Ci è voluto troppo tempo, ma sembra che il Fondo monetario internazionale (Fmi) abbia finalmente capito alcune dure verità. La principale è che le economie in crescita riescono a ripagare più facilmente il debito pubblico. Il consolidamento fiscale (cioè la riduzione del deficit, soprattutto attraverso il taglio della spesa), la strategia preferita dall’Fmi, ostacola quindi gli sforzi per ridurre il rapporto tra debito e pil, perché frena la crescita economica. Non è certo una scoperta. L’economista John Maynard Keynes l’aveva sottolineato quasi un secolo fa e da allora molti l’hanno ribadito. Di certo lo sapevano i negoziatori dell’accordo di Londra del 1953, che ridusse il peso del debito della Germania Ovest e creò le condizioni per il boom economico del dopoguerra.

Comunque sia, meglio tardi che mai. L’ultimo rapporto World economic outlook dell’Fmi presenta i risultati di uno studio sui programmi di riduzione del debito realizzati da 33 economie emergenti e 21 paesi ricchi tra il 1980 e il 2019. “In media questi piani non hanno un effetto significativo sul rapporto tra debito e pil”, notano gli autori. Al contrario, una maggiore crescita rappresenta “una forza importante”, responsabile di circa un terzo della riduzione del debito osservata in quel periodo. L’analisi riconosce perfino che in diversi casi l’aumento della spesa pubblica ha migliorato il rapporto tra debito e pil, soprattutto grazie al suo effetto positivo sulla crescita. Il consolidamento fiscale, notano gli autori, ha più probabilità di ridurre il debito in un’economia in crescita, se ci sono condizioni favorevoli. Ma dato che queste condizioni non sempre esistono e che tagliare la spesa ostacola la crescita, l’austerità ha raramente prodotto risultati positivi.

Per decenni il Fondo ha dato per scontato che tagliare la spesa pubblica fosse l’unico modo per affrontare i problemi legati al debito. Oggi sembra riconoscere gli errori del passato

Il rapporto osserva che “trasferimenti inattesi” alle aziende statali e una svalutazione imprevista della moneta possono compromettere gli sforzi per la riduzione del debito. Ma non dice che questi sviluppi sono spesso una conseguenza non voluta dei programmi dell’Fmi, che chiedono ai paesi indebitati di passare a tassi di cambio determinati dal mercato, di alzare i tassi di interesse e di tagliare i sussidi statali, aggravando così i costi per le aziende. Al contrario il rapporto rileva che gli sforzi di ristrutturazione del debito hanno avuto più successo quando hanno aiutato i paesi a far ripartire la crescita.

Tutto questo non è una sorpresa per chi ha seguito l’andamento dell’economia nell’ultimo mezzo secolo, ma l’influenza dell’Fmi sulle politiche dei governi e il numero crescente di paesi che necessitano di una ristrutturazione del debito rendono il cambio di rotta un fatto molto importante. Per decenni l’Fmi ha dato per scontato che tagliare la spesa pubblica fosse l’unico modo per affrontare i problemi legati al debito. Oggi sembra riconoscere gli errori del passato.

Ma non è chiaro se questa svolta avrà conseguenze sulle attività del Fondo. Le prime indicazioni non sono confortanti. I suoi dirigenti hanno chiesto programmi di ristrutturazione più rapidi ed efficaci, e hanno istituito una tavola rotonda di creditori pubblici e privati per accelerare il processo. Ma i paesi che hanno chiesto aiuto hanno dovuto fare i conti con dispute geopolitiche e ritardi ingiustificati. Quel che è peggio, il personale dell’Fmi sembra non essere a conoscenza del rapporto oppure ha scelto di ignorarlo. I recenti programmi dell’istituto prevedono condizioni onerose che molto probabilmente avranno effetti dannosi. Per esempio, il recente accordo tra l’Fmi e lo Sri Lanka pone l’accento sul consolidamento fiscale, imponendo al governo di raggiungere l’avanzo di bilancio entro due anni. Inoltre condiziona i finanziamenti all’aumento delle tariffe sull’energia, all’adozione di tassi di cambio flessibili, che probabilmente causeranno la svalutazione della moneta, e all’innalzamento dei tassi d’interesse, senza introdurre imposte sul patrimonio o limitare i flussi finanziari illeciti. Questo ridurrà la domanda in un paese già provato da un’inflazione al 53,6 per cento, provocando un’ulteriore contrazione dell’economia. La stessa enfasi sull’equilibrio fiscale è evidente nei piani proposti al Ghana e allo Zambia.

L’Fmi non è l’unico a pensarla così. Si preannuncia una nuova ondata di austerità, con molti governi che sembrano decisi a ridurre la spesa pubblica. In un momento in cui il mondo si trova ad affrontare una combinazione di crisi economiche e politiche, questo potrebbe avere conseguenze disastrose, e non solo per l’economia. Potrebbe mettere a rischio la salute globale in un momento in cui nuove emergenze sanitarie sono sempre più probabili, e ostacolare la capacità di affrontare il cambiamento climatico. Quando si dimostra che certe soluzioni sono inutili o dannose, devono essere abbandonate. Il fatto che i ricercatori dell’organizzazione si siano finalmente accorti dell’ovvio è un passo nella giusta direzione, ma non è sufficiente. Dopo decenni di sofferenze evitabili, è ora che l’Fmi faccia i conti con la realtà. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1509 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati