Editoriali

Non neghiamo l’aiuto agli afgani

In Afghanistan è finita la guerra, ma non la sofferenza delle persone. I segnali allarmanti continuano ad accumularsi. Secondo un rapporto della Fao metà dei circa venti milioni di abitanti del paese è minacciata dalla carestia. I decenni di scontri armati e i milioni di sfollati, la povertà e le catastrofi climatiche, hanno provocato quella che è già una delle peggiori crisi al mondo. L’implosione dell’economia, provocata dalla fine dei finanziamenti statunitensi e dal congelamento dei fondi della Banca centrale afgana da parte di Washington e dell’Europa, inaspriscono questa crisi. La stagione invernale, che accentua l’isolamento delle zone rurali, non potrà che aggravarla ulteriormente. Si moltiplicano i racconti di famiglie costrette a vendere i loro averi, e nei casi più disperati perfino i figli, per tentare di sopravvivere.

Il dilemma che si pone ai paesi donatori è tanto morale quanto politico. Alcuni, come la Cina o la Russia, esigono la restituzione dei fondi della banca centrale afgana, altri invece sono contrari. Anche i governi europei sono divisi: il 12 ottobre al vertice speciale del G20 in Italia non sono riusciti ad andare oltre le dichiarazioni d’intenti. I termini di questo dilemma sono semplici. Bisogna concedere gli aiuti, legittimando così il governo dei taliban che finora non ha ottenuto il riconoscimento internazionale? Oppure rifiutarsi di farlo, per non perdere uno strumento di pressione con cui obbligare i nuovi padroni dell’Afghanistan a fare concessioni sui diritti delle donne, la tutela delle minoranze etniche e la lotta ai gruppi terroristici? Gli argomenti a favore della seconda opzione possono sembrare inattaccabili. Rafforzati dall’aver vinto la guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, finora i taliban non hanno fatto la minima apertura politica o diplomatica alla comunità internazionale. Non c’è dubbio che presenterebbero l’arrivo di consistenti aiuti umanitari come la conferma che la loro strategia funziona.

Questo ragionamento solleva però due importanti obiezioni. Sembra improbabile imporre un rapporto di forza fondato sugli aiuti umanitari a degli ex ribelli che hanno sconfitto il più potente esercito del mondo e i suoi alleati dopo vent’anni di guerra. Inoltre questa scelta lascia la popolazione afgana – in particolare le donne, molto esposte all’insicurezza alimentare – alla mercé di uno scontro di cui è ostaggio. A settembre il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti ha concesso dei permessi che consentono alle ong di aiutare il popolo afgano senza finire vittima delle sanzioni in vigore contro il nuovo governo di Kabul. Questo passo, insieme ai 124 milioni di euro di aiuti urgenti annunciati il 28 ottobre, è probabilmente il massimo che Washing­ton può concedere. Ma un simile realismo apre uno spiraglio. L’emergenza impone di essere pragmatici. Bisogna evitare la politicizzazione degli aiuti umanitari. ◆ ff

Come salvare la Bosnia

Quando l’inviato statunitense per i Balcani Matthew Palmer è arrivato a Sarajevo il 27 ottobre, il nazionalista di destra Milorad Dodik (il rappresentante dei serbi nella presidenza della Bosnia Erzegovina) lo ha accolto a pacche sulle spalle come fossero vecchi amici. Dodik, però, vuole distruggere lo stato bosniaco e ha già mosso i primi passi per farlo, preparando il terreno per la secessione dell’entità serba. È il politico più pericoloso dei Balcani, ma invece di isolarlo e sanzionarlo, con lui si continua a trattare. È stata proprio questa politica conciliatoria da parte dell’occidente a far precipitare la crisi jugoslava negli anni novanta. Anche Dodik si sente incoraggiato a spingersi sempre più in là. A livello europeo, tra i responsabili di questa linea politica c’è Angelina Eichhorst del Servizio europeo per l’azione esterna. Eichhorst si era già dimostrata incapace di mettere dei paletti nel dibattito su un possibile scambio di territori tra Serbia e Kosovo. Ora sostiene che Dodik non ha superato nessuna linea rossa, anche se i cittadini bosniaci stanno raccogliendo le firme necessarie a denunciarlo per aver “pregiudicato l’ordine costituzionale”.

Dato che gli stati dell’Unione europea sono divisi, l’Austria potrebbe prendere l’iniziativa e imporre sanzioni contro Dodik. Il leader serbo-bosniaco ha interessi nel paese e ci si reca spesso: un divieto d’ingresso e il congelamento del suo patrimonio all’estero sarebbero il giusto segnale in questo momento. ◆ mp

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1434 - 5 novembre 2021
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