Piazza del Maneggio, a Mosca, è circondata da recinzioni metalliche con la scritta “Direzione degli affari interni per il distretto amministrativo centrale”. È la stessa dicitura che usa anche il funzionario addetto al controllo dei documenti delle persone che entrano in piazza. È una tattica nuova. In passato ai manifestanti non era permesso radunarsi in questi luoghi, ma ora è diverso: si può andare liberamente fino al monumento del maresciallo Žukov e poi, meno liberamente, si viene caricati su furgoni con le sbarre ai finestrini. Di questi furgoni, parcheggiati vicino al Cremlino, ce ne sono almeno quaranta.

Tre quarti d’ora prima dell’inizio della protesta la polizia effettua i primi fermi. All’inizio tutto si svolge quasi con gentilezza: una donna in giacca blu è portata a braccia a una camionetta, dove le controllano il contenuto della borsa, le fanno qualche domanda e poi le chiedono di “proseguire nell’abitacolo”. La stessa cosa capita ad altre due persone.

“Giovanotto, dove dovrebbe essere la manifestazione? Dove sono gli altri?”, mi chiede una donna di mezza età.

“Quale manifestazione?”, rispondo io.

“Quella contro…”.

Non le rispondo. Il corteo non è autorizzato e a tre metri da noi ci sono due poliziotti. La donna si presenta come Ljudmila. Dopo avermi chiesto per quale giornale lavoro, di sua spontanea volontà mi racconta perché è in piazza. “Sono nata a Kursk, ma ho vissuto quasi tutta la mia vita a Charkiv, in Ucraina. Sono venuta a Mosca otto anni fa, per lavoro. Tutti i miei parenti sono in Ucraina. Ci sentiamo per telefono. È tremendo quello che succede lì”. Non possiamo riferire l’orrore di cui parla Ljudmila, non con le sue parole. “Molti dei miei hanno lasciato Charkiv”, dice.

“Sono venuti in Russia?”.

“No, sono andati nelle regioni occidentali dell’Ucraina. Ma dovranno scappare anche da lì”.

Ljudmila ci tiene a dire che, in quanto ucraina, considera i russi un popolo fratello. “Ma i fratelli non dovrebbero comportarsi così”, aggiunge. È dispiaciuta di non essere stata in piazza la scorsa settimana: “Non sapevo che ci fosse una manifestazione. Quando l’ho saputo, ho pianto”.

È difficile capire se oggi sia venuta più o meno gente rispetto alla scorsa domenica. Una cosa è certa: quelli che avevo visto sette giorni fa, oggi non ci sono. La gente scende in piazza finché non viene fermata dalla polizia. In base a un nuovo articolo del codice degli illeciti amministrativi della Federazione Russa, il secondo fermo rischia di portare a una condanna penale e al carcere.

In piazza le forze di sicurezza sono in costante movimento e controllano i documenti dei manifestanti. Chi non ha il passaporto finisce subito nel furgone della polizia. Quelli che ce l’hanno devono mostrare il contenuto delle borse. Poi devono dichiarare dove sono diretti e, a volte, sono lasciati andare.

Oggi in piazza non ci sono persone che hanno perso il lavoro o che protestano per le conseguenze delle sanzioni. Si sentono solo discorsi pieni d’idealismo.

Alla festa del potere

Noto degli adesivi con la lettera Z sugli elmetti di alcuni agenti: sono i più attivi nel controllo dei documenti e – nella prima parte della manifestazione – i più attenti a non usare la violenza durante i fermi. Intorno alle due del pomeriggio però la musica cambia. A questo punto è difficile distinguere chi è in piazza per protestare e chi no. Ci sono molte persone che stanno facendo una passeggiata in centro e non capiscono cosa sta succedendo. Tante famiglie con bambini. “Come si esce dalla piazza?”, mi chiede spaventata una donna con un figlio piccolo. A cinque metri da noi quattro uomini con i manganelli stanno caricando una persona su una camionetta. La signora stringe il figlio a sé e gli tappa gli occhi con la
mano.

Le suggerisco di andare verso piazza della Rivoluzione. Lì, tra le recinzioni aperte, s’incontrano due flussi di persone: uno è diretto in piazza, l’altro ne esce. Chi entra in piazza del Maneggio si ritrova presto sulle camionette della polizia.

“Che ho fatto? Perché mi portate via?”, dice una donna in giacca marrone agli agenti dell’Omon, le forze antisommossa. Non si capisce se sia venuta per protestare o no. Le donne fermate sono molte.

Le forze dell’ordine accendono gli altoparlanti e iniziano a ripetere: “Egregi cittadini, vi trovate sul luogo di una possibile manifestazione non autorizzata. Siete potenzialmente considerati dei partecipanti. Siete pregati di lasciare l’area. In caso contrario, saranno applicati i provvedimenti previsti dalla legge”. Gli annunci si ripetono per venti minuti. Intanto le persone continuano a entrare in piazza.

Oggi non si sentono slogan. Chi ci prova viene subito portato sulle camionette. Anche molti giornalisti vengono fermati.

“Allontanarsi di venti metri!”, urla a me e ad alcuni colleghi il capitano della polizia. Al secondo avvertimento scatterà il fermo, dice. Quando i giornalisti cercano di filmare gli arresti sono respinti dagli agenti. Anche il reporter di Kommersant, un giornale piuttosto vicino al Cremlino, viene spintonato.

Sulla piazza ricomincia “la festa del potere”: per caricare i fermati sui furgoni ormai i poliziotti torcono le braccia, prendono di peso le persone. In cinque minuti è tutto finito. La piazza è ripulita. Ora, di nuovo, si controllano i documenti e le valigie dei nuovi arrivati. E, come all’inizio, i cittadini sono educatamente condotti alle camionette della polizia.

Alla fine della manifestazione compaiono i rappresentanti del movimento nazionale di liberazione, un’organizzazione nazionalista e putiniana. “Siamo qui per dare il nostro appoggio all’operazione speciale!”, grida contro i giornalisti un uomo anziano con un cappello di astrakan bianco. Viene afferrato da due poliziotti, che dopo pochi secondi lo liberano. “Lasciatelo stare!”, dice un agente alla radio. Gli anziani, per di più nazionalisti, vanno capiti. ◆ab

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Questo articolo è uscito sul numero 1452 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati