Nel 1902, il cilindro di cera di Thomas Edison diventò finalmente abbastanza robusto da poter essere prodotto in serie, e gli statunitensi cominciarono a comprare registrazioni di musica per i loro fonografi domestici. L’innovazione fruttò parecchi soldi: alla fine del 1903, la versione di Enrico Caruso di Vesti la giubba dall’opera Pagliacci aveva venduto un milione di copie. Di lì a poco lo standard diventò il 78 giri, un fragile disco di gommalacca con i solchi su entrambi i lati. Oggi può sembrare una tecnologia primitiva – una puntina che scorre su un solco senza nemmeno l’aiuto della corrente elettrica – ma era in grado di raggiungere volumi altissimi. Negli anni venti Ma Rainey incise una serie di successi, e ancora oggi la madre del blues ha il potere di far rigare dritto un uomo debole e fedifrago, specialmente se la predica esce a tutto volume da un vecchio grammofono, con la sua tromba che si proietta minacciosa nella stanza.

Quei primi 78 giri erano brevi (appena tre minuti per lato), avevano una gamma sonora compressa (il registro basso era particolarmente debole) ed erano caratterizzati da un costante crepitio simile a quello di una bistecca sulla piastra. La corsa al miglioramento della tecnologia era appena cominciata.

Alla fine degli anni venti gli ingegneri scelsero di usare l’elettricità e negli anni trenta scoprirono il nastro magnetico, ma solo nel dopoguerra arrivò la svolta definitiva: il disco in vinile long playing (detto lp) a microsolco, del diametro di 25 centimetri (poi esteso a trenta), che roteava dolcemente a 33 giri e 1/3 al minuto. La chiave era la durata: il disco era in grado di comprimere 45 minuti di musica in un messaggio coerente e unificato.

Che piattaforma magnifica! A partire dal 1955 circa, un numero sconfinato di etichette si mise a sfornare dischi che immortalavano le vette della creatività umana in tutti i generi: musica classica, rock and roll eccetera. Un lp poteva contenere indifferentemente una sinfonia di Beethoven, delle canzoni di Ella Fitzgerald o un concept album dei Beatles. Per il jazz moderno, l’lp è il testo base, il principio organizzatore, lo standard universale in base al quale si giudica l’eccellenza.

Il problema era che gli lp erano costosi, perciò il formato più popolare in quegli anni diventò il più economico 45 giri, una versione aggiornata del 78 giri con due lati brevi, ognuno dei quali aspirava a essere un successo. Alla fine degli anni sessanta, l’industria discografica sperimentò lo stereo 8 e le audiocassette, particolarmente adatti alle auto e ai camion, e più avanti le cassette cominciarono a essere usate anche negli stereo portatili e nei walkman. Ma l’oggetto più importante rimaneva l’lp, che era anche un accessorio perfetto per lo stile di vita che lo accompagnava. Dopo aver lasciato cadere la puntina sul piatto, l’ascoltatore poteva mettersi comodo in poltrona e ammirare l’illustrazione o la foto di copertina, studiare le note o riordinare la sua collezione per nome, genere, etichetta o colore della costola.

Questa cavalcata di più di trent’anni di successo raggiunse l’apoteosi nel 1982 con Thriller di Michael Jackson, che secondo la Sony ha venduto più di cento milioni di copie nel mondo.

Qualche anno dopo, l’lp fu reso apparentemente obsoleto dal compact disc (cd). Inventato nel 1979 ma molto diffuso solo a partire dal 1985, il costoso cd, teoricamente superiore dal punto di vista del suono e venduto inizialmente in custodie ingombranti per scoraggiare il taccheggio, cominciò a erodere il dominio dell’lp. L’industria musicale aveva già fatto un sacco di soldi, ma il cd fece lievitare i profitti a livelli astronomici. A un certo punto, gli appassionati decisero non solo di comprare i dischi appena usciti direttamente in cd, ma di sostituire le loro vecchie collezioni in vinile. Nel 1999, un anno particolarmente fortunato, le case discografiche incassarono 25,6 miliardi di dollari (ai valori del 2023).

In pochi all’epoca lo avevano capito, ma nella base digitale del nuovo formato c’erano già i semi del crollo dell’industria. I cd si basano sulla logica binaria degli 0 e degli 1, proprio come il codice informatico, e questa modalità si presta facilmente alla duplicazione.

L’industria musicale non ha un meccanismo per remunerare chi ha contribuito ai dischi di successo. C’è scritto sul contratto, nero su bianco

Il picco delle vendite dei cd arrivò un secolo dopo il primo cilindro fonografico prodotto in serie, ma coincise con la diffusione dei computer dotati di lettore cd e di applicazioni per riprodurli. I cd registrabili esistevano già da un po’, ma ora chiunque poteva copiare e masterizzare la musica contenuta nei suoi cd senza perdere troppa qualità del suono e condividerla. Game over.

Proprio allora cominciò la mia carriera di musicista. Il mio trio jazz, the Bad Plus, firmò per la Columbia Records nel 2002, e il nostro disco d’esordio, These are the vistas, vendette centomila copie solo negli Stati Uniti (un risultato sorprendente per un gruppo strumentale d’avanguardia). Era l’ultimo rantolo di vita del vecchio sistema: quando uscì Give, il nostro secondo album, i fans ci dissero che lo avevano masterizzato per gli amici. Apparentemente da un giorno all’altro, e forse per la prima volta, le case discografiche stavano facendo meno soldi. In preda al panico, nel 2005 la Columbia decise di usare un software di protezione del diritto d’autore, che però aveva una “porta di servizio” digitale che poteva essere facilmente sfruttata dagli hacker malintenzionati. A malincuore, dicemmo a chi ci seguiva di non comprare il disco finché la questione non fosse stata risolta. Nel frattempo, il nostro contratto era scaduto.

I cd masterizzati erano solo l’inizio del fallimento. Il codice binario aveva invaso la società attraverso internet, e la condivisione dei file ormai era diventata onnipresente, seguita dai servizi di streaming. Il primo responsabile, Napster, era spuntato nel 1999, ma nel 2001 l’industria discografica riuscì a farlo chiudere per violazione del diritto d’autore (l’anno prima, il gruppo rock dei Metallica aveva fatto causa a Napster, attirandosi un’ondata di pubblicità negativa per aver osato suggerire che i fan dovevano pagare la loro musica). Chiudere Napster, ovviamente, non è servito. Nel 2005 arrivò YouTube e lo stesso anno esplose la radio online Pandora; Tower records, la storica catena di negozi frequentati dagli appassionati di musica, chiuse i battenti nel 2006.

Nel 2011, dopo varie discussioni, alla fine tutti si sono arresi e Spotify è sbarcata sul mercato statunitense. La J&R, catena di Manhattan, ha resistito fino al 2014: da quando l’ultimo negozio ha tirato giù la saracinesca, a New York non esiste più un luogo fisico dove curiosare tra le novità più importanti del jazz, della musica classica e del pop. Se non siete online, peggio per voi.

Non si può fermare la musica, ma queste vicissitudini hanno di fatto impedito a molti non musicisti di avere una carriera nell’industria, a cominciare dai dipendenti delle case discografiche e dei negozi di dischi. Persone appassionate improvvisamente si sono trovate senza lavoro. Non si contano i musicisti sfruttati dal sistema che hanno guadagnato pochi spiccioli per innovazioni che hanno influenzato la cultura in tutto il mondo. La maggior parte dei miei colleghi può citare Hunter S. Thompson: “L’industria musicale è una trincea di denaro vuota e crudele, un lungo corridoio di plastica dove ladri e papponi sono a piede libero e gli uomini giusti muoiono come cani”.

Prendiamo un prodotto raffinato come l’album Kind of blue di Miles Davis, del 1959, considerato generalmente un capolavoro assoluto. I musicisti straordinari che accompagnavano Davis – Cannonball Adderley, John Coltrane, Bill Evans, Paul Chambers e Jimmy Cobb – furono pagati il minimo sindacale per entrambe le sedute di registrazione; Cobb, che suonava la batteria, incassò qualche dollaro in più per le spese di trasporto: il suo compenso per la giornata era di 66,67 dollari. Un musicista che è stato fondamentale per la riuscita dell’album di jazz più venduto di tutti i tempi non dovrebbe passare la vecchiaia a preoccuparsi dei soldi, direte voi. Invece all’inizio del 2020, pochi mesi prima di morire, Cobb ha dovuto lanciare un appello per pagarsi le spese mediche.

Come può spiegare qualsiasi avvocato, l’industria, per il modo in cui è strutturata, non ha un meccanismo per remunerare chi ha contribuito ai dischi di successo. Non è un segreto. C’è scritto sul contratto, nero su bianco. Cobb lo firmò, come tutti gli altri. A Davis andò un po’ meglio, dato che era il leader e aveva un agente che sicuramente avrà negoziato un compenso equo prima di farlo firmare. Ma ci sono innumerevoli musicisti che non videro più un centesimo dopo quel primo e ultimo pagamento.

Pierluigi Longo

All’inizio del passaggio al digitale c’è stato un risvolto positivo: un nuovo, bellissimo, giocattolo chiamato iPod. Per i collezionisti il primo iPod era un oggetto quasi magico. Mi ricordo che ho passato quasi una settimana a scegliere attentamente quali brani caricare. I miei Thelonious Monk, John Coltrane e Miles Davis erano sparsi in costosi cofanetti cd, nessuno dei quali si prestava particolarmente all’ascolto casuale. Ho importato sull’iPod la crema della mia collezione ricalibrando e riordinando continuamente la scaletta. Il mio obiettivo era semplice: se mi avesse investito un autobus, l’iPod ancora vibrante nella mia mano esanime avrebbe tramandato ai posteri la mia opinione sul meglio del meglio.

La Apple, però, aveva altri progetti. Non era soddisfatta del modello economico di iTunes, che faceva acquistare brani a un dollaro l’uno. Così è entrata nel mercato dello streaming con Apple Music. Prima ha messo fuori produzione il lettore ottico sui suoi portatili (per copiare i cd da quel momento serviva un masterizzatore esterno vecchio stile); poi nel 2022, senza fare rumore, ha messo fuori produzione anche l’iPod. Alla Apple volevano che tutte le strade portassero in un’unica direzione, e hanno sostanzialmente fatto in modo che per gli ascoltatori non ci fosse altra scelta. Oggi, tutti i miei amici e conoscenti ascoltano la musica in cuffia con un iPhone collegato ad Apple Music (o a qualche altro servizio di streaming, tipo Spotify).

Lo streaming è stato un bene sotto tanti punti di vista. La vecchia industria discografica era la più classica delle barriere, e solo pochi fortunati avevano una possibilità. Oggi ce l’hanno tutti. Un esempio dai miei file personali: dopo che ho aggiunto uno splendido brano della suora etiope Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou a una playlist di Spotify intitolata Cinque minuti che vi faranno amare il pianoforte, sono cominciati a fioccare commenti da tutte le parti, perfino dallo stilista Isaac Mizrahi e dal disegnatore Christoph Niemann. Non sono stato l’unico a cantare le lodi di Guèbrou negli ultimi anni, ed evidentemente la nostra spinta promozionale ha funzionato: recentemente l’ho sentita al ristorante, all’aeroporto e su Netflix. Guèbrou è morta nel marzo di quest’anno a 99 anni, e spero che la sua tardiva riscoperta le abbia assicurato un posto nei libri di storia. In ogni caso, è importante che sia a portata di clic.

Nessuno, a parte gli addetti ai lavori, sa davvero come funzionano gli aspetti economici dello streaming. Paga, ma quanto paga? E a chi? Artisti piuttosto noti di diversi generi non hanno avuto il minimo imbarazzo a pubblicare suoi social media i magri assegni ricevuti da Spotify per i diritti d’autore, e hanno invitato gli ascoltatori a comprare la loro musica su Band­camp, un sito di promozione musicale, come “scelta etica”. È la prova che il vecchio modello economico è morto: “Comprate la mia musica come scelta etica”. L’industria musicale per come l’abbiamo conosciuta è durata circa un secolo, dal 1903 al 2003.

Personalmente, quello che mi preoccupa sono i metadati. Negli lp c’era quasi sempre un testo, specialmente nei dischi di jazz o di musica classica. Con il cd i caratteri sono diventati più piccoli, a volte troppo piccoli per riuscire a leggerli, ma almeno c’erano. Con lo streaming il testo è quasi scomparso. È vero che si possono cercare le informazioni online, ma si è perso qualcosa. Nel jazz è di vitale importanza sapere da chi è composta la band. Molti dei miei studenti di jazz al New England conservatory of music, dove insegno da sette anni, non hanno idea di chi suoni il basso o la batteria negli album che ascoltano in stream­ing.

La muzak, la tipica musica di sottofondo nei supermercati o negli ascensori, fu teorizzata dal generale George Owen Squier, un prolifico inventore a cui si devono, tra le altre cose, il multiplex telefonico e l’aeronautica militare degli Stati Uniti. Squier ipotizzava che la maggior parte delle persone volesse essere sempre circondata da musica innocua , ed evidentemente aveva ragione. La muzak, tuttavia, era uno specifico modello di business per un mercato e richiedeva un impegno attivo e un investimento da parte del compratore. Spotify ha ulteriormente raffinato questo processo, con la creazione di playlist di musica d’atmosfera, spesso generate da algoritmi, buone per ogni occasione e accessibili a chiunque in qualsiasi momento.

Il bar accanto alla mia lavanderia automatica a Brooklyn usa il jazz come musica di sottofondo. Tutti i miei amici e colleghi sanno che sono bravo nel “test a occhi bendati”: in parole povere, so riconoscere un album jazz e i musicisti che ci suonano al primo colpo, senza bisogno di altre informazioni. In questo bar, invece, non so mai dire chi e cosa sto ascoltando. È perché la musica è opera del Nouveau Jazz Trio, un gruppo di anonimi musicisti scandinavi che suonano in uno stile deliberatamente insipido fatto per le playlist di Spotify: il colosso dello stream­ing li usa per risparmiare qualche centesimo in più sull’assegno già magrissimo che corrisponde agli artisti veri. Secondo l’app d’identificazione musicale Shazam, la loro esecuzione senza volto di Georgia on my mind è stata riprodotta in streaming milioni di volte, probabilmente grazie alla presenza in playlist di Spotify come Jazz for study. Quando penso al Nou­veau Jazz Trio, avverto lo stesso brivido lungo la schiena che sentono gli scrittori quando pensano a ChatGpt.

I ricavi dello streaming hanno spinto qualcuno a sostenere che l’industria musicale si è “risollevata” dall’abisso in cui era precipitata alla fine degli anni duemila. Altri osservano che Apple Music è solo un servizio civetta per la Apple e che Spotify non ha ancora generato neanche un dollaro di utile.

Ho sentito che molti nuovi artisti pop cercano attivamente contratti per fare pubblicità a prodotti non musicali appena si legano ad agenzie che possono chiedere in giro al posto loro. È vero che la musica per i videogiochi paga? Possiamo avere un ingaggio per Fortnite?

Siamo ancora lontani dal capire le ramificazioni di avere tutto a portata di clic. In ogni caso, però, la musica sopravviverà. Dopotutto, c’era un sacco di musica anche prima che Caruso vendesse un milione di copie nel 1903. Se l’industria musicale è durata appena un secolo, pazienza. In fin dei conti fare musica tocca ancora ai musicisti.

Come alternativa allo streaming, l’lp sta vivendo una rinascita incredibile. L’anno scorso negli Stati Uniti sono stati venduti 43,5 milioni di lp. Quando sono passato dagli lp ai cd, ero sicuro che non saremmo mai tornati indietro. Invece alle persone piace ancora comprare i dischi in vinile: amano le dimensioni, amano il suono, amano prendersi cura di qualcosa che si degrada. Non è una scelta morale, ma è divertente. Ogni volta che pubblico un nuovo album, la prima domanda che gli ascoltatori mi fanno sui social è: “Esce in vinile?”.

Il ritorno dell’lp mi dà la speranza che il futuro riservi altre vittorie inattese. A quanto pare, perfino l’umile cassetta è tornata in auge tra gli ascoltatori che prediligono un’estetica punk o lo-fi. Chissà, magari la Apple un giorno riesumerà anche l’iPod. ◆ fas

Ethan Iverson è un pianista, compositore e critico musicale statunitense. Questo articolo è uscito sul settimanale statunitense The Nation con il titolo The end of the music business.

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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati