Nelle sue apparizioni ai consessi di mezzo mondo il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj ha dimostrato quanto una carriera televisiva non sia da buttar via. La citazione di Martin Luther King di fronte alla platea statunitense, l’azzardatissima evocazione della shoah con gli israeliani e il riferimento ai bombardamenti su Genova nell’appello al parlamento italiano hanno puntato all’immaginario emotivo di chi al conflitto assiste da spettatore, nella speranza di condizionarne le scelte. Come se le sequenze di morte e le letture geopolitiche che dominano i palinsesti non bastassero a muovere gli animi. L’immedesimazione chiede di transitare per il vissuto collettivo. Una “scrittura” che definisce più noi che il leader ucraino. Zelenskyj conosce bene la leva autobiografica che da decenni condiziona talent e reality show. Sa quanto la lingua del “confessionale”, il momento fuori contesto in cui ci si confida allo spettatore, valga molto più di ogni dinamica complessa. La sua cura autorale si modella sul calco delle nostre abitudini televisive. E a breve, dopo averlo visto e ascoltato nelle vesti di resistente, la sera su La7 (che ne ha comprato i diritti) lo apprezzeremo in quelle di protagonista della serie comica da lui prodotta. E la palla tornerà a noi, che dovremo conservare sufficiente lucidità mentale di fronte a un corto circuito che avrebbe steso anche quel preveggente di Guy Debord. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1453 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati