La testa del maiale veniva dal mattatoio locale. Normalmente sarebbe stata gettata via, ma Zvonimir Vrselja, un neuroscienziato della Yale school of medicine, aveva un’idea. Quattro ore dopo che l’animale era stato decapitato, lui e i suoi colleghi gli hanno rimosso il cervello dal cranio. Poi hanno collegato i suoi vasi sanguigni a tubi che avrebbero pompato uno speciale cocktail di agenti conservanti e hanno acceso la macchina per la perfusione.

È stato allora che è successo qualcosa di incredibile. La corteccia è passata dal grigio al rosa. Le cellule cerebrali hanno cominciato a produrre proteine. I neuroni sono tornati in vita, mostrando segni di attività metabolica indistinguibili da quelli delle cellule viventi. Alcune funzioni cellulari di base, che avrebbero dovuto cessare irreversibilmente dopo l’arresto del flusso sanguigno, sono state ripristinate. Il cervello del maiale non era esattamente vivo, ma di certo non era morto.

Adesso, per la prima volta, il team sta usando la stessa tecnica sui cervelli umani. “Stiamo cercando di essere trasparenti e molto attenti perché può uscirne qualcosa di importante”, dice Vrselja. Poter rianimare un cervello umano morto porterebbe enormi benefici. I ricercatori potrebbero sperimentare farmaci sulle cellule cerebrali attive per migliorare i trattamenti. Tecniche simili sono già usate per preservare altri organi umani per i trapianti. E in quella che è forse la sua applicazione più utile nell’immediato, questa tecnologia di rianimazione aumenta la possibilità di salvare persone che stanno per morire. Il problema è che dal punto di vista etico è una questione a dir poco complicata. Dimostrando la straordinaria resilienza del cervello, questo lavoro ci costringe a chiederci: quand’è che una persona è davvero morta?

Cinque anni fa lo studio di Vrselja e dei suoi colleghi sui cervelli dei maiali ha fatto scalpore nella comunità medica. “Quando l’ho saputo, la mia prima reazione è stata ‘porca miseria!’”, ricorda Hank Greely, un esperto di diritto biomedico dell’università di Stanford, in California. Non era il solo. L’idea che un cervello separato da un corpo, privato di ossigeno e tenuto a temperatura ambiente per quattro ore possa essere rianimato “va contro tutto ciò che pensavamo di sapere sulla morte”, afferma Lance Becker del Feinstein institute for medical research di New York. “È un vero cambiamento di paradigma nella definizione di cosa sono la vita e la morte”.

Decidere quando qualcuno è morto non è mai stato facile. Gli antichi greci consideravano la cessazione del respiro il segno della morte, e mettevano una candela vicino alla bocca del defunto per controllare. In seguito i medici hanno accertato il decesso di una persona applicando una scossa elettrica, mettendole il dito su una fiamma o punzecchiandola con degli aghi. All’inizio dell’ottocento, dopo diversi casi famosi di presunte sepolture premature, gli obitori e gli ospedali conservavano i cadaveri per vari giorni per verificare la putrefazione. Astuti inventori brevettarono “bare di sicurezza” con prese d’aria e campanelli che potevano essere suonati dall’interno.

Oggi le persone sono solitamente dichiarate morte quando il loro cuore smette di battere e non può essere riavviato. Il Regno Unito non ha una definizione legale di morte e si basa sul parere del medico. Negli Stati Uniti, invece, nella maggior parte degli stati i medici si affidano all’Uniform determination of death act, secondo il quale un individuo è morto una volta che “si è verificata la cessazione irreversibile della funzione circolatoria e respiratoria o la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cervello, incluso il tronco encefalico”.

La parola chiave qui è “irreversibile”. Fino a poco tempo fa pensavamo di sapere con certezza due cose sulla morte. Prima di tutto, che quando il cuore smette di battere l’attività elettrica nel cervello cessa nel giro di pochi secondi o minuti. In secondo luogo, che il cervello subisce danni irreparabili entro pochi minuti dall’inizio della deprivazione di ossigeno. Ma studi recenti hanno contraddetto entrambe queste ipotesi.

Partiamo dall’idea che dopo un arresto cardiaco l’attività elettrica del cervello diminuisce. Per uno studio pubblicato nel 2023, il neuroscienziato statunitense Jimo Borjigin e il suo team hanno analizzato l’attività cerebrale di quattro persone moribonde prima e dopo la sospensione del supporto vitale. “Invece di essere inerte, tutto il loro cervello sembrava in fiamme”, dice Borjigin.

In due di queste persone, alcune regioni cerebrali che erano silenti mentre il paziente era collegato al supporto vitale si sono improvvisamente attivate dopo che è stato rimosso. Anche le onde cerebrali ad alta frequenza chiamate onde gamma, un segno distintivo della coscienza, sono entrate in azione. Un tipo di attività sincronizzata che somigliava a quella associata alla memoria e alla percezione durava fino a sei minuti. Alcune aree del cervello cercavano di collegarsi al cuore. Queste ondate si sono smorzate e intensificate di nuovo per tre volte. In alcune aree l’attività era dodici volte maggiore rispetto a prima che il cuore smettesse di battere e il respiro si arrestasse. “In punto di morte il cervello lancia un vasto tentativo di recupero”, dice Borjigin. “Se riuscissimo a capire meglio cosa succede, credo che potremmo rianimarlo”.

Poiché i soggetti coinvolti non sono sopravvissuti, è impossibile sapere cosa abbiano provato in quegli ultimi momenti di frenetica attività cerebrale. Ma lo studio ha confermato che il confine tra la vita e la morte non è in bianco e nero, e non è l’unico ad averlo riscontrato.

“Siamo portati a pensare alla morte come a un fenomeno binario”, afferma Sam Parnia, un ricercatore dell’università di New York. “Prima sei vivo e poi sei morto. Ma la biologia non funziona così”. Nel 2023 il suo team ha registrato l’attività cerebrale di 53 persone mentre erano rianimate dopo un arresto cardiaco. Nonostante quasi tutti i pazienti fossero in fase di stallo, ovvero la loro attività cerebrale fosse silente, durante la rianimazione il 40 per cento ha mostrato un’attività cerebrale spontanea associata alla coscienza, a volte fino a un’ora dopo che il cuore si era fermato. Il team di Parnia ha parlato con alcune delle persone sopravvissute, e con altre che avevano avuto un arresto cardiaco, e ha scoperto che il 20 per cento ricordava un’esperienza cosciente durante il periodo in cui il cuore si era fermato.

Sebbene alcuni mettano in dubbio le scoperte di Parnia, lo studio dimostra che al momento della morte succede qualcosa. “Non si può parlare di un cervello che sta morendo senza pensare alla natura della coscienza”, afferma Parnia. E non è solo il cervello di chi sta morendo a farci mettere in discussione la nostra comprensione della vita, della morte e della coscienza. Anche il cervello morto sta sollevando delle domande.

Questioni delicate

Avevamo buoni motivi per credere che il cervello non potesse sopravvivere per più di dieci minuti senza ossigeno: al di là di quella soglia i tentativi di rianimazione di solito falliscono, e le persone che sopravvivono spesso hanno problemi cognitivi. Tuttavia, sebbene la privazione di ossigeno dia inizio alla morte cellulare, il danno che ne consegue non dipende tanto dal fatto che il cervello non riceve più ossigeno quanto da quello che succede se l’ossigeno viene ripristinato. Quando il sangue ricomincia a scorrere in un corpo e in un cervello che hanno subìto un’ischemia, o mancanza di ossigeno, provoca i cosiddetti danni da riperfusione.

“Se mi rompo una gamba non cerco subito di camminare, perché la mia gamba ha prima bisogno di cure”, dice Fried­helm Beyersdorf dell’università di Friburgo, in Germania. “Lo stesso vale per gli organi interni. Non puoi semplicemente pomparci di nuovo dentro il sangue e aspettarti che funzionino: devono prima essere curati”.

Per prevenire i danni da riperfusione nel cervello dei maiali, Vrselja e i suoi colleghi hanno sviluppato un cocktail composto da molecole che bilanciano il pH cellulare, farmaci che prevengono una risposta immunitaria eccessiva e antibiotici. Hanno modificato una macchina simile a quelle per la dialisi usata per mantenere in vita altri organi al di fuori del corpo. Il loro dispositivo, chiamato BrainEx, dovrebbe perfondere in modalità pulsante questo cocktail attraverso la rete arteriosa del cervello alla giusta pressione per penetrare nelle cellule, eliminando al contempo i prodotti di scarto.

Un tempo i medici accertavano il decesso di una persona dandole una scossa elettrica oppure accostandole una fiamma a un dito

Ha funzionato. Quattro ore dopo la decapitazione, i cervelli dei maiali sono stati collegati a BrainEx e rianimati, anche se non fino al punto di riprendere coscienza. Nel loro articolo del 2019, Vrselja e i suoi coautori hanno sottolineato di non aver osservato alcuna attività cerebrale associata alla percezione. In effetti, si erano assicurati che ciò non accadesse interrompendo l’esperimento dopo sei ore e includendo nel loro cocktail dei sedativi per inibire l’attività elettrica.

Ripetere l’esperimento su un cervello umano donato, tuttavia, richiede un livello di sicurezza maggiore: se ci fossero prove di una funzione cerebrale simile alla coscienza, bisognerebbe chiedersi se il soggetto è vivo e quali diritti ha. “È molto complicato dal punto di vista etico, legale e scientifico”, afferma Greely.

Vrselja e i suoi colleghi stanno procedendo con estrema cautela, e sottolineano di essere in contatto con un ampio gruppo di bioeticisti, esperti legali e medici. “Abbiamo dovuto sviluppare nuovi metodi per assicurarci che non si verifichi nessuna attività elettrica organizzata capace di produrre un qualche tipo di coscienza”, afferma Vrselja.

Lui e il suo team si limitano a mantenere i cervelli attivi al livello cellulare fino a 24 ore per testare trattamenti per malattie come l’alzheimer e il parkinson. È difficile sviluppare farmaci per le malattie neurologiche, spiega Vrselja, dato che gli attuali metodi di sperimentazione sono insufficienti. “Ecco perché il campo è pieno di misteri: spesso non sappiamo nemmeno se un farmaco può entrare nel cervello”, dice. “Ora possiamo occuparcene. È una ricerca che farà davvero la differenza”.

Avevamo buoni motivi per credere che il cervello non potesse sopravvivere per più di dieci minuti senza ossigeno

Vrselja riconosce, tuttavia, che altri potrebbero tentare di riattivare cervelli morti in modo più profondo. Cercare di riportare in vita un cervello con la sua coscienza e tutto non sarebbe niente di meno che un tentativo di raggiungere l’immortalità, dice Greely. “Un cervello vivo in una scatola mi sembra più un inferno che una vita, ma la gente paga un sacco di soldi per farsi congelare la testa nonostante le possibilità di essere riportati in vita siano minime. Sono un po’ sorpreso che nessun ciarlatano abbia ancora provato a vendere questo servizio”.

Se riportare in vita un cervello già morto è una prospettiva affascinante, seppure eticamente delicata, la ricerca di Vrselja suggerisce anche che potremmo intervenire su cervelli e corpi prima della morte. Sebbene lui e i suoi colleghi non abbiano alcuna intenzione di collegare una persona in punto di morte alla loro macchina, vogliono usare le nuove conoscenze sulla rianimazione per salvare vite umane.

Nel 2022 hanno sviluppato un sistema simile, chiamato OrganEx, per perfondere un cocktail a base di sangue in un maiale intero un’ora dopo che il suo cuore aveva smesso di battere. Hanno scoperto che la terapia riduceva la morte cellulare in vari organi e ripristinava la loro funzionalità. Il cuore ha cominciato a contrarsi, il cervello ha ripreso l’attività metabolica e diversi geni associati alla riparazione cellulare si sono attivati. Il maiale ha perfino cominciato a fare movimenti involontari, nonostante fosse anestetizzato.

Ora stanno testando una tecnologia simile per mantenere in vita gli organi umani da trapiantare. Quando una persona è dichiarata morta, viene collegata a una versione di OrganEx, dopo aver bloccato le arterie che portano al cervello per isolarle dal sistema. In questo modo gli organi rimangono in vita molto più a lungo, permettendo di trasportarli dove sono necessari. “I donatori di reni sono dieci volte più numerosi dei riceventi, eppure c’è una lista d’attesa enorme perché non possono essere raggiunti”, afferma Vrselja. “Questo può davvero aiutare a salvare molte vite”.

Nel frattempo la tecnologia di riperfusione sta già aiutando a mantenere in vita le vittime di incidenti. I ricercatori dell’università di Friburgo, guidati da Beyersdorf, e l’azienda tecnologica tedesca Resuscitec hanno lavorato più di dieci anni per sviluppare la “riperfusione automatizzata controllata dell’intero corpo” (Carl), che è una versione modificata di una tecnologia chiamata ossigenazione extracorporea a membrana (Ecmo). Mentre l’Ecmo assume temporaneamente la funzione cardiaca e polmonare facendo circolare e ripulendo il sangue di una persona dopo un arresto cardiaco, la Carl va oltre, perfondendo nel corpo un cocktail di emoglobina e altri 13 componenti che proteggono gli organi dai danni ischemici. Inoltre contiene due pompe che replicano le pulsazioni cardiache, aiutando il cocktail a raggiungere tutte le aree del corpo e del cervello.

I primi risultati sono promettenti. Di solito sopravvive circa una persona su dieci che subiscono un arresto cardiaco. Ma in una sperimentazione condotta da Beyersdorf, la Carl è stata usata su persone il cui cuore si era fermato e che erano state sottoposte a rianimazione cardiopolmonare per circa un’ora. Di queste, il 42 per cento è sopravvissuto, e il 79 per cento di loro aveva una normale funzione cognitiva. In un altro trial la Carl è riuscita a rianimare delle persone il cui cuore si era fermato al di fuori di un ospedale in cinque casi su dieci. La Resuscitec ha commercializzato la Carl in Europa nel 2023.

La zona grigia

La migliore comprensione dei momenti successivi all’arresto cardiaco e delle possibilità di ripristinare la vita sta confondendo il confine tra morte e non morte. “Una volta era semplice dichiarare morto un paziente”, afferma Becker. “Potevi affermare con sicurezza che il suo il cuore si era fermato in modo irreversibile. Ora invece è morto, ma potrebbe tornare a essere vivo”: anche se i trattamenti disponibili in quel momento non possono salvarlo, non si può essere certi che sia morto in modo irreversibile. “Con le macchine giuste, il cuore e il cervello potrebbero essere rianimati”, dice. “Quindi è davvero morto?”.

Al momento la questione resta irrisolta. “Man mano che la Carl sarà usata in modo più ampio, capiremo per quanto tempo i nostri organi possono sopravvivere senza ossigeno”, afferma Beyersdorf. “E forse dovremo cambiare la nostra definizione di morte”. Per ora siamo in una zona grigia. “Ci vorrà un po’, ma la rianimazione progredirà fino al punto che le persone che oggi sono considerate morte non lo saranno più”, afferma Becker. “Sarebbe una notevole riscrittura dell’esistenza umana”.◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati