Tangeri, una mattina d’inverno. Mentre il sole tarda a salire, una ventina di donne, ombre nella penombra, si presentano davanti a un edificio residenziale dove tutti ancora dormono. In silenzio, con il capo chino, entrano in un locale buio e umido. Lì alcuni uomini stanno accendendo le macchine per tagliare i tessuti: lavorano senza incrociare gli sguardi delle donne, che hanno i volti nascosti dalle mascherine bianche. Nel laboratorio sotterraneo, di circa quaranta metri quadrati, si confezionano vestiti. Non ci sono finestre né uscite di sicurezza.
Lamia (non è il suo vero nome), una sarta di 36 anni, infila un camice e comincia ad assemblare parti di abiti. “Ecco in anteprima la collezione estiva!”, dice ironicamente. Sui tavoli coperti di stoffe, tra le macchine da cucire in azione, si accumulano magliette, pantaloncini e minigonne firmate Zara, Bershka, Kiabi. “La maggior parte del tempo il responsabile della sartoria ci chiude dentro a chiave”, mormora Lamia. “Grazie a dio, quel giorno non l’aveva fatto”.
“Quel giorno” è l’8 febbraio 2021, un lunedì di piogge torrenziali in cui 28 operai, tra cui 19 donne, sono morti annegati in un laboratorio sotterraneo che si trovava in una zona soggetta a inondazioni. “L’acqua è entrata come uno tsunami e ha sommerso tutto in pochi secondi”, dice Ahmed Ettalhi, presidente della commissione urbanistica del comune di Tangeri. “Non avevano le autorizzazioni. Non sapevamo che ci fosse uno scantinato né un’unità industriale”.
Senza protezioni
L’8 febbraio si è allagato anche il locale dove lavorano Lamia e le sue colleghe, poco distante dall’altra sartoria, ma loro hanno fatto in tempo a uscire. “Potevamo morire”, dice a bassa voce. “Alcune delle operaie rimaste uccise erano mie amiche”. Come decine di altre lavoratrici scappate dagli scantinati del quartiere, quel giorno Lamia si è ritrovata in strada, davanti al palazzo della tragedia. “Si sentivano le urla”, ricorda la madre di tre bambini. “Alcune donne erano riuscite a mettersi in salvo sul tetto e chiedevano aiuto. Le ambulanze sono arrivate troppo tardi”.
A Tangeri migliaia di operai, in gran parte donne, lavorano in questi laboratori chiamati hofra (“fosse”, in arabo), allestiti negli scantinati e nei seminterrati per confezionare i vestiti delle aziende straniere. Solo in città ce ne sono centinaia, si rammarica Ettalhi: “Nel 2016 abbiamo lanciato un bando per trasferire queste attività nella zona industriale. Abbiamo ricevuto quattrocento domande. Poi bisogna contare i laboratori che non volevano spostarsi e quelli che sono stati aperti dopo. È un numero impressionante!”.
La forza di queste strutture è la capacità di produrre in tempi rapidi collezioni di vestiti, assecondando le fluttuazioni della moda. I dipendenti guadagnano tra i 180 e i 230 euro al mese, meno del salario minimo marocchino (250 euro), senza contributi, e non hanno nessuna garanzia sul rispetto delle norme di sicurezza.
Questi laboratori sono un ibrido: non sono clandestini né del tutto legali. “Le aziende sono iscritte alla camera di commercio, ma i loro proprietari dichiarano solo una piccola parte dei dipendenti e usano locali non regolamentari”, osserva Mustapha ben Abdelghafour, vicepresidente della camera di commercio e dell’industria di Tangeri. In un primo tempo le autorità avevano definito il laboratorio inondato “clandestino”, ma in realtà esisteva dal 2017 con il nome di A&M Confection. Il proprietario, Adil Boullaili, è stato arrestato dopo l’apertura di un’inchiesta per omicidio e lesioni involontarie.
In Marocco più di un quarto dei posti di lavoro del settore manifatturiero sono nel ramo tessile. Il cliente principale è la Inditex, la casa madre del marchio spagnolo Zara. Secondo il direttore generale della Inditex in Francia, Jean-Jacques Salaün, il sistema di controlli aziendale permette una “tracciabilità assoluta”: “Controlliamo tutti i nostri fornitori, in particolare quelli in Marocco, dove ci siamo resi conto che circolavano prodotti contraffatti. Mi sembra improbabile che i nostri subappaltatori possano sfuggire a questo tracciamento. Un laboratorio che non è registrato e regolarmente ispezionato non può far parte della nostra rete di fornitori. Facciamo tutto il possibile per evitare che succedano drammi come quello di Tangeri”.
La città, ad appena 14 chilometri dalle coste spagnole, è il centro di questa produzione e allo stesso tempo è un polo economico rivolto verso l’Unione europea. Ma il dinamismo nasconde una realtà sociale meno sfavillante: gran parte degli abitanti dell’agglomerato urbano, circa 1,2 milioni, continua a vivere nella precarietà. Il settore tessile alimenta un’economia sommersa, dove tutti cercano di mettersi in proprio. Adil Boullaili, il proprietario del laboratorio inondato, aveva cominciato la sua carriera in un’azienda di abbigliamento. “Ha lavorato da noi come operaio, poi come responsabile di linea, e alla fine ha aperto la sua attività”, afferma Meriem Larini, direttrice generale del gruppo tessile Larinor.
Nell’ultimo decennio, in questo ecosistema in espansione, i lavoratori più ambiziosi hanno avuto l’opportunità di creare delle microimprese. Hanno ricevuto prestiti dai fornitori di macchinari, hanno affittato i locali e sono riusciti a evitare i controlli ricorrendo alla corruzione. “È piuttosto semplice creare un laboratorio in uno scantinato”, conferma un industriale marocchino. “Basta avere un impianto elettrico funzionante e passare dei soldi alle autorità. Poi la gente ha talmente bisogno di lavorare che viene a bussarti alla porta”.
Per capire chi sono i clienti di queste microimprese, ci spostiamo dal centro di Tangeri alla zona industriale di Gzenaya. Le fabbriche che sorgono lì mostrano con orgoglio tutta una serie di certificazioni ambientali e di responsabilità etica, presentandosi come stabilimenti modello. “Abbiamo investito molto per soddisfare i criteri fissati dai nostri clienti”, afferma Meriem Larini, titolare di un gruppo che lavora per grandi aziende internazionali.
L’anello debole
Dopo le critiche ricevute per le cattive condizioni di lavoro nelle aziende fornitrici, in particolare in Asia, molti grandi marchi d’abbigliamento hanno cambiato strategia per migliorare la loro immagine. “Un’équipe della Inditex effettua verifiche e controlli saltuari, e si sposta di continuo tra gli stabilimenti a Tangeri. È impossibile sfuggire ai controlli. Se non si rispettano le regole arrivano le sanzioni”, assicura Meriem Larini. Il gruppo spagnolo ricorre perfino a un sistema di _audit _(una valutazione indipendente) per verificare come lavorano i subappaltatori.
Ma la manutenzione costante degli impianti costa molto agli industriali marocchini, che subiscono la forte concorrenza dei paesi asiatici e della Turchia. Per mantenere i profitti e aumentare la produzione, alcune fabbriche affidano parte degli ordini ai piccoli laboratori allestiti negli scantinati di Tangeri.
“Sono l’anello debole di un sistema gestito dalla lobby degli industriali. Sono gli stessi industriali che incoraggiano gli operai a mettersi in proprio”, denuncia Abdellah el Fergui, presidente della Confederazione marocchina delle piccole e medie imprese. “Ogni fabbrica tessile può contare su almeno tre o quattro piccoli subappaltatori che violano le norme di sicurezza. Da lì nascono le tragedie come quella dell’inondazione”, ammette Ben Abdelghafour.
Dal 2010 Karima, una sarta di 52 anni, cuce magliette di una marca famosa in uno scantinato di Tangeri. Un lavoro pesante, cinque giorni su sette, per 200 euro al mese. “Con l’avanzare dell’età mi è venuto mal di schiena e non ci vedo più tanto bene. Così mi hanno ridotto lo stipendio”, racconta la donna, originaria di un villaggio dell’Alto Atlante. Come migliaia di marocchini delle aree rurali, Karima è arrivata a Tangeri con la famiglia nel 2005 in cerca di lavoro. Il marito qualche anno fa è stato colpito da un ictus ed è bloccato a letto. “Il giorno in cui si è ammalato mi sono resa conto che non avevamo nessuna protezione sociale”, dice Karima con le lacrime agli occhi. “So che corriamo grandi rischi: la polvere, le malattie croniche, gli incidenti. Mio cugino ha perso una mano lavorando su un macchinario perché non gli avevano dato i guanti di protezione. Ma almeno ha un lavoro”. Secondo il Consiglio economico, sociale e ambientale del Marocco, nel 2018 ci sono stati cinquantamila incidenti sul lavoro, che hanno causato 756 morti.
Com’è possibile che questi laboratori sotterranei riescano a sfuggire ai controlli dei grandi marchi internazionali? Il direttore di una fabbrica tessile a Casablanca spiega: “Le grandi aziende fanno degli audit che permettono di controllare la responsabilità sociale delle imprese a cui si affidano, ma trascurano la fase di produzione. E il problema è lì. Si lavano la coscienza in Europa, mentre in Marocco chiudono un occhio”.
La maggior parte degli imprenditori marocchini del settore tessile si rifiuta di parlare. “Le grandi aziende impongono dei prezzi così bassi che gli imprenditori marocchini non riescono a essere competitivi senza ricorrere ai laboratori negli scantinati”, ammette una persona che in passato è stata una figura importante del settore. “Fissano un prezzo e, se noi protestiamo, si spostano altrove, in Turchia o in Etiopia”. L’Associazione marocchina delle industrie tessili e dell’abbigliamento (Amith) preferisce non sbilanciarsi. “Non abbiamo mai sentito parlare di questo tipo di subappalti”, si è limitato a dichiarare il presidente Mohammed Boubouh. Dopo la tragedia dell’8 febbraio l’associazione professionale è al centro di forti critiche.
Rodolphe Pedro, proprietario di uno stabilimento a Casablanca dove si tingono i tessuti e dove si fa attenzione a evitare ogni pratica illegale, pensa sia indispensabile un cambio di mentalità: “Il Marocco ha grandi capacità e una posizione geografica vantaggiosa, ma tocca ai politici e ad associazioni come l’Amith valorizzarle. Se avessimo dei politici più determinati, in grado di sostenere i nostri punti di forza, i grandi marchi non potrebbero imporre prezzi così bassi”.
A Tangeri l’attivista femminista Souad Chentouf combatte contro i laboratori sotterranei. Attraverso l’associazione Agissons avec les femmes (Agiamo con le donne), Chentouf contesta le autorità locali, il ministero del lavoro, l’Amith, le aziende e i proprietari delle fabbriche. Secondo lei tutti devono “rispondere delle loro azioni e delle loro negligenze”. Una settimana dopo la morte dei 28 operai, Chentouf voleva organizzare un sit-in di protesta, ma le autorità le hanno chiesto di rinviarlo. “Hanno paura delle ripercussioni”, osserva. Di fatto le istituzioni continuano a tollerare l’economia sommersa perché è un importante ammortizzatore sociale: chiudere i laboratori significherebbe lasciare senza lavoro migliaia di persone. Il politico locale Ahmed Ettalhi sospira: “Se a Tangeri dovessimo eliminare tutti i posti non in regola, il 60 per cento della città sarebbe raso al suolo”.
Così ogni settimana le operaie continuano a presentarsi alla porta di questi scantinati. Il 9 febbraio, il giorno dopo l’inondazione, Lamia è tornata al lavoro. Sa che è pericoloso, ma non ha scelta. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1404 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati