamente capacità nel mondo reale. Come mi ha spiegato la scorsa estate Alan Epstein, ex vicepresidente della divisione tecnologia e ambiente della Pratt & Whitney e professore emerito del Massachussetts institute of technology: “Bisogna distinguere tra autonomia di volo e lunghezza della tratta. Per circa 2.200 chilometri – la misura può cambiare a seconda del meteo e del traffico all’ora della partenza – gli aerei di linea caricano almeno il 50 per cento di carburante in più di quello che serve per percorrere la distanza stabilita”. Il motivo è che in caso di eventi imprevisti “devi poter deviare verso un altro aeroporto, e spesso l’unico aperto di cui il pilota è a conoscenza è quello da cui ha decollato”. Se il carburante è il kerosene, che ha un’alta densità energetica, il carico in eccesso può essere trasportato senza troppe complicazioni. Se applicato al volo elettrico, tuttavia, il principio della capacità in eccesso fa saltare il delicato equilibrio tra batterie e distanza. “Questo vuol dire che un aereo con un’autonomia di volo di ottocento chilometri potrebbe essere in grado di volare solo per trecento o quattrocento chilometri”, spiega Epstein.

A tutti piace pensare in positivo, ma la verità è che nessuno sa davvero quanto saranno veloci i progressi della tecnologia applicata alle batterie. I due giorni che ho passato alla Archer sono stati una fiera del bicchiere mezzo pieno. Poi però, verso la fine della visita, dopo che Bower mi ha spiegato pazientemente le sue formule, ho sentito il sapore familiare e inquietante della vecchia aviazione. “Tutta questa eccellenza tecnica va benissimo”, ho detto, “ma la decarbonizzazione dell’aviazione potrebbe essere compromessa dall’aumento del numero dei passeggeri. Relativamente poche persone nelle economie in via di sviluppo sono salite su un aereo, e molte sarebbero interessate a provare. Che cosa succederà a quel punto?”.

“Questo è il problema di lungo periodo più difficile per l’aviazione”, ha ammesso uno dei migliori ingegneri aerospaziali del mondo. “La risposta non ce l’ho”. ◆ fas

Christopher de Bellaigue è un giornalista, autore di Flying green. On the frontiers of new aviation (Columbia global reports 2023), da cui è tratto questo articolo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1509 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati