“Ancora co’ sti Måneskin?”, lamenta mia figlia (14 anni) mentre avvio la clip della loro ultima comparsata tv. Si esibiscono nello studio di Ellen DeGeneres, dopo aver fatto bella figura da Jimmy Fallon e aver incassato i complimenti di Mick Jagger, e mi accorgo che l’euforia per i quattro di Monteverde, euforia che mia figlia comincia a stigmatizzare, coinvolge soprattutto la nostra generazione di cinquantenni che, in quanto core (in inglese) del pubblico televisivo, li ha visti nascere a X factor, crescere a Sanremo e maturare sul palco dell’Eurovision. Ci siamo invaghiti di Damiano, abbiamo applaudito i riff di chitarra dopo anni di campionamenti e apprezzato il ritorno a gestualità vagamente punk dopo le geremiadi di trappisti e cantanti indie. Mentre attendiamo che la band core (in romano) de mamma torni nella casa del padre, che sia una prima serata o una rapida ospitata, alimentiamo con la nostra incalzante emotività un fenomeno al momento più televisivo che musicale proiettandoci sopra i nostri rimpianti (“i Måneskin sono il presente del passato che avremmo voluto”) o la retorica da genitori (“non criticateli, sono il futuro”). Alla fortuna che ci auguriamo duratura, sommiamo il desiderio tutto nostro di leggerezza e riscatto. Non so se rivoluzioneranno il rock, ma i Måneskin sono la prima band a cui non chiederemo un autografo, ma di soddisfare la preghiera: “Ci dite che ci volete bene?”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati