Nell’estate del 2022, dopo mesi di piogge monsoniche insolitamente intense e temperature al limite della sopportabilità, lo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya ha provocato una serie di terribili inondazioni, tra le peggiori della storia del Pakistan. Le devastazioni più grandi sono avvenute nelle province del Sindh e del Belucistan, nell’est del paese, ma alcune stime dicono che un terzo del Pakistan è rimasto sommerso. Ci sono stati più di 1.700 morti e 32 milioni di sfollati, più dell’intera popolazione dell’Australia. Alcune delle zone agricole più fertili si sono trasformate in giganteschi laghi che hanno decimato il bestiame e distrutto raccolti e infrastrutture. Il costo di questo disastro ammonta a decine di miliardi di dollari.

Alla fine di agosto, quando l’entità dei danni era ormai chiara, il governo pachistano ha provato a scongiurare una seconda calamità e ha trovato un accordo con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per rispettare le scadenze del debito estero. Senza questo accordo probabilmente il paese sarebbe risultato insolvente, con il rischio di innescare una recessione, compromettere la crescita a lungo termine e non riuscire più a indebitarsi a tassi accessibili in futuro.

I termini dell’accordo erano durissimi: l’Fmi era disposto a concedere un prestito di 1,17 miliardi di dollari a condizione che il governo pachistano introducesse misure di austerità particolarmente impopolari, come il taglio dei sussidi all’energia. Ma le sorti di un altro stato asiatico dimostravano a Islamabad qual era il rischio di rimandare troppo l’intervento dell’Fmi. Poche settimane prima, il governo dello Sri Lanka aveva dichiarato insolvenza ed era stato rovesciato da una sollevazione popolare dopo aver rifiutato per mesi di attuare le riforme chieste dall’Fmi.

La concomitanza delle due crisi del Pakistan – le catastrofiche alluvioni e l’insolvenza – è in parte frutto della sfortuna. Allo stesso tempo, però, mostra una difficoltà vissuta da tutti i paesi al centro della crisi climatica: come affrontare eventi meteorologici estremi e prepararsi ai disastri futuri mentre si è oppressi dal debito e il prezzo per essere aiutati è l’austerità?

Prestare assistenza

Il Pakistan e lo Sri Lanka sono solo due dei numerosi stati che oggi si trovano in gravi difficoltà a causa del debito pubblico. Il covid-19 ha inferto un colpo durissimo a molti paesi a basso e medio reddito che si erano pesantemente indebitati durante l’era dei bassi tassi d’interesse, cominciata con la crisi finanziaria del 2008. Mentre i costi della sanità e del welfare sono saliti alle stelle, i lockdown hanno paralizzato l’economia e hanno fatto crollare il turismo, con una conseguente caduta del gettito fiscale. Non solo: la pandemia ha paralizzato le catene di approvvigionamento globali, provocando carenze di molti beni e l’aumento dei prezzi. Queste pressioni inflazionistiche sono state aggravate dall’invasione russa dell’Ucraina. Nel frattempo la decisione della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) di alzare i tassi d’interesse per ridurre l’inflazione ha reso più pesante il debito per i paesi che ottengono prestiti in dollari (e sono molti), perché le loro valute si sono deprezzate, facendo aumentare anche il costo delle importazioni.

Una zona colpita dalle alluvioni a Hadeja, Nigeria, 19 settembre 2022 (Ap/Lapresse)

Il rialzo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti inoltre ha spinto gli investitori a ritirare in massa i capitali dai mercati emergenti più rischiosi, visto che gli investimenti più sicuri in dollari ora sono diventati più remunerativi. Il risultato è che l’economia mondiale potrebbe andare incontro a una delle peggiori crisi del debito degli ultimi decenni, con la minaccia di recessioni profonde, instabilità politica e anni di mancata crescita. La maggiore frequenza di eventi climatici estremi – uragani violenti, siccità ricorrenti – rende la vita ancora più complicata a tutti quei paesi che già spendono un’ampia fetta delle loro entrate per ripagare il debito estero. In questa situazione critica il ruolo dell’Fmi come ancora di salvataggio è sempre più importante. Negli ultimi mesi il valore dei suoi prestiti d’emergenza ha raggiunto livelli record grazie al numero crescente di stati che gli hanno chiesto aiuto: gli ultimi sono Bangladesh, Egitto, Ghana e Tunisia.

In linea di massima, la funzione
dell’Fmi è raccogliere risorse finanziarie dagli stati membri e prestare assistenza a breve termine ai paesi in difficoltà economica. L’istituzione ha sede a Washington ed è formata dai rappresentanti dei ministeri delle finanze e dai governatori delle banche centrali di tutto il mondo. Poiché il potere di voto è commisurato al contributo finanziario di ogni paese, gli Stati Uniti, che sono l’azionista di maggioranza, esercitano un’influenza enorme sulle decisioni più importanti e possono mettere il veto su qualsiasi proposta di riforma dell’istituto. Tuttavia, in qualità di organismo internazionale che include quasi tutti gli stati sovrani del pianeta, l’Fmi ricopre un ruolo straordinario nell’economia mondiale. È l’unica istituzione che ha le risorse, il mandato e la portata globale per aiutare qualsiasi paese in difficoltà. In cambio del suo aiuto, però, di solito chiede ai governi che facciano quello che gli riesce più difficile: ridurre la spesa pubblica, aumentare le tasse e introdurre riforme per abbassare il rapporto tra il debito e il pil, per esempio il taglio dei sussidi al carburante o ai prodotti alimentari. Com’è prevedibile, i politici non amano prendere misure di questo tipo. Il motivo non è solo che le riforme vanno contro gli interessi degli elettori e danneggiano la popolarità dei politici. In ballo c’è anche l’orgoglio nazionale. Piegarsi alle richieste di un’istituzione dominata da governi stranieri può essere considerata un’umiliazione, un’ammissione che il proprio paese non funziona e che è governato male.

Anche nelle rare occasioni in cui l’Fmi critica le scelte economiche di un ricco stato europeo, c’è sempre il rischio che resti invischiato in conflitti politici interni. Nel settembre 2022 le perplessità del fondo sulla proposta di ridurre le tasse lanciata dall’allora premier britannica Liz Truss hanno fornito argomenti agli oppositori del governo di Londra e contribuito al crollo della sterlina. La decisione di licenziare il cancelliere dello scacchiere Kwasi Kwarteng è stata presa mentre il ministro era al vertice annuale dell’Fmi a Washington, dove le autorità responsabili dell’erogazione dei finanziamenti non hanno fatto nulla per mascherare i loro dubbi sulle sue politiche. Nelle ricostruzioni che si faranno in futuro sulla caduta di Truss, l’Fmi probabilmente avrà un ruolo non secondario. Nonostante tutto ciò, il Fondo monetario internazionale non è potente come una volta. Dopo aver raggiunto l’apice negli anni novanta, quando era diventato sinonimo degli eccessi della globalizzazione neoliberista e dello strapotere degli Stati Uniti, ha cominciato a incontrare maggiore resistenza. È ancora oggi l’unica istituzione in grado di garantire assistenza a qualsiasi paese in gravi difficoltà finanziarie, ma il declino di Washington, l’emergere di finanziatori alternativi e anche la sua reputazione di sorvegliante prepotente lo hanno messo in una posizione anomala.

La crisi finanziaria asiatica non è ricordata molto in occidente. È stata però un evento epocale, che ha condizionato l’economia globale

Un netto cambiamento

L’Fmi è un’istituzione necessaria ma poco amata, con un’enorme influenza ma spesso inefficace nel convincere gli stati ad accettare le sue condizioni. Se, come dicono le previsioni, il mondo sta davvero entrando in un lungo periodo di turbolenze economiche, la necessità di un prestatore a cui rivolgersi come ultima spiaggia sarà maggiore. L’Fmi potrà essere all’altezza del compito solo se dimostrerà di aver imparato dalla sua storia non sempre limpida.

Uno degli aspetti più singolari dell’istituto è il ruolo che, in teoria, era stato chiamato a svolgere quando fu creato e la rapidità con cui si è discostato da quell’idea iniziale. La nascita dell’Fmi fu decisa alla conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, quando i rappresentanti di più di quaranta paesi s’incontrarono per riscrivere le regole dell’economia mondiale. Sotto la guida del celebre economista britannico John Maynard Keynes e del suo collega statunitense Harry Dexter White, gli stati si diedero l’obiettivo di creare un sistema monetario internazionale che stabilizzasse le valute e facilitasse il ritorno al libero commercio. Le valute furono ancorate al dollaro in un sistema di cambi fissi ma regolabili, mentre la moneta statunitense restò l’unica convertibile in oro a un tasso fisso di 35 dollari all’oncia.

Il ruolo dell’Fmi in questo sistema era sostenere gli stati che avevano problemi a breve termine con la bilancia dei pagamenti, mentre la sua organizzazione gemella, la Banca mondiale, erogava prestiti a lungo termine per la ricostruzione e lo sviluppo. È importante sottolineare che, nell’impostazione iniziale, l’Fmi doveva aiutare i paesi a superare l’instabilità finanziaria senza costringerli a misure dolorose come i tagli di bilancio o il rialzo dei tassi d’interesse nel bel mezzo di una recessione. Era un netto cambiamento rispetto al precedente sistema della parità aurea. Dalla fine dell’ottocento quel meccanismo aveva garantito tassi di cambio prevedibili e stabili a tutti i paesi che ancoravano il valore delle loro monete a una specifica quantità di oro. Il prezzo di questa stabilità, però, era stato l’impossibilità di attuare politiche economiche espansive durante una crisi. Le autorità coinvolte nella creazione dell’Fmi volevano evitare che l’istituzione imponesse quelli che Keynes chiamava “poteri materni”, una serie di restrizioni che limitavano indebitamente la libertà degli stati.

Imperialismo economico

Poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, tuttavia, i rappresentanti europei del consiglio esecutivo dell’Fmi scoprirono – nonostante un’apparente unità d’intenti con i loro più influenti colleghi statunitensi in tempo di guerra – che l’istituzione aveva ripreso ad adottare una prassi impopolare, associata all’imperialismo economico dei tempi passati, cioè vincolava i suoi prestiti a condizioni di politica economica. L’Fmi era autorizzato a intervenire anche su questioni interne riguardanti decisioni di politica economica e monetaria. I rappresentanti statunitensi erano restii a concedere un accesso incondizionato ai fondi in dollari, e poiché l’Fmi era stato congegnato in modo da garantire agli Stati Uniti un controllo straordinario sulle sue attività, le loro prerogative finirono per prevalere. Non fu in Europa, però, che l’Fmi dispiegò inizialmente questo potere d’intervento ma, a cominciare dagli anni cinquanta, in paesi del Sudamerica come il Cile, il Paraguay e la Bolivia.

All’inizio degli anni settanta, con il crollo del sistema di Bretton Woods e la decisione del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon di sganciare il dollaro dall’oro, l’Fmi sembrava aver perso la sua ragion d’essere. Presto, però, l’istituzione acquisì nuova importanza concedendo prestiti a paesi finanziariamente instabili. Questi aiuti erano accompagnati da richieste di profonde riforme strutturali (privatizzazioni, deregolamentazioni, rimozione dei dazi), oltre che di una stretta fiscale e monetaria. Quello che rendeva così potente l’Fmi era che gli altri finanziatori – dalle banche commerciali ai governi stranieri – spesso consideravano un precedente accordo con il fondo un segno dell’affidabilità creditizia di un paese.

All’inizio degli anni novanta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’Fmi assunse il compito più ambizioso: monitorare la transizione delle repubbliche ex sovietiche verso il capitalismo. Era ormai diventata “l’istituzione internazionale più potente della storia”, come disse il politologo Randall Stone.

Atene, Grecia, 28 marzo 2015 (Angelos Tzortzinis, Afp/Getty)

Tuttavia, proprio nel momento della sua massima influenza, l’Fmi cominciò a perdere credibilità in tutto il mondo, e gli effetti si sentono ancora oggi. Questa reazione partì dall’Asia. La crisi finanziaria asiatica non è ricordata molto in occidente, perché offuscata dagli attentati dell’11 settembre 2001 e dalla “guerra al terrorismo”. È stata però un evento epocale, che ha condizionato l’economia globale per i venticinque anni successivi. La crisi scoppiò nell’estate del 1997, quando il crollo del bath thailandese provocò un panico finanziario che si estese rapidamente a tutta la regione. Con gli investitori in fuga da valute sempre più traballanti, il panico cominciò ad autoalimentarsi, scatenando il caos dall’Indonesia alla Corea del Sud, fino a raggiungere anche paesi lontanissimi come la Russia e il Brasile.

L’Fmi intervenne tempestivamente, offrendo prestiti agli stati colpiti più duramente, come la Thailandia, l’Indonesia e la Corea del Sud. Tra le condizioni c’erano le immancabili richieste d’austerità e di politiche monetarie più restrittive, anche se nessuno dei paesi in questione aveva registrato deficit significativi né segnali d’inflazione prima della crisi. L’Fmi impose inoltre una lunga lista di riforme per liberalizzare l’economia e, in particolare, per smantellare pratiche e organismi dipinti in modo sprezzante come forme corrotte e inefficienti di “capitalismo clientelare”.

In Corea del Sud l’Fmi prese di mira i chaebol, i grandi conglomerati come la Hyundai, che avevano collegamenti stretti con lo stato e le banche nazionali. In Indonesia chiese lo sradicamento del vasto sistema clientelare che aveva arricchito la famiglia dell’autocrate Suharto, a cominciare dal redditizio monopolio nazionale dei chiodi di garofano.

Intervenendo in settori che avevano poco a che fare con la crisi valutaria, l’Fmi sembrava dichiarare apertamente la sua ambizione: trasformare quelle che, fino ad allora, erano considerate economie ben amministrate. In particolare, il fondo sembrava deciso a demolire il cosiddetto modello asiatico di gestione economica, caratterizzato da investimenti dello stato in industrie e imprese strategiche. Questo modello aveva prodotto risultati di tutto riguardo in diversi paesi, non ultimo il Giappone, che all’epoca era la seconda economia del mondo. Le autorità e gli investitori occidentali, però, lo consideravano anacronistico. Ai loro occhi, la crisi aveva indicato la fine del modello statalista asiatico, alternativo a quello liberista angloamericano.

Questo zelo riformista rese l’Fmi impopolare in gran parte dell’Asia. Indignò l’opinione pubblica soprattutto la richiesta di rimuovere i limiti alla proprietà estera di imprese nazionali. Di fronte allo strapotere delle multinazionali statunitensi ed europee, che rastrellavano istituzioni finanziarie in Thailandia e in Corea del Sud a prezzi scontati, molti accusavano l’Fmi di neocolonialismo. In Cina, dove la crisi era stata meno grave, il Quotidiano del popolo, controllato dallo stato, scrisse che gli Stati Uniti “costringevano l’Asia alla sottomissione”. Perfino Raghuram Rajan, che nel 2003 sarebbe diventato capo economista dell’Fmi, più tardi ammise che la gestione della crisi da parte del fondo prestava il fianco alle accuse di colonialismo finanziario.

Nel frattempo le misure d’austerità come il taglio dei sussidi al carburante o al riso e alla farina, in paesi gravemente colpiti dall’aumento del costo della vita e della disoccupazione, stavano alimentando l’instabilità politica. La situazione era particolarmente tesa in Indonesia: a Jakarta i militari avevano sparato sulla folla durante una manifestazione degli studenti all’università di Trisakti, uccidendo quattro persone e accendendo focolai di rivolta in tutto il paese. Quando Suharto decise di aumentare il prezzo del carburante per accontentare la richiesta dell’Fmi di produrre un avanzo di bilancio, il dissenso aumentò. A maggio del 1998 il presidente fu costretto a dimettersi.

All’epoca i difensori dell’Fmi sostenevano che Suharto era stato il primo responsabile della sua caduta, perché si era rifiutato di attuare in tempo le riforme necessarie a fermare una crisi che lui stesso aveva provocato con la sua corruzione. Altri però osservarono che quella di sradicare all’istante l’intero sistema clientelare su cui si fondava il regime di Jakarta era una pretesa insostenibile. “È una follia chiedere a qualcuno di suicidarsi”, commentò un diplomatico all’epoca.

Una conseguenza dell’accumulo di riserve degli stati è che oggi il capitale si sposta dai paesi più poveri a quelli più ricchi

Nel gennaio 1998 le immagini di Suharto che firmava le condizioni dell’accordo sotto gli occhi di Michel Camdessus, direttore generale dell’Fmi, furono viste da molti come il segno di un’umiliante cessione di sovranità. Del resto non bisognava essere complottisti per capire che il tesoro statunitense e molti investitori occidentali volevano sbarazzarsi di Suharto, nonostante l’opposizione del dipartimento di stato e del Pentagono a qualsiasi iniziativa che minacciasse la stabilità di un partner strategico degli Stati Uniti in Asia. L’Fmi non tramò direttamente per la rimozione del presidente indonesiano, ma non c’erano dubbi che i funzionari del tesoro statunitense vedessero nel cambio di regime l’unica salvezza per l’economia di quel paese. Successivamente Camdessus avrebbe ammesso: “Abbiamo creato le condizioni per obbligare Suharto a lasciare l’incarico”.

Per alcuni osservatori statunitensi il caso dell’Indonesia era la dimostrazione di una ferrea legge della storia, cioè che la crescita della prosperità materiale porta inevitabilmente una popolazione a rifiutare i metodi autoritari. Quello che era successo a Suharto, dicevano, prima o poi sarebbe successo anche al Partito comunista cinese. Alcuni pronosticarono addirittura una data, il 2015, in cui ci sarebbe stata un’analoga sollevazione popolare a Pechino. Si parlava molto meno del campanello d’allarme che la crisi e i suoi effetti politici avevano rappresentato per gli altri governi. La lezione era chiara: bisognava mettersi nelle condizioni di resistere a una crisi della globalizzazione finanziaria. E se la crisi arrivava, bisognava fare in modo di affrontarla da soli, evitando a tutti i costi di rivolgersi a istituzioni che potessero interferire negli affari interni. Un modo per raggiungere l’obiettivo era accumulare enormi riserve di valuta estera che, in caso di crisi, potevano essere usate per difendere il valore della propria moneta, ripagare il debito estero e importare beni di prima necessità. La Cina diede l’esempio, ma presto si accodarono la Corea del Sud, il Brasile, il Messico e altri paesi. Dal 2000 al 2009 il valore totale delle riserve della Cina crebbe di circa 1.800 miliardi di dollari. Oggi supera i tremila miliardi, più del pil dell’intero continente africano.

Per alcuni paesi le riserve di valuta estera erano l’architrave di una strategia di sviluppo basata sulle esportazioni, perché permetteva di svalutare la moneta nazionale rendendo le esportazioni più competitive. Per molti stati, però, l’obiettivo era soprattutto dotarsi di un’assicurazione contro l’instabilità finanziaria. In alcuni casi questa strategia ha pagato. L’accumulo di riserve di valuta estera ha aiutato molte economie emergenti a evitare gli aspetti peggiori della crisi finanziaria globale del 2008. Mentre l’Fmi ebbe un ruolo centrale nel salvataggio della Grecia negli anni 2010, fece relativamente poco nel resto del mondo. Paesi come la Corea del Sud e la Russia, dove il fondo era intervenuto negli anni novanta, non richiesero più il suo aiuto.

Il rifugio sicuro

Una conseguenza sorprendente dell’accumulo di riserve valutarie da parte degli stati è che oggi il capitale si sposta in grandi quantità dai paesi più poveri a quelli più ricchi, invece del contrario. Il motivo è che buona parte delle riserve del mondo è in dollari statunitensi, che i paesi tendono a reinvestire nel rifugio sicuro dei buoni del tesoro degli Stati Uniti. Questo assicura una domanda quasi inesauribile di debito statunitense e contribuisce a consolidare la centralità del dollaro nell’economia globale. Il fatto che la Cina sia seduta su un’enorme quantità di buoni del tesoro americani genera da tempo ansie sul suo potere contrattuale nei confronti di Washington, perché se Pechino decidesse di vendere in massa i suoi titoli, sarebbe una catastrofe per il valore del dollaro. Ma siccome sarebbe una catastrofe anche per l’economia cinese, la minaccia non si è mai concretizzata.

Non tutti gli stati, ovviamente, possono permettersi di fare incetta di valuta. E anche per quelli che possono permetterselo non è un’operazione indolore, perché sottrae risorse agli investimenti pubblici. Alcuni economisti, non a caso, si chiedono perché gli stati facciano questa scelta, sottolineando che il costo-opportunità di ridurre gli investimenti pubblici rischia di superare il potenziale risparmio di scongiurare una crisi finanziaria. Ma l’accumulo di queste risorse non è solo una questione economica, è anche una scelta politica e strategica che serve a garantire agli stati quell’autonomia che l’Indonesia, la Thailandia e la Corea del Sud sacrificarono durante la crisi del 1997. Da questo punto di vista, non esiste prezzo che non valga la pena di pagare per la piena sovranità.

Le strategie attuate dalle economie emergenti dopo gli anni novanta sono state definite dallo storico britannico Adam Tooze programmi di “autorafforzamento”, la stessa espressione usata alla fine dell’ottocento per descrivere il tentativo di paesi come Cina e Giappone di riformare l’amministrazione dello stato, le forze armate e l’economia per resistere all’incursione degli imperi occidentali.

È dagli Stati Uniti che dovrà arrivare la spinta per riformare l’istituzione. I segnali indicano che la crisi in corso sta provocando grandi cambiamenti

Prendiamo la Russia, un paese che negli anni novanta aveva avuto un rapporto lungo e tormentato con l’Fmi. Dopo aver dichiarato insolvenza nel 1998, la Russia, sotto la guida del suo nuovo presidente Vladimir Putin, cominciò ad accumulare scorte di riserve valutarie, facilitata anche dall’aumento del prezzo del petrolio. Nel 2008 aveva in cassa talmente tante riserve che potè scatenare una guerra di aggressione contro la Georgia senza preoccuparsi delle ripercussioni economiche. Mosca sembrava aver conquistato una nuova indipendenza strategica. Probabilmente dietro la decisione di Putin di invadere l’Ucraina c’è stato un calcolo simile. Ma con una contromossa radicale, gli Stati Uniti e i loro partner del G7 hanno congelato le riserve della banca centrale russa sotto il loro controllo, stimate in trecento miliardi di dollari. Lo stesso espediente era stato usato pochi mesi prima, quando le riserve in dollari della banca centrale afgana erano state congelate per colpire i taliban dopo la caduta di Kabul.

Strategia controproducente

Nel caso della Russia questa strategia non è riuscita a mettere fine alla guerra. E qualcuno teme che possa rivelarsi controproducente, perché potrebbe indurre gli stati a rivedere la scelta di fare scorte di dollari americani per garantirsi la stabilità economica. Se la crisi finanziaria asiatica ebbe l’effetto di allontanare i paesi
dall’Fmi e d’inaugurare la linea dell’accumulo di valuta estera, la guerra in Ucraina potrebbe allontanarli dal dollaro come valuta di riserva. Se succedesse, il dollaro verrebbe detronizzato, perdendo il suo status di principale bene rifugio del mondo. Un’eventualità più probabile, sostengono altri, è un’ulteriore diversificazione tra il dollaro e le altre valute. Le ambiziose sanzioni finanziarie statunitensi ed europee contro la Russia, con il passare del tempo, potrebbero avere effetti simili a quelli provocati dall’Fmi durante la crisi finanziaria asiatica, spingendo gli stati a ripensare come garantirsi l’autonomia in un’economia globale di cui non controllano le infrastrutture.

Negli ultimi dieci anni l’Fmi ha fatto sforzi importanti per ristabilire la sua reputazione. Dopo la crisi finanziaria globale, i rappresentanti dell’istituto hanno ammesso che l’austerità può essere controproducente e che la lotta alla disuguaglianza deve diventare una delle principali preoccupazioni del fondo. È stato rivalutato l’uso selettivo di misure un tempo considerate tabù, come i controlli per limitare i flussi d’ingresso e d’uscita dei capitali esteri nelle economie nazionali. Anche le richieste di riforme strutturali sembravano ormai appartenere al passato. Nel 2016, quando la rivista ufficiale dell’Fmi ha pubblicato un articolo intitolato provocatoriamente Neoliberalism: oversold? (Il neoliberismo è sopravvalutato?), molti mezzi d’informazione lo hanno interpretato come il segno di una grande trasformazione. “Che diavolo sta succedendo?”, ha commentato Dani Rodrik, economista di Harvard e critico storico del neoliberismo.

Alla prova dei fatti, però, anche la trasformazione dell’Fmi è stata sopravvalutata. Come hanno spiegato gli studiosi Alexander Kentikelenis, Thomas Stubbs e Lawrence King in un articolo pubblicato sempre nel 2016 nonostante il riposizionamento di pensiero a parole, l’istituto ha continuato a insistere sulle richieste di riforme strutturali (le stesse di un tempo, se non di più) ai paesi beneficiari: licenziare i dipendenti pubblici, tagliare le pensioni, ridurre i salari minimi. Uno studio del 2020 del Global development policy center della Boston university è arrivato a conclusioni simili: l’Fmi di oggi, si legge nel documento, riconosce che l’austerità soffoca la crescita ma continua a imporla ai paesi che chiedono aiuto.

L’alternativa cinese

Lo studio della Boston university, però, dice anche altro, e cioè che l’Fmi probabilmente sta cambiando davvero, e non solo perché sono cambiati i parametri ideologici, ma perché è aumentata la concorrenza. Secondo i ricercatori, gli stati che in passato hanno ricevuto prestiti dalla Cina ottengono spesso un trattamento più favorevole dall’Fmi. Il motivo? Probabilmente la Cina non chiede austerità o riforme strutturali in cambio dei suoi prestiti, e questo spinge il fondo a moderare le sue pretese nei confronti di governi che hanno accesso a finanziamenti incondizionati. Altri studi hanno riscontrato un fenomeno simile con la Banca mondiale.

I soldi del Fondo
Impennata record
Finanziamenti del Fondo monetario internazionale, miliardi di dollari (Fonte: Fmi)

Oggi la Cina è il più grande prestatore bilaterale al mondo, un fattore che ha generato notevole ansia in occidente. Prestare senza imporre condizioni è visto come un tentativo di Pechino di comprare l’amicizia di dittatori corrotti.

La Cina è accusata inoltre di praticare la diplomazia della “trappola del debito”, erogando prestiti a stati che investono in progetti infrastrutturali insostenibili, i cosiddetti elefanti bianchi. Quando i paesi non riescono a ripagare i debiti, le autorità cinesi li costringono a cedere beni di valore, per esempio a dare una licenza di 99 anni su un porto strategico, com’è successo in Sri Lanka nel 2017.

Prestiti
Il ruolo di Pechino
Principali creditori dei paesi poveri, miliardi di dollari (Fonte: Reuters)

Chi contesta la Cina ha descritto la discesa dello Sri Lanka nell’instabilità finanziaria e politica come la logica conseguenza dei prestiti predatori di Pechino. È sicuramente vero che i fratelli Rajapaksa, che si sono alternati alla guida dal paese dalla metà degli anni duemila alla scorsa estate, hanno portato avanti un esorbitante piano di investimenti infrastrutturali finanziati dalla Cina. È altrettanto vero, però, che quando l’economia dello Sri Lanka è crollata, il governo si è trovato molto più esposto verso i creditori privati in Europa e negli Stati Uniti che verso la Cina, nonostante il ruolo di Pechino nel finanziare il boom infrastrutturale del paese. Sarebbe troppo semplice vedere lo Sri Lanka unicamente come la vittima della diplomazia del debito cinese.

Molti osservatori, oggi, cercano indizi sulla natura del ruolo di prestatore della Cina nel modo in cui Pechino sta affrontando la prima crisi del debito globale. Negli ultimi anni la Cina ha concesso più prestiti di salvataggio e di emergenza, ponendosi come un’alternativa diretta all’Fmi. Anche chi critica l’Fmi, tuttavia, riconosce all’istituzione – per la sua composizione allargata, per la sua presenza globale e per i suoi scopi pubblici – un ruolo significativamente diverso nell’economia mondiale rispetto a quello della Cina, che come tutti gli stati concede prestiti principalmente per i suoi obiettivi strategici e i suoi interessi nazionali. Ecco perché molti dei riformisti che invocano cambiamenti al sistema finanziario internazionale – come Mia Mottley, prima ministra delle Barbados – continuano a concentrarsi sull’Fmi. Nonostante la sua storia di passi falsi e vicinanza agli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti, l’istituto è ancora considerato l’unico in grado di garantire qualcosa che somigli a una rete di sicurezza finanziaria globale.

Data la loro posizione dominante nell’Fmi, è soprattutto dagli Stati Uniti che dovrà arrivare la spinta per riformarlo. I segnali indicano che la crisi globale in corso sta provocando grandi cambiamenti a livello politico. Nell’ottobre 2022, poco prima del vertice annuale dell’Fmi e della Banca mondiale, l’ex segretario del tesoro statunitense Lawrence Summers ha chiesto al fondo di dotarsi di nuovi strumenti non sottoposti a condizioni per fornire assistenza finanziaria agli stati che si trovano in difficoltà estreme mentre le banche centrali alzano i tassi d’interesse. Lo stigma politico associato alle tradizionali forme di prestito dell’Fmi, ha osservato Summers, rischia di allontanare i paesi dall’istituto, proprio nel momento in cui ne hanno più bisogno.

È stato strano vedere Summers prendere questa posizione. Durante la crisi asiatica era vicesegretario del tesoro degli Stati Uniti ed ebbe un ruolo fondamentale nel coordinare la risposta di Washington alla crisi attraverso l’Fmi. Addirittura incontrò Suharto a Jakarta per convincerlo di persona ad accettare le condizioni del fondo. Oggi, invece, ha lasciato intendere, l’economia mondiale ha bisogno di un nuovo tipo di assistenza finanziaria in grado di andare oltre il passato interventista dell’Fmi, di cui lo stesso Summers era stato un sostenitore. I vertici annuali del 2022, che non hanno voluto prendere in considerazione misure ambiziose per salvare l’economia mondiale, saranno ricordati solo come “un’occasione sprecata”, ha detto.

Mentre le decisioni della Fed minacciano una nuova ondata d’instabilità economica, questi incontri potrebbero essere ricordati come la dimostrazione della natura paradossale del potere degli Stati Uniti nel terzo decennio del ventunesimo secolo: abbastanza forte per fare il mondo a pezzi, ma non abbastanza per rimetterlo insieme. ◆ fas

Jamie Martin è assistant professor di storia e studi sociali all’università di Harvard, negli Stati Uniti. È specializzato in storia della politica economica internazionale. Ha scritto The meddlers: sovereignty, empire, and the birth of global economic governance (Harvard University Press 2022).

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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati