Sui monti nella giungla a poco più di un chilometro dalle linee del fronte nella Birmania orientale, l’ex responsabile del servizio banchetti di un grande albergo fa scivolare l’indice sul grilletto di un fucile d’assalto. Un dentista racconta di aver tolto dei vermi dalle ferite purulente di un giovane ribelle. Una direttrice di marketing descrive i droni commerciali modificati che manovra per ostacolare il nemico.

Più di un anno dopo il colpo di stato con cui l’esercito birmano ha preso il potere – incarcerando i politici eletti, uccidendo più di 1.700 civili e arrestandone almeno altri 13mila – il paese è ancora in guerra, e nella mischia si sono gettati anche alcuni combattenti improbabili.

Da una parte c’è una giunta militare che, fatta eccezione per un breve intervallo di governo semidemocratico, guida il paese con violenza brutale da mezzo secolo. Dall’altra ci sono decine di migliaia di giovani abitanti delle città che hanno imbracciato le armi rinunciando a corsi universitari, videogiochi e unghie laccate per vivere e morire nella giungla.

A marzo il New York Times ha visitato un accampamento nella foresta pluviale della Birmania orientale, dove circa tremila combattenti di una neonata milizia sopravvivono in rifugi di bambù o tela cerata ingaggiando battaglia quasi tutti i giorni.

Anche se il loro numero è trascurabile rispetto agli effettivi di uno degli eserciti più grandi del sudest asiatico, questi guerrieri della generazione z sono riusciti a spiazzare una cricca militare che ha fatto dei crimini di guerra il suo biglietto da visita. E il conflitto si sta intensificando, anche se l’attenzione del mondo si è spostata su altre vicende, come l’invasione russa dell’Ucraina.

Oggi l’esercito birmano, il tatmadaw, non solo è lontano dal consolidare la sua morsa sul paese, ma è costretto a combattere su decine di fronti, dalle terre di confine vicino a India, Cina e Thailandia alle cittadine e ai villaggi nel cuore del paese. Schermaglie e morti sono quasi all’ordine del giorno.

Biancaneve e gli altri

“Combatto perché non accetto il golpe militare e non accetto che vogliano toglierci la democrazia”, dice un’ostetrica del sud del paese che, come altri, preferisce rimanere anonima per proteggere la famiglia. Il suo nome di battaglia è Biancaneve, e nel maggio scorso ha raggiunto un’area controllata da un gruppo etnico armato che da decenni lotta per l’autonomia. In questi mesi i ribelli e i disertori dell’esercito le hanno insegnato a caricare un fucile, montare una granata artigianale e assistere i feriti sul campo di battaglia. “La nostra generazione ha degli ideali”, dice. “Noi crediamo nella libertà”. Ha un figlio di tre anni che è rimasto in città e che non sa dov’è andata sua madre, dice Biancaneve. Accarezza un cucciolo di cane che si è presentato all’accampamento e ora passa il tempo accoccolato sulle ginocchia dei ribelli. “È qualcosa da amare”, dice.

Per far fronte agli attacchi delle milizie civili che combattono al fianco dei gruppi etnici ribelli, il tatmadaw ha intensificato la controffensiva, lanciando incursioni aeree, incendiando villaggi e terrorizzando gli oppositori. “L’unica cosa che i militari sanno fare è uccidere”, dice Ko Thant, che racconta di essere stato un capitano prima di disertare dalla 77sima divisione di fanteria leggera, l’anno scorso, e di aver addestrato centinaia di civili a combattere. “Eravamo sottoposti a un continuo lavaggio del cervello, ma alcuni di noi si sono svegliati”. L’opposizione al golpe del febbraio 2021 è cominciata quando milioni di persone si sono riversate per le strade delle città e dei villaggi. In ciabatte, tacchi a spillo o, nel caso dei monaci buddisti, a piedi nudi, un intero paese ha protestato pacificamente per il ritorno dei leader che aveva eletto. Ma nel giro di poche settimane l’esercito è tornato al suo vecchio schema di gioco: i cecchini hanno sparato sui manifestanti mirando alla testa. Per molti giovani, cresciuti nel decennio delle riforme (dopo il 2010), il messaggio di dissenso non violento lanciato dai veterani della lotta per la democrazia era inutile. Volevano opporsi combattendo. “Le proteste pacifiche non funzionano se il nemico vuole ucciderci”, dice Naw Htee, un’operatrice sociale diventata sergente della milizia. “Dobbiamo difenderci”. Ha minuscoli fermagli nei capelli e ci indica frammenti di granata e proiettili di artiglieria piovuti sull’accampamento nella giungla dove vive. Un ragazzo è seduto accasciato al suo fianco, sulla spalla ha una cicatrice frastagliata in ricordo di uno scontro a fuoco del mese prima.

Oggi in tutta la Birmania ci sono centinaia di milizie civili organizzate non troppo rigidamente in quelle che vengono chiamate Forze di difesa del popolo (Pdf). Ogni milizia giura fedeltà a un governo ombra civile, il Governo di unità nazionale, che si è formato dopo il golpe, e alcuni battaglioni sono guidati da parlamentari rimossi dall’incarico. Il governo ombra dice di aver raccolto per lo sforzo bellico più di trenta milioni di dollari, soprattutto grazie alle donazioni di civili. L’afflusso di denaro ha creato squilibri piuttosto curiosi. Mentre i veterani dei gruppi etnici armati combattono con vecchi fucili tenuti insieme con il nastro adesivo, alcuni appartenenti alle Forze di difesa del popolo sfoggiano armi da fuoco nuove con mirini costosi, anche se tutti lamentano ancora la scarsità di equipaggiamento.

Per ragazzi e ragazze di città abituati a una vita comoda, sopportare una giungla flagellata dalla malaria e infestata dai serpenti è di per sé una grande impresa, e tanto più evitare i cecchini del tatmadaw, i colpi di mortaio e gli attacchi aerei.

“Nella giungla, le Forze di difesa del popolo sacrificano la vita per il paese, nei loro confronti nutro un rispetto speciale,” dice U Yee Mon, un ex poeta che ora riveste l’incarico di ministro della difesa del Governo di unità nazionale. Alcuni dei giovani combattenti erano stati raggiunti da un mandato d’arresto per aver partecipato alle proteste seguite al colpo di stato. Non avevano altra scelta che fuggire.

In un rapporto sui diritti umani pubblicato il 15 marzo, le Nazioni Unite hanno accusato la giunta militare di aver commesso crimini di guerra di massa contro il suo stesso popolo nel periodo successivo al golpe. Ma, a parte qualche sanzione finanziaria e alcune parole di condanna, la comunità internazionale ha fatto ben poco contro i militari birmani. Nessun paese ha riconosciuto il Governo di unità nazionale, anche se è composto soprattutto da politici eletti in parlamento. Con poche speranze di aiuti dall’esterno, il governo ombra si è unito ai gruppi etnici ribelli che controllano il territorio nelle regioni di frontiera. Insieme, hanno organizzato una ferrovia sotterranea per mettere in salvo i giovani e fornirgli un addestramento militare di base.

Naw Htee, ex operatrice sociale, in un accampamento nel Kayin, Birmania, 9 marzo 2022 (Ad​am Dean, The New York Times/Contrasto)

Ospedale a cielo aperto

Una mattina di marzo una squadra di combattenti della resistenza, tutti sotto i 26 anni, raggiunge le trincee sulle linee del fronte nell’est del paese, tenendosi alla larga dalle mine artigianali che loro stessi hanno piazzato per difendere il territorio, visto che le posizioni dell’esercito sono molto vicine. Hanno il respiro affannato. Un combattente inciampa in un ramo e si strappa una ciabatta infradito. Un paio di miliziani hanno il giubbotto antiproiettile, ma senza i rigidi pannelli balistici in grado di salvargli la vita. “Non mi piace vedere il sangue”, dice Ko Kyaw, uno studente universitario di 19 anni, tenendo in mano un proiettile. “Mi fa girare la testa”. Qualche ora dopo, un paio di elicotteri d’assalto dell’esercito mitragliano le trincee dei ribelli, anche se grazie alle informazioni d’intelligence le avevano sgomberate. La notte, come quasi ogni notte, i cecchini del tatmadaw prendono di mira qualunque cosa attiri la loro attenzione: il bagliore di un cellulare di qualcuno che controlla Facebook, magari, oppure la brace rossa di uno spinello. Lo stesso giorno, a nord, sono stati uccisi un insegnante e uno studente di medicina che si erano uniti alla resistenza, uno centrato alla testa da un cecchino e l’altro abbattuto da un colpo di mortaio.

Il Governo di unità nazionale sostiene che le Forze di difesa del popolo, combattendo insieme ai guerriglieri più esperti delle milizie etniche, dal giugno 2021 al febbraio 2022 hanno ucciso circa novemila soldati (mentre circa trecento soldati delle milizie sarebbero morti in combattimento). Un portavoce dell’esercito birmano sostiene che il vero numero delle vittime è più basso e non è stato possibile confermare le cifre fornite dal governo ombra. Ma le fonti militari hanno ammesso che il tatmadaw è preoccupato per l’aumento dei caduti.

I feriti della resistenza sono curati in un ambulatorio a cielo aperto nella giungla, con tavoli operatori e un dispensario fatti di bambù. Ko Mon Guy, un miliziano, riposa su una piattaforma di legno, la gamba bendata a causa di una ferita riportata in uno scontro del mese prima. Quel giorno sono stati feriti altri otto combattenti. “Credo nei diritti umani e nella democrazia”, dice il dottor Drid, il medico che gestisce l’ambulatorio. “Il tatmadaw dovrebbe lottare per questi valori, difenderli”. La voce dell’ex medico dell’esercito è scossa e le sue mani tremano quando racconta del giorno in cui ha lasciato casa sua e ha disertato, l’anno scorso. Non ha detto ai familiari dove andava per paura che l’esercito si vendicasse su di loro: in alcuni casi i familiari dei soldati che hanno disertato sono stati incarcerati e torturati. Per quanto ne sa il figlio, potrebbe essere stato ucciso in combattimento. “È gente vile”, dice delle forze armate in cui si era arruolato a 15 anni. “Sono robot incapaci di pensare”.

Per i giovani birmani il golpe è stato un ritorno a un passato quasi inimmaginabile, senza Facebook e senza investimenti stranieri. Sotto il precedente regime militare, la Birmania era stata uno dei paesi più isolati del mondo. Dopo il golpe, la nuova giunta, guidata dal generale Min Aung Hlaing, ha vietato i social network, distrutto l’economia e rinchiuso di nuovo in un bunker l’intera nazione.

Un combattente nell’accampamento del Kayin, Birmania, 9 marzo 2022 (Ad​am Dean, The New York Times/Contrasto)

“I generali ci hanno rubato il futuro”, dice Ko Arkar, che prima del colpo di stato lavorava come chef in un hotel di Yangon, la principale città del paese. Una volta passava la giornata chiarificando il consommé di manzo e grigliando bistecche perfette. Ora perlustra le linee del fronte con un ingegnere di rete, un operaio di una fabbrica di abbigliamento e un campione di vela ai Giochi del sudest asiatico.

Organizzazione e finanziamenti

Altre generazioni di giovani birmani, prima di questi, avevano cercato di far cadere i generali combattendo dalla giungla. Avvenne nel 1962, dopo il primo golpe militare, e di nuovo nel 1988, dopo che l’esercito soffocò le proteste di massa nella versione birmana del massacro dei manifestanti di piazza Tiananmen, a Pechino. Quasi 35 anni fa studenti e intellettuali fuggirono nelle stesse foreste dove ora hanno trovato rifugio le Forze di difesa del popolo. Anche loro si schierarono con i ribelli delle minoranze etniche che da decenni combattono per l’autodeterminazione. Dopo qualche anno quel movimento armato guidato dagli studenti si spense. I gruppi etnici che gli avevano dato rifugio scoprirono che gli studenti e il resto del paese non erano così devoti all’idea di uguaglianza etnica come avevano sperato. I militari restarono al potere.

Questa volta la resistenza è più organizzata, ha maggiori finanziamenti e ha incanalato le energie dei giovani di tutto il paese, che stanno combattendo in contesti urbani e rurali. Collabora anche più amichevolmente con i gruppi armati etnici, come quelli che rappresentano la minoranza karen, impegnata in uno dei più lunghi conflitti civili del mondo. “Sappiamo quant’è crudele l’esercito, i soldati uccidono la nostra gente e stuprano le nostre donne”, dice Saw Bu Paw, un comandante di battaglione dell’Esercito di liberazione nazionale Karen, uno delle decine di gruppi etnici ribelli. “Dopo il colpo di stato, tutti quanti, nell’intero paese, conoscono la loro natura malvagia”. Secondo gli investigatori dell’Onu il trattamento subìto da alcune minoranze etniche per mano dei militari birmani ha il marchio del genocidio. A marzo gli Stati Uniti hanno definito genocidio anche la campagna del 2016 del tatmadaw contro la minoranza musulmana rohingya.

Anche se non esistono dati certi, ad ascoltare i racconti sembra che il numero di diserzioni dal tatmadaw sia in aumento. Già prima del golpe i soldati erano sovraffaticati e sottopagati. “Chi vuole fare il soldato oggi?”, chiede il dottor Wai, un altro medico militare che ha disertato e ora assiste le Forze di difesa del popolo nella foresta. “È una carriera vergo­gnosa”.

Reclute improbabili

La guerra è una brutta cosa, e i ribelli sono stati accusati di abusi. Nelle città alcuni miliziani delle Forze di difesa del popolo hanno portato avanti una campagna di omicidi e attentati che ha spinto molti a chiedersi se dietro la lotta per la democrazia non si nascondano regolamenti di conti personali.

Eppure la resistenza continua a rafforzarsi, attirando reclute improbabili. Fino all’anno scorso John Henry Newman (è il suo nome vero) studiava per diventare sacerdote nel seminario cattolico di Yangon. Le sue dita, che un tempo facevano scorrere i grani del rosario, hanno premuto il grilletto di un fucile più volte. Lo scorso dicembre, racconta, in un combattimento nella parte orientale del paese il nemico era vicinissimo e lui ha sparato, ma non sa se i suoi proiettili hanno colpito qualcuno. “Uccidere è peccato”, dice. “Ma non quando è una guerra giusta”. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati