Roman Gabor e Slavo Hada non sono più poveri da quando svolgono semplici lavori di manutenzione – per esempio tagliare l’erba o spalare la neve – per l’azienda di smaltimento e riciclaggio dei rifiuti Kosit a Košice, nella Slovacchia orientale. Ora hanno un lavoro fisso, una casa fuori città, una situazione stabile. Rappresentano così un’eccezione nella loro comunità. Gabor e Hada, infatti, appartengono alla minoranza rom, che in Slovacchia come in altri paesi dell’Europa orientale vive spesso in condizioni precarie.

Secondo l’agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, nel 2021 in Slovacchia solo il 33 per cento dei rom aveva un lavoro retribuito. Il 60 per cento dei giovani tra i 16 e 24 anni non lavorava né partecipava a un programma di formazione o a un tirocinio. Un dramma umano e un peso economico per il paese. I costi della mancata integrazione non andrebbero trascurati, suggerivano alcuni ricercatori slovacchi già nel 2009. Ma solo ora, lentamente, la situazione comincia a migliorare. E si può vedere anche nel mercato del lavoro.

Come in altri paesi dell’Europa centrale e orientale, in Slovacchia c’è carenza di manodopera. È un problema strutturale. Dall’università di Bratislava escono molti economisti, fa notare Richard Biznár, dirigente della Kosit, ma alle aziende manca il personale che potrebbe acquisire competenze sul campo. “Una soluzione sarebbe integrare finalmente la numerosa popolazione rom”, afferma il ricercatore Ábel Ravasz. “I tempi sono maturi”. Tuttavia, l’integrazione sarà tanto più difficile quanto più sarà rimandata.

In Slovacchia vivono circa cinquecentomila rom, il 9 per cento della popolazione. Negli anni del comunismo, prima del 1989, erano piuttosto integrati nel mondo del lavoro. Nel blocco orientale lavorare era un dovere: non tutti i lavori permettevano di guadagnare bene, ma c’era lavoro per tutti. Quando all’inizio degli anni novanta in Slovacchia fu introdotta l’economia di mercato, i rom furono tra i più svantaggiati dalla transizione. Nel settore industriale furono tagliati migliaia di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione salì alle stelle, soprattutto nella comunità rom. Lo stato non è riuscito a integrarla nel resto della società. Secondo alcuni studiosi, se n’è lavato le mani per almeno vent’anni.

Un simbolo di questo fallimento è Lunik IX, un quartiere di palazzi prefabbricati di Košice ormai in decadenza. Fu costruito negli anni settanta principalmente per militari, agenti di polizia e persone di origine rom. Dopo la caduta del muro di Berlino ci rimasero solo i rom. Da allora è diventato un tipico ghetto. Nei condomini fatiscenti si vive in condizioni di povertà estrema. Ma ultimamente c’è stato qualche progresso grazie alle iniziative dei residenti e degli assistenti sociali. I rifiuti, per esempio, sono raccolti e non restano più ammucchiati davanti alle case come una volta. Allo stesso tempo, però, lungo la vicina autostrada sono spuntate numerose baracche in cui vivono anche i rom. Lunik IX e le baracche dimostrano quanto sia difficile per lo stato slovacco integrare questa minoranza. Ci sono stati dei passi in avanti, ma a rilento.

Lo stesso vale per il mondo del lavoro. Per molto tempo le aziende non hanno mai voluto assumere persone della comunità rom. Ancora oggi preferiscono lavoratori ucraini, serbi, romeni o anche del sud­est asiatico. “Ci sono agenzie che forniscono esattamente il numero e il tipo di lavoratori che un’azienda desidera”, afferma Ravasz. Da qualche anno, tuttavia, alcuni dirigenti si sono resi conto del potenziale inutilizzato della comunità rom. La svolta è arrivata quasi esclusivamente da aziende straniere arrivate in Slovacchia per sfruttare il basso costo del lavoro. Il gruppo siderurgico Us Steel, il produttore di elettrodomestici Whirlpool e il produttore italiano di attrezzi da giardino Stiga sono stati tra i primi ad avviare programmi per integrare i rom nel personale.

All’inizio, però, le aziende assumevano i rom soprattutto quando c’erano picchi stagionali di lavoro, i contratti annuali erano un’eccezione. Inoltre, molte gestivano la faccenda con discrezione, a causa dei pregiudizi. Oggi, invece, alcune aziende ci tengono a far sapere che assumono lavoratori di origine rom, afferma Ravasz, perché così trasmettono un’immagine al passo con i tempi. Quasi sempre, tuttavia, i datori di lavoro preferiscono parlare in generale di strategie inclusive, ma evitano la parola rom.

Alla Kosit quasi un quarto della forza lavoro proviene dalla comunità rom. L’azienda ha imparato a gestire dipendenti che hanno vissuto a lungo ai margini della società. All’inizio Gabor e Hada avevano un lavoro stagionale, ma due anni fa sono stati assunti a tempo pieno. Prima di arrivare alla Kosit, lavoravano nel settore dei componenti per auto, ma quando la pandemia ha colpito il settore sono stati licenziati. Il lavoro alla Kosit è un po’ più faticoso di quello precedente, ma meno monotono, dice Gabor. “Per molti rom una realtà come la Kosit è il primo punto di contatto con la cultura aziendale”, spiega Biznár. Per questo nei primi due anni di lavoro il numero di dipendenti rom che lascia il posto è superiore alla media.

Il ruolo dell’istruzione

Tuttavia, anche alla Kosit i rom svolgono quasi esclusivamente lavori manuali. “Il livello d’istruzione relativamente basso ostacola l’accesso a posizioni retribuite meglio”, dice Biznár. Molti rom si ritrovano in una condizione svantaggiata fin dall’infanzia. Un ostacolo è la lingua: molti bambini non parlano bene lo slovacco quando cominciano la scuola, così sono trasferiti in istituti speciali e restano ancora più indietro. Molti non finiscono la scuola dell’obbligo. “I bambini rom dovrebbero ricevere una maggiore attenzione”, dice Veronika Fričová, direttrice della Carpathian foundation di Košice. Ma il sistema scolastico slovacco non ha gli strumenti adatti. La sua fondazione, per esempio, prepara le donne rom alle esigenze del mercato del lavoro.

“Incontrano più ostacoli degli uomini”, spiega Fričová. Le gravidanze durante l’adolescenza sono comuni e molte donne giovani non possono neanche controllare il numero di figli che fanno. E con la pandemia, la guerra in Ucraina e l’inflazione, i tempi sono ancora più duri. I dati dell’agenzia europea per i diritti fondamentali indicano che per chi fa parte della comunità rom ora è più difficile trovare un lavoro. L’integrazione ha subìto una battuta d’arresto. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati