La descrizione più straziante di cosa si prova a essere cancellati si trova in un libro scritto molto prima che l’espressione cancel culture (letteralmente “cultura della cancellazione”) diventasse un’arma di guerra culturale. Nel romanzo La macchia umana di Philip Roth, pubblicato nel 2000, Coleman Silk, professore ed ex rettore di un’università immaginaria chiamata Athena college, tiene un seminario a cui partecipano quattordici studenti. Dopo sei settimane, due di loro non si sono ancora mai visti. All’inizio della lezione, Silk domanda: “Qualcuno conosce queste persone? Esistono o sono fantasmi?”. Nell’originale inglese la parola usata è spook, un sinonimo di ghost, fantasma, ma storicamente anche un termine spregiativo verso gli afroamericani. Il professore non sa che i due studenti che non ha mai visto sono entrambi neri. Non importa: Silk è bollato come razzista (in un successivo sviluppo narrativo, si scoprirà che è afroamericano ma passa per ebreo). Passa due anni in purgatorio, tra accuse e indagini varie. Nessuno dei suoi colleghi ha il coraggio di difenderlo. Caduto in disgrazia, si dimette. La sua vita va in pezzi.

La vicenda narrata da Roth sembra assurda, ma corrisponde a un fatto realmente accaduto. Nel 1985, il sociologo Mel Tumin dell’università statunitense di Princeton (paradossalmente, un rispettato studioso di relazioni razziali) pronunciò le stesse parole di Silk, esattamente nello stesso contesto. Tumin, che era amico di Roth, fu accusato d’incitamento all’odio e messo sotto inchiesta dall’ateneo.

christian dellavedova

Pensando alle polemiche sulla cancel culture, due aspetti di questo episodio sembrano particolarmente rilevanti. Uno è che dal 1985 sono passati 37 anni: Ronald Reagan era il presidente degli Stati Uniti, Margaret Thatcher era la prima ministra del Regno Unito e la parola twitter , cinguettio, indicava ancora solo il verso che fanno gli uccelli tra i rami. In altre parole, non c’è niente di particolarmente nuovo nelle attuali preoccupazioni sulla tensione tra libertà di espressione e insulto, tra l’innata scivolosità del linguaggio e la necessità di fare attenzione a luoghi comuni che possono essere offensivi, tra le richieste individuali di giustizia e l’imperativo collettivo di rimediare ai torti storici.

La cancel culture è un’invenzione di pochi anni fa ed è tutt’altro che innocente. È una strategia ben precisa, che usa come armi una serie di dilemmi presenti da molti anni nella nostra società. Il vero elemento di novità, però, è che questa strategia è riuscita a trasformare quelle tensioni in conflitti inconciliabili. Ed è questo il secondo aspetto per il quale il racconto di Roth e i fatti che l’hanno ispirato hanno rilevanza oggi. Nella realtà, infatti, Mel Tumin non ha subito la stessa sorte di Coleman Silk.

Tumin è stato indagato per mesi dalle autorità di Princeton, ma alla fine è stato scagionato e l’episodio è finito nel dimenticatoio, tanto da non essere citato nemmeno di sfuggita nel suo necrologio sul New York Times, del 1994. Tempo dopo, la critica Elaine Showalter ha usato La macchia umana come testo di studio nelle sue lezioni a Princeton e, come ha ricordato nel 2018, “non ho avuto nessun problema a leggere dei passaggi a voce alta come spunto di discussione”.

Ma cosa succederebbe oggi a Tumin? Probabilmente farebbe la fine di Coleman Silk, il protagonista del romanzo. Tumin rimarrebbe agli occhi di tutti l’esperto di relazioni razziali che si era rivelato razzista. Il marchio gli rimarrebbe impresso per sempre.

Per disegnare un quadro il più possibile esatto della situazione attuale, dobbiamo essere in grado di triangolare tra queste due verità. Da una parte, le questioni da affrontare sono reali. Non sono il frutto di un’isteria legata all’ideologia woke, un termine che indica lo stare all’erta di fronte alle ingiustizie sociali o etniche. Se emergono è perché ci sono persone che hanno rivendicato, di fronte a grandi disparità, il diritto di far sentire la propria voce. Chi finora ha goduto del privilegio di esprimersi come voleva senza conseguenze per le sue affermazioni – in grande maggioranza sono maschi bianchi con un’istruzione universitaria – si scopre contestato e giudicato. A molti tutto questo non piace.

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D’altra parte, la politica e la cultura sono sempre più tribalizzate. Il tribalismo è binario: la zona grigia della sottigliezza, dell’ambiguità, della complessità e dell’esitazione si restringe fino quasi a scomparire. Gli errori diventano reati. I lapsus momentanei diventano stelle fisse nel firmamento digitale. La confusione mentale di cui tutti siamo vittime diventa potenzialmente suicida. La fragilità umana diventa imperdonabile. In tutto questo, il resto del mondo anglofono ha importato quella che nella Macchia umana Roth descrive come “la più antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere più sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia”.

Da un lato di questo spartiacque, dobbiamo tenere presente che anche essere cancellati è una sorta di privilegio. Il modo più efficace per mettere a tacere un individuo o un gruppo, infatti, non è chiudergli la bocca, è chiudergli la porta. Nei mezzi d’informazione e nelle università l’esclusione di chi non si conforma è una lunga e consolidata tradizione.

Per fare solo un esempio: lo storico Niall Ferguson è uno dei più noti sostenitori del progetto di una nuova università ad Austin, in Texas, che propone di mettere al bando la cancel culture. A marzo del 2018, Ferguson ha organizzato una conferenza sulla storia applicata a Stanford. I relatori erano trenta storici bianchi e maschi, e una sola donna (anche lei bianca). La consolazione, forse, è che se non sei invitato non possono cancellarti; non possono impedirti di parlare se non ti avvicini nemmeno al palco. È per questo che è così difficile inquadrare chiaramente la situazione: il problema è avvolto in una nebbia di ipocrisia. Il blog di destra Guido Fawkes sostiene che secondo i suoi lettori chi vuole “mettere al bando o cancellare parole e persone” non è un woke, ma un “fascista rosso”. E attacca gli inviti fatti da organismi del governo britannico a intellettuali non bianchi come Afua Hirsch e David Olusoga, vantandosi di essere riuscito a convincere il ministero dell’interno a “negare un palco” a Priyamvada Gopal, professoressa a Cambridge.

Possiamo constatare come in questo contesto il verbo “cancellare” abbia una sua peculiare coniugazione: “Io ho libertà di parola assoluta. Tu mi stai offendendo. Lei è una fascista rossa. Noi dobbiamo difendere i nostri valori. Voi siete delle femminucce. Loro stanno cercando di metterci a tacere”.

A questa doppia morale si aggiunge l’autocommiserazione di chi pensa che la libertà di parola sia una strada a senso unico. La cultura dei mezzi di comunicazione e quella politica dell’era digitale incoraggiano la provocazione fine a se stessa. Ma “provocare” è un verbo transitivo. Se infili il bastone in un nido di vespe, non puoi stupirti se loro escono e ti pungono.

Lo storico David Starkey (una figura onnipresente in tv, alla radio e sui giornali del Regno Unito) oggi si dichiara “l’esempio più tristemente noto – mi rifiuto di scrivere la parola vittima – della cancel culture nel nostro paese”. È stato “annientato”, sostiene, per colpa di una singola parola: ha detto in un pod­cast di destra che il commercio degli schiavi non è stato un genocidio, “altrimenti non ci sarebbero tanti maledetti neri in Africa o in Gran Bretagna”. Curiosamente, Starkey si è giustificato spiegando che non c’era nessun redattore della Bbc a fermare il suo scivolone razzista: “In una trasmissione normale ovviamente ci sarebbe stato qualcuno a ricordarmelo”. Ha perfino citato un messaggio di solidarietà di un giornalista che si è detto “inorridito per la mancanza di considerazione” nei suoi riguardi. Non, badate bene, per il palese razzismo dell’affermazione, ma per il fatto che la produzione del podcast non fosse riuscita a proteggere Starkey da se stesso.

La politica e la cultura sono sempre più tribalizzate. Il tribalismo è binario: la zona grigia dell’ambiguità, della complessità e dell’esitazione si restringe fino quasi a scomparire

In altre parole, Starkey non si lamenta di essere stato censurato, ma del contrario. Questo la dice lunga sul mondo del privilegio. C’è sempre stato un ecosistema di provocatori privilegiati che sapevano di poter contare su un’infrastruttura redazionale pronta a metterli al riparo dai guai, come il maggiordomo Jeeves con il suo padrone Bertie Wooster nelle opere dello scrittore P.G. Wodehouse. Una delle conseguenze della proliferazione dei mezzi d’informazione online e del taglio delle redazioni nelle testate più diffuse, però, è che questa rete di sicurezza è stata rimossa. Non è più possibile lasciarsi sfuggire una provocazione razzista e contare sul fatto che un redattore fidato si assicuri che nessuno sia effettivamente provocato.

Di fronte a tanta ipocrisia e a tanta sicurezza del proprio privilegio, si sarebbe tentati di concludere che la paura della cancellazione è solo un demone evocato da chi vede minacciato il suo status di arbitro del dibattito pubblico. Ma questo vorrebbe dire omettere l’altra faccia di questa realtà. Il tribalismo politico e culturale ha effettivamente reso sempre più difficile accettare opinioni diverse dalle proprie come legittime, e i social network non hanno fatto che amplificare l’“estasi dell’ipocrisia” di cui parlava Roth. Il piacere sadico dell’ostracismo è diventato più universalmente accessibile e molto più facile da raggiungere.

Il disgusto per la doppia morale della destra non può renderci ciechi di fronte a un’altra, necessaria duplicità. La democrazia è una macchina del moto perpetuo che oscilla costantemente tra due poli: il valore fondamentale della libertà di espressione e i limiti senza cui è impossibile costruire un dibattito civile. Libertà non è poter fare – o dire – quello che ci pare in qualsiasi contesto. È la condizione di non essere soggetti al dominio altrui.

Ciò significa che a nessuno dovrebbe essere consentito di dominare il dibattito collettivo usando stereotipi odiosi per escludere gli altri. Ma significa anche che gridare contro qualcuno per farlo tacere, dire che certi temi sono fuori discussione o scagliarsi contro errori commessi in buona fede come se fossero crimini imperdonabili sono forme di dominio che danneggiano la democrazia e provocano danni ingiusti alle persone.

Quando la professoressa Kathleen Stock, minacciata fisicamente perché considera il sesso biologico più importante dell’identità di genere, è costretta ad abbandonare il suo lavoro all’università del Sussex, la comprensione dei diritti e delle esperienze delle persone trans non diventa più profonda, ma si appiattisce su un campo di battaglia brutale, in cui può esserci un solo vincitore e una sola verità. Quando la scrittrice Kate Clanchy dice di aver maturato pensieri suicidi per via della polemica sull’uso di luoghi comuni razziali nel suo libro Some kids I taught and what they taught me (Bambini a cui ho insegnato e quello che loro hanno insegnato a me), il confine tra le critiche e la crudeltà personale diventa pericolosamente labile.

Quando giornalisti di testate come la New York Review of Books e il New York Times perdono il lavoro perché pubblicano cose che fanno arrabbiare qualcuno, è il segno che il primo comandamento del giornalismo è diventato “sicurezza innanzi tutto”. Quando semplici accuse, giustificate o no, bastano a bollare un individuo come eretico, anche l’estasi dell’ipocrisia dev’essere temperata dalla consapevolezza che chi dà la caccia alle streghe oggi può diventare la strega domani.

“Tutte le grandi verità cominciano come bestemmie”, scriveva Bernard Shaw. Ma non tutte le bestemmie, dobbiamo aggiungere, sono grandi verità: alcune sono squallide bugie. Il dibattito pubblico deve gravitare intorno a questi due concetti. Se sterilizziamo il linguaggio comune, la democrazia perde il suo sistema immunitario. Se permettiamo ai privilegiati e ai malintenzionati di dire quello che vogliono senza contestazioni, la democrazia soccombe alla loro tossicità.

Non esiste una scorciatoia per uscire da questa giungla di contraddizioni. Ci sono solo punti di riferimento lontani che possono darci una direzione. Una strada folle sarebbe mettere contro libertà e rispetto, come in una specie di battaglia tra galli. I guerrieri della cultura vorrebbero trasformare la cancellazione in uno sport sanguinario in cui il nemico è annientato, ma è un gioco in cui chiunque abbia a cuore la democrazia non deve prestarsi. La critica ragionata e la responsabilità sono una strada molto più difficile dell’eliminazione del nemico. La società civile, però, non può farne a meno.

L’altra ovvia verità è che siamo in un momento storico in cui quelli che parlano sono allo stesso tempo troppi e troppo pochi. Il concetto di dibattito “civile” è facile da rispettare quando chi partecipa appartiene allo stesso genere, proviene dallo stesso retroterra etnico, ha frequentato le stesse scuole e le stesse università, e condivide le stesse tacite certezze su come funziona il mondo. È un concetto che si è sgretolato perché questi circoli ristretti sono stati infranti dagli intrusi che si sono insinuati tra le mura fortificate del privilegio.

Ma troppi di quelli che sono entrati a forza sentono di essere appena sopportati, e sono troppi quelli che devono ancora entrare. Il vecchio concetto di dibattito civile sta morendo, e uno nuovo, più aperto, fa fatica a nascere. Dobbiamo accelerare il suo l’arrivo lasciando più spazio possibile all’antiquata virtù della tolleranza. ◆ fas

Fintan O’Toole

è un giornalista e scrittore irlandese. Questo articolo è uscito sul mensile britannico Prospect con il titolo Cancel culture is turning healthy tensions into irreconcilable conflicts.

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Questo articolo è uscito sul numero 1446 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati