Nei quasi due anni in cui è stato lontano dal Venezuela, prima in Ecuador e poi in Colombia, Ronaldo sa che il suo casco da pompiere non si è mosso dalla casa di sua madre.
Nel 2017, a 27 anni, Ronaldo ha lasciato il corpo dei vigili del fuoco di Caracas perché “lo stipendio non bastava”. Il casco rosso della divisa è rimasto appeso al muro, accanto ad altre reliquie di dieci anni di lavoro che solo una madre può conservare: medaglie ormai arrugginite, premi, ritagli del giornale locale con le notizie di salvataggi eroici e la giacca blu da tutti i giorni, ormai coperta di polvere.
“Salvataggio”, si legge sul ricamo rosso accanto al taschino. Suona quasi ironico. Ronaldo ha capito che non poteva continuare a salvare le vite degli altri, e allo stesso tempo tutelare la propria, quando una confezione di detersivo è arrivata a costare più di quanto guadagnava in un mese come pompiere.
“Il lavoro che facevo mi obbligava a entrare in fiumi di acqua sporca e ad andare vicino al fuoco. La divisa si macchiava e c’era bisogno di lavarla e disinfettarla spesso, ma non potevo permettermi di comprare un buon detersivo perché lo stipendio non bastava”, dice nella sua casa a Valles del Tuy, una località a cinquanta minuti da Caracas dove si trova la discarica che serve la capitale. In quel periodo, quando faceva ancora il pompiere, il detersivo per i panni che comprava di solito costava 6 dollari, ma il suo salario non superava i 3 dollari al mese al cambio ufficiale.
A quel punto Ronaldo ha mollato tutto. Ha lasciato il corpo dei vigili del fuoco e i suoi colleghi. Lo ha fatto piangendo, e si commuove ancora oggi ripensando a quel momento e a tutte le cose che gli sono capitate dopo. “Mi si è spezzato il cuore”, dice.
Ronaldo, un metro e settanta, robusto, con gli occhi neri e i modi disinvolti, decise di andare “in cerca di una vita migliore” per la prima volta nel novembre del 2017. È andato in Ecuador e ha resistito nel paese quasi un anno. “Ma a dicembre ho avuto un crollo. Mi mancava la mia famiglia e sono tornato”, dice.
Era il Natale del 2018, un momento dell’anno in cui è più facile sentire nostalgia, ancora di più in un paese dove tradizionalmente le feste si passano in famiglia. In Venezuela Ronaldo ha resistito altri otto mesi tra molte difficoltà. Poi ha preparato di nuovo le valigie. A maggio del 2019 è partito in pullman insieme alla moglie Irene e alla figlia Samantha, di cinque anni. Sono arrivati a Montería, il capoluogo del dipartimento di Córdoba, nel nord della Colombia, dove una cognata li ha accolti e li ha aiutati nei primi giorni. Nel giro di una settimana Ronaldo aveva già un impiego. Non aveva i documenti in regola e quindi lavorava in nero, come la maggior parte dei suoi concittadini emigrati in altri paesi sudamericani. Spesso i migranti venezuelani sono pagati meno, sono trattati male e sono vittime di xenofobia.
Il primo lavoro di Ronaldo consisteva nel trascinare un carretto e vendere insaccati per le strade sterrate di Montería. Dopo un po’ di tempo, è entrato in un autolavaggio dove gli altri dipendenti erano venezuelani come lui. Il proprietario li pagava a cottimo, in base alle auto che riuscivano a lavare. A loro spettava il 40 per cento del prezzo pagato dai clienti. Ma Ronaldo si è reso conto che il proprietario li ingannava sulle cifre, dicendogli che i clienti pagavano meno perché “trattavano sul prezzo” in modo da intascarsi una parte di quanto spettava a loro. Quattro mesi dopo se n’è andato.
Ha venduto una vecchia Chevrolet Malibu che aveva a Caracas, appartenuta a suo padre. L’auto aveva un valore sentimentale, ma gli ottocento dollari che ne ha ricavato sono stati un sostegno e un cuscinetto nelle settimane peggiori a Montería. La moglie restava a casa con la figlia e quindi non poteva lavorare, e mantenere la macchina a Caracas era complicato: comprare l’olio o un pezzo di ricambio per risistemarla era impossibile. Con i soldi dell’auto Ronaldo ha comprato una bicicletta e un carretto e ha cominciato a vendere caffè e tisane per conto proprio.
“C’era una forte concorrenza, perché ci sono molti tinteros (il nome usato in Colombia per i venditori ambulanti di caffè). Ma con la bicicletta raggiungevo zone della città dove gli altri non arrivavano, e più o meno me la cavavo”, dice Ronaldo.
Il grande esodo
Negli ultimi anni più di cinque milioni di venezuelani hanno lasciato il paese a causa della crisi economica e umanitaria. È uno dei più grandi esodi dell’ultimo decennio, non solo in America Latina. Nel 2013 Nicolás Maduro prese il posto di Hugo Chávez, il carismatico e polemico presidente morto quell’anno per una malattia. Da allora la situazione dell’economia nazionale, interamente dipendente dal petrolio, non fa che peggiorare.
Secondo un’inchiesta realizzata a febbraio dal World food programme (Wfp), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, circa un terzo della popolazione venezuelana soffre di insicurezza alimentare e ha bisogno di aiuto urgente. Più della metà della popolazione ha dovuto ridurre le porzioni dei pasti. L’iperinflazione che ha colpito il paese è considerata tra le peggiori della storia della regione: secondo i dati della banca centrale del Venezuela, il 2019 si è chiuso con un’inflazione del 9.585,5 per cento. Con la pandemia la situazione rischia di peggiorare. Il Fondo monetario internazionale prevede che entro la fine dell’anno il pil crolli del 15 per cento e i prezzi aumentino del 15mila per cento (anche se in queste settimane ci sono previsioni molto diverse).
È stato proprio il prezzo dei generi alimentari a spingere Ronaldo e centinaia di migliaia di venezuelani ad andarsene. Un salario mensile minimo non bastava nei peggiori anni di crisi, e non basta oggi per comprare molto di più di due pacchi di riso e due chili di Harina Pan, una famosa marca di farina di mais precotta con cui si preparano le tradizionali _ arepas_, immancabili nella dieta di qualsiasi famiglia venezuelana.
Il primo contrattempo è arrivato quasi subito, dopo quaranta minuti che pedalavano
Cambia tutto
Secondo il Wfp, il 59 per cento delle famiglie non ha entrate sufficienti per comprare da mangiare e il 33 per cento dice di poter anche accettare generi alimentari come pagamento per il lavoro. La situazione si è aggravata con la crisi sanitaria e le misure di isolamento, dal momento che più della metà della popolazione vive alla giornata, facendo lavori informali e ricorrendo a espedienti. In Venezuela si dice matar tigres, uccidere tigri, per riferirsi a questo bisogno di svolgere più di un lavoro per mettere insieme qualche dollaro o bolívar alla fine del mese.
Il Venezuela è uno dei paesi dell’America Latina con meno casi registrati di coronavirus (3.483 al 19 giugno). Solo 28 persone sono morte per il covid-19 secondo il governo di Caracas, che si vanta di aver applicato da subito una strategia di prevenzione ispirata a quella cinese: controllo casa per casa nelle comunità, obbligo di usare la mascherina e test diagnostico per tutti. Fin dall’inizio della crisi il Venezuela e la Cina hanno stabilito un accordo di collaborazione, e Pechino ha inviato con un ponte aereo settimanale dispositivi di protezione per il personale sanitario, respiratori e test per contenere la pandemia. Un gruppo di medici cinesi è andato a Caracas ed è rimasto in Venezuela due settimane per formare il personale locale su come rallentare il contagio.
Il 18 agosto 2019 Johemir, nipote di Ronaldo, è arrivato a Montería con la moglie Raquel. Hanno vent’anni e fanno entrambi i parrucchieri. Sono partiti per le stesse ragioni degli altri.
“Sia chiaro”, dice Ronaldo, seduto nel salotto di casa mentre beve un sorso di succo di mango che gli ha appena preparato la madre. È mezzogiorno di una domenica di fine maggio e il caldo è insopportabile. “Quando decidi di andartene, non lo fai perché vuoi farlo, assolutamente. Non vai in vacanza. Hai il cuore spezzato perché stai lasciando la tua famiglia, il tuo paese e la tua casa. Abbandoni tutto e parti con una sensazione di profonda amarezza, ma vuoi cercare delle alternative, perché in Venezuela la vita è impossibile. Devi adattarti a vivere altrove, sopportare la pressione di chi ne approfitta per pagarti meno o per sfruttarti. E non devi perderti d’animo quando tua madre ti chiama e ti domanda se va tutto bene e tu devi rispondere di sì, anche se è una bugia”.
Ronaldo non si lamentava mai con la moglie. “Se mi fossi mostrato debole, come avrei potuto trasmetterle sicurezza? Ero il pilastro della famiglia, quello che usciva a lavorare”, dice.
Con l’arrivo del nipote, le possibilità sono aumentate, come le spese. Dopo diverse peripezie lavorative, Johemir e Ronaldo hanno cominciato a lavorare in un fast food che sembrava funzionare bene. Si chiamava La Fama Dog e il proprietario gli aveva promesso uno stipendio di 30mila pesos al giorno, circa otto dollari, indipendentemente dalle vendite. Era una buona offerta e loro erano contenti. Gli affari andavano bene.
Ma poi è arrivato il nuovo coronavirus. “Sentivamo parlare dei primi casi a Bogotá, ma siccome era un posto lontano non ci abbiamo fatto molto caso. Anche se a un certo punto ho pensato che se il virus era arrivato fin lì dalla Cina, forse era il caso di prendere la situazione sul serio”, racconta Ronaldo, ricordando tra le risate l’inizio della fine del suo progetto di vita in Colombia.
Dopo i primi casi di covid-19, il comune di Montería ha decretato il coprifuoco. Non si poteva uscire la sera, e il fast food lavorava soprattutto all’ora di cena. Le vendite sono diminuite. Il proprietario ha cambiato i turni e ha aperto anche a pranzo, ma i clienti erano pochi. Quando il governo colombiano ha decretato la quarantena La Fama Dog ha chiuso definitivamente.
Prevedendo quello che poteva succedere, qualche settimana prima la moglie e la figlia di Ronaldo avevano preso un pullman per tornare a Caracas. Almeno loro erano in salvo, anche se dopo aver comprato i biglietti lui era rimasto letteralmente senza soldi. Bisognava ricominciare a mettere da parte qualcosa. In Colombia c’erano Johemir e Raquel, che non aveva mai trovato un lavoro, a parte qualche sporadico taglio di capelli.
Una sera hanno discusso e hanno deciso che non potevano continuare così: senza lavoro, senza soldi e senza prospettive. Hanno chiesto aiuto al comune e alle autorità colombiane per avere un mezzo di trasporto (che avrebbero pagato loro) che li portasse fino alla frontiera. Non hanno ricevuto risposta. Allora Ronaldo ha deciso che sarebbero tornati in Venezuela in bicicletta. Erano in cinque: Ronaldo, Johemir, Raquel e altri due colleghi venezuelani conosciuti al lavoro.
Sono partiti il 10 aprile da Montería alle quattro del mattino. Raquel non sapeva andare in bicicletta, il marito aveva cercato inutilmente di insegnarglielo nei giorni prima della partenza. Così hanno agganciato un carretto di quelli che si usano per il commercio ambulante a una delle biciclette: l’idea era che Raquel viaggiasse al suo interno insieme ai bagagli. Quella bicicletta, che ovviamente era la più pesante, sarebbe stata guidata a turno dai quattro uomini.
Secondo Google maps, ci sono settecento chilometri da Montería a Cúcuta, la loro meta finale, alla frontiera con il Venezuela. “In realtà”, dice Raquel, “il tragitto è molto più lungo, perché ci sono le montagne e le strade sono in salita e piene di curve. È stato terribile. Ci abbiamo messo dodici giorni”.
Cúcuta è una tipica città di frontiera: poco ospitale e piena di tensioni
Temporale
Il primo contrattempo è arrivato quasi subito, dopo quaranta minuti che pedalavano. Una delle ruote del carretto si è piegata. La struttura rudimentale che avevano messo insieme non era molto resistente e si sono dovuti fermare per aggiustarla come meglio potevano. A quel punto si sono resi conto che il carretto non poteva trasportare Raquel e anche i bagagli. Il peso era eccessivo. La ragazza si è seduta sulla canna della bici del marito e ha resistito così, con le gambe in aria e i crampi, per dodici giorni.
“Il momento peggiore”, racconta Raquel, “è stato quando finalmente ho visto un cartello stradale con l’indicazione per Cúcuta. Mancavano duecento chilometri. Ma quando ho alzato la testa c’era solo una montagna enorme e altissima. Ho pensato che non ce l’avremmo mai fatta. Ero molto stanca. In più, mi sono venute le mestruazioni. Mi vergognavo perché ero l’unica donna e mi dispiaceva chiedere di fermarci per andare in bagno a cambiarmi. Non mi sono neanche potuta lavare, mi sentivo sporca e a disagio”.
Si sono lavati solo tre volte in tutto il viaggio.
La prima sera si sono fermati in un
paesino e hanno dormito davanti a un forno, su un pavimento di ceramica bianca. Hanno mangiato riso, cocco e una minestra di formaggio, e si sono addormentati subito, esausti. Hanno sempre dormito per strada. Si fermavano quando faceva buio, ovunque fossero, fuori città o dentro i centri abitati. Facevano i turni di guardia per evitare che gli rubassero le biciclette. Ogni volta che arrivavano in un paese erano oggetto dei commenti degli abitanti, e i poliziotti locali di turno si presentavano subito per ordinargli di andare via. Tutti e cinque insieme avevano in totale centocinquanta dollari per il tragitto. Hanno mangiato pane in tutte le declinazioni: pane bianco, pane dolce, pane di guayaba e pane di formaggio; e anche manghi che raccoglievano dagli alberi per strada. Un giorno una signora gli ha regalato della carne, che hanno cucinato con il fornellino.
“Bevevamo acqua bollente perché l’asfalto era caldissimo. Fisicamente, è stata molto dura”, dice Ronaldo, che da pompiere è abituato a valutare la resistenza del suo corpo.
Le ruote del carretto e delle biciclette si sono rotte, bucate o piegate varie volte, e le hanno sempre riparate con soluzioni di fortuna. Alla fine si sono disfatti del carretto e di altri oggetti che non aveva senso portare. Hanno abbandonato quasi tutto.
Il momento più difficile per il gruppo è stato “la notte del temporale”, un paio di giorni prima di raggiungere Cúcuta. “Siamo arrivati vicino a un bosco e nel silenzio della notte abbiamo visto un mare di lucciole che illuminavano tutto”, racconta Ronaldo. “Prima si è alzato il vento, poi sono cominciati i lampi, sempre più intensi. Ho detto: ‘Ragazzi, qui si mette a piovere forte’”.
Non hanno avuto il tempo di fare niente. Si sono gettati a terra per proteggere le loro cose. Il rami degli alberi volavano e le tegole dei tetti di lamiera delle case vicine passavano sopra le loro teste. Era buio pesto, loro erano disorientati e pieni di paura. Ronaldo, che è molto religioso, dice che dopo quell’esperienza crede ancora di più in dio, perché si è messo in ginocchio e ha pregato con tutte le sue forze affinché la pioggia e il vento si calmassero. “E deve credermi quando le dico che dopo neanche tre minuti la pioggia si è fermata di colpo”.
Un carico di frustrazioni
Cúcuta è una tipica città di frontiera: poco ospitale, piena di tensioni e di gruppi armati. Ci sono le forze dell’ordine di entrambi i paesi, Colombia e Venezuela. Appena arrivati, i cinque hanno chiesto aiuto ai trocheros, persone che guidano i migranti per passare da un paese all’altro. Loro volevano entrare in Venezuela attraverso strade alternative a quelle legali.
Ma con la chiusura della frontiera per la pandemia, i _ trocheros _non riescono più a soddisfare tutte le richieste dei venezuelani. Dal varco del ponte internazionale Simón Bolívar non si può più passare, e la polizia colombiana non fa nulla al riguardo. Il tragitto, che dovrebbe durare quaranta minuti, diventa lunghissimo a causa del percorso impervio e della paura di sentirsi fuggiaschi nel proprio paese. I venezuelani attraversano il fiume e le montagne trascinandosi un carico di frustrazioni: una storia di fallimento, quella della loro migrazione, e un’altra di umiliazione, quella del ritorno a casa. Un flusso gestito male nel mezzo di una pandemia.
Ufficialmente, più di 50mila venezuelani sono rientrati nel paese dall’inizio della crisi sanitaria. Tuttavia è difficile sapere quale sia la cifra reale, dato che spesso chi torna lo fa illegalmente e senza sottoporsi alla quarantena imposta dal governo di Caracas.
Secondo le autorità colombiane, per la prima volta in cinque anni il numero dei venezuelani nel paese è diminuito, anche se è un calo di appena lo 0,9 per cento. A febbraio del 2020 c’erano 1.825.687 venezuelani in Colombia, a marzo 1.809.872. Fino al 26 maggio, sempre secondo le autorità colombiane, poco più di 66mila venezuelani sono partiti dalla Colombia per tornare a casa. Questo è un nuovo motivo di tensione tra i due governi, che hanno cattivi rapporti. Il presidente Nicolás Maduro ha accusato il leader colombiano, Iván Duque, di avere un piano per “far rientrare i venezuelani malati” nel paese con l’intenzione di “contagiare il Venezuela”.
A Cúcuta, Ronaldo e gli altri hanno pagato i _trocheros _con le loro biciclette. Le hanno lasciate quando sono arrivati dall’altra parte del confine, a San Antonio del Táchira, la prima località venezuelana superata la frontiera, e per loro è stato come se gli fosse strappato qualcosa.
◆ Quasi cinque milioni di venezuelani hanno lasciato il paese negli ultimi anni a causa della crisi economica, sociale e politica, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). La Colombia è il paese dell’America Latina che ha accolto il maggior numero di migranti venezuelani, seguita dal Perù, dal Cile e dall’Ecuador. Con lo scoppio della pandemia, si stima che oltre cinquantamila di questi emigrati, che lavoravano nell’economia informale, siano tornati in Venezuela. Dall’inizio di giugno, su indicazione del presidente Nicolás Maduro, l’accesso al paese per gli emigrati è permesso solo tre giorni alla settimana, attraverso i punti di transito autorizzati e in gruppi di massimo trecento persone. Bbc mundo, Oim
Alcuni militari venezuelani gli hanno chiesto come erano arrivati fino a lì. Mentendo, hanno risposto che erano passati dal ponte. I militari hanno fatto finta di credergli, poi li hanno invitati ad andare al terminal degli autobus di San Antonio, dove le autorità stavano riunendo altri migranti in attesa di ricevere istruzioni.
“Il terminal era pieno di gente. C’erano migliaia di persone. Sembrava un carcere, ci siamo sentiti come dei detenuti che vengono fatti uscire in cortile per la prima volta e non sanno che fare”, spiega Ronaldo. La scena gli ha ricordato la serie tv Prison break, una delle sue preferite. “La gente era seduta a terra con i propri effetti personali, qualcuno aveva steso la biancheria su corde improvvisate. Era tutto molto disorganizzato”, dice. “Non ci hanno dato altre informazioni. Ci hanno fatto il primo test rapido per il covid-19, che è risultato negativo, e poi abbiamo dovuto attraversare un tunnel di acqua e cloro per decontaminarci”.
Il colore delle case
Il gruppo ha trascorso la notte alla stazione degli autobus, poi il giorno dopo è stato mandato in un “rifugio” istituito dal governo di Caracas per la quarantena. Sono stati fortunati. Ricordano spaventati come, in quelle ore di attesa, la gente si accalcasse quando le forze armate venezuelane annunciavano che il pranzo era pronto. Hanno anche arrestato alcune persone che cercavano di rubare delle borse. I militari gli hanno appeso un cartello sulla schiena con la scritta: “Non devo rubare nel terminal”, poi le hanno costrette ad andare in giro perché tutti sapessero quello che avevano fatto.
Al rifugio hanno trascorso quattro giorni in isolamento. Per fortuna l’organizzazione era migliore di quella del terminal e sono stati trattati bene. “Ci davano tre pasti al giorno, c’erano i bagni e le stanze erano pulite”, dice Ronaldo. La mattina del quinto giorno gli hanno fatto un altro test, che è risultato negativo, e li hanno fatti salire su un autobus diretto a Caracas. Ci hanno messo più di ventiquattr’ore per arrivare nella capitale, dove hanno fatto una seconda quarantena, sempre in un rifugio. Poi sono rimasti isolati in casa per altri 14 giorni, in questo caso il controllo era affidato ai vicini, che gli vietavano di oltrepassare la soglia di casa.
Il sindaco di Valles del Tuy si è messo in contatto con Ronaldo e gli ha offerto di entrare nel corpo dei pompieri del comune, ma lo stipendio continua a essere insufficiente per vivere. Ora il suo progetto è di mettere su un forno in casa e preparare il pane con la sorella. Il pane che li ha nutriti durante il viaggio in bicicletta per tornare in Venezuela potrebbe diventare una soluzione per il futuro.
Il nipote Johemir e la moglie Raquel sperano di aprire un negozio da parrucchiere, sempre a casa e con dei prezzi popolari, usando qualche risparmio messo da parte a Montería, in Colombia.
“Il frigo è vuoto, ma preferisco soffrire la fame a casa mia”, dice Ronaldo.
“Sa quando ho capito che il Venezuela è messo davvero male?”, mi chiede. “Quando ho attraversato la frontiera e ho visto i colori delle case. I muri sono scoloriti, come in tutto il paese. Sono anni che le case non vengono ridipinte. Si ricorda quando i venezuelani passavano una mano di vernice alla fine di ogni anno? Oggi è impensabile. Il declino è evidente. In Colombia tutte le case avevano dei colori vivaci, erano curate e belle”.
Ronaldo, Johemir e Raquel trascorrono il resto del pomeriggio a guardare sul cellulare le foto del loro viaggio, mentre bevono succo di mango.
I frutti vengono dall’albero della strada davanti alla loro casa. ◆fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati