Prima o poi sarebbe arrivato il conto per gli anni di estetica normcore improntati alla celebrazione, a volte ironica, del frainteso concetto di normalità, attraverso un guardaroba senza marchi e ambizioni. Anni di musicisti con la divisa nera, beige o neutra, di una generica devozione al non gusto. Il conto è arrivato: tornano i codici di DeviantArt, le frange emo, la nostalgia di Twilight, esemplificata dalla coppia di Machine Gun Kelly e Megan Fox (fa sorridere che due icone etichettate come indie, Phoebe Bridgers e Paul Mescal, si siano vestite proprio come loro per Halloween).

Anche l’Italia vive il ritorno di un gusto massimale, ma invece di pescare tra cose mai state di moda, i Måneskin si appropriano di stilemi glam e punk che sono stati dominanti, anche se a partire da retoriche della diversità.

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L’accusa di cattivo gusto deriva da qualcos’altro, e credo che il giudizio più a fuoco su questa band ce l’abbia mia madre, che è sorda e li segue lo stesso. La loro performance risulta intatta e leggibile anche in assenza di suono. Se la musica non aggiunge molto, i corpi dicono tutto: non è difficile smettere di ascoltarli, è quasi impossibile smettere di guardarli.

Non significa che sono modelli prestati a un palco; le loro performance mute dimostrano che è una cosa loro. È una cosa davvero ambigua: un senso d’interpretazione, di auto-importanza e di fiducia tale da ricordare un altro tipo di approccio, laterale alla musica. È lo stesso approccio delle cover band, solo che raramente si era vista una cover band di se stessi. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati