Se i due principali nemici che si affrontano nel nord dell’Etiopia dicono il vero, la guerra in corso dal 4 novembre 2020 in questo paese di 110 milioni di abitanti – uno stato che, per ironia della sorte, si sperava fosse il fulcro della stabilità regionale – è una delle più violente del mondo. In un comunicato dello scorso 30 agosto i ribelli delle Forze di difesa tigrine (Tdf) affermano di aver ucciso 3.073 soldati “nemici” e di averne feriti 4.473. Le Tdf sono guidate dal Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), il partito che ha tenuto le redini del potere etiope per quasi trent’anni.

I loro nemici sono i combattenti fedeli al governo del primo ministro Abiy Ahmed, riuniti intorno a quella parte dell’esercito che non ha disertato per ingrossare le file dei ribelli alla fine del 2020. Le truppe regolari sono affiancate da milizie, gruppi paramilitari e dalle “forze speciali” dei diversi stati federali. In caso di necessità hanno due assi nella manica: i droni (alcuni ordinati alla Turchia) e l’aiuto della vicina Eritrea. Se servisse, Asmara potrebbe inviare una ventina di divisioni in Etiopia ed è già intervenuta in diverse occasioni. Secondo un recente bilancio governativo, nelle ultime operazioni militari sono stati uccisi più di 5.600 ribelli.

In totale quindi i morti sarebbero diecimila, un bilancio plausibile se consideriamo quanto si sono diffusi gli scontri dall’inizio dell’estate. A luglio e ad agosto le Tdf erano riuscite a conquistare terreno, ma le truppe governative sono passate al contrattacco.

I combattimenti si svolgono su tre fronti: a est, nella regione dell’Afar; a ovest, nella regione dell’Amhara; e al centro, lungo l’asse che porta alla città di Dessiè, quattrocento chilometri a nord della capitale Addis Abeba. Fino a poche settimane fa i ribelli speravano di sfondare verso il Sudan, ma ora sono bloccati nella parte occidentale della loro regione da un solido schieramento di truppe governative e miliziani amhara, a cui alla fine di agosto si sono aggiunti i soldati eritrei.

Soldati dell’esercito etiope in un campo di addestramento a Dabat, Etiopia, 14 settembre 2021 (Amanuel Sileshi, Afp/Getty Images)

Consapevoli che l’isolamento del Tigrai – dove quattro milioni di civili sono minacciati dalla carestia, e le linee telefoniche ed elettriche sono interrotte – le avrebbe costrette alla resa, a giugno le Tdf avevano lanciato una manovra di accerchiamento. Dopo essere avanzate nello stato dell’Amhara, si sono alleate con un gruppo armato dell’Afar. Alla fine di agosto, secondo alcune fonti tigrine, pensavano di poter interrompere il collegamento tra Addis Abeba e il porto di Gibuti. Alcuni comandanti delle Tdf avevano perfino inviato dei messaggi al governo gibutino per precisare che non avevano intenzioni aggressive. La manovra, esclusivamente tattica, mirava ad aprire un corridoio alternativo, visto che il mese prima i ribelli non erano riusciti a sfondare passando dal Sudan, anche se per farlo avevano mobilitato parecchie risorse. Le relazioni delle Tdf con le autorità sudanesi sono migliori che con Gibuti, soprattutto perché Khartoum è ai ferri corti con Addis Abeba per via della disputa sul triangolo di Al Fashaga, una zona di frontiera contesa che nel dicembre 2020 è stata occupata dai militari sudanesi.

Sfuggendo alle truppe filogovernative che controllano la frontiera, i ribelli tigrini hanno fatto un lungo giro da sud penetrando in profondità nell’Amhara. La loro ultima tappa doveva essere la città di Gondar, che però è controllata dai miliziani amhara e dall’esercito regolare. Così hanno deciso di aggirarla per evitare uno scontro frontale nella città storica degli imperatori. Varie colonne ribelli hanno partecipato, per strade diverse, a questo movimento verso ovest, convergendo dal Tigrai fino ai limiti delle città di Dabat e Debark, a sud del massiccio del Simien.

Mobilitazione generale

Ma a inizio settembre nella zona a nord di Gondar sono arrivate a bloccare la loro avanzata anche le truppe eritree. Le Tdf devono decidere se arretrare per evitare uno scontro impari o cercare di “bloccare” le divisioni meccanizzate eritree, più rapide ma anche più pesanti. La seconda strategia ricalcherebbe quella adottata nei primi mesi di guerra da alcuni reparti delle Tdf, che dalle montagne del Tigrai avevano attaccato e poi progressivamente conquistato terreno ai danni delle forze governative. All’epoca i ribelli avevano anche organizzato una specie di mobilitazione generale. Questa espansione del conflitto, che i comandanti militari di tutti gli schieramenti cercano di estendere alle loro popolazioni, è anche una delle sue caratteristiche più preoccupanti. Infatti bisogna tenere conto non solo dell’opposizione tra i ribelli del Tigrai e le forze governative, ma anche della faida che negli ultimi decenni ha contrapposto i leader tigrini e il potere eritreo. I loro contrasti risalgono alla guerra tra Etiopia ed Eritrea del 1998-2000 (vinta dall’Etiopia). Uno dei protagonisti di quel conflitto era il generale Tsadkan Gebretensae, che da capo di stato maggiore delle forze federali guidò una campagna vittoriosa contro l’esercito eritreo. Oggi il generale è uno dei comandanti ribelli.

Un terreno vicino a Dabat destinato a un nuovo campo per i profughi eritrei, 13 luglio 2021 (Eduardo Soteras, Afp/Getty Images)

Il governo eritreo del presidente Isaias Afewerki sostiene il primo ministro Abiy Ahmed, per lo più allo scopo d’indebolire i tigrini. Questi sanno bene che se vogliono avere la meglio sulle forze governative difficilmente potranno rimanere in pace con un nemico così vicino. È una delle ragioni per cui gli appelli alle “soluzioni politiche” non funzionano: pochi sono disposti ad ascoltarli.

Per ora le Tdf preferiscono non scontrarsi direttamente con i soldati eritrei. Dopo le sconfitte dei primi mesi, sono riuscite a organizzarsi in una forza ibrida, tra guerriglia ed esercito regolare: lunghe colonne di fanteria con un equipaggiamento ridotto al minimo, che si spostano soprattutto a piedi (alcuni soldati indossano i tradizionali sandali di plastica tipici dei movimenti armati della regione) e moltiplicano le manovre per evitare il nemico quando sembra troppo forte. Di fatto nessuno si aspettava di veder uscire i ribelli dal Tigrai verso sud, fino a Lalibela, e a ovest, verso il Sudan, dividendo i loro combattenti, che in alcuni casi sono passati per le montagne e le campagne.

Da alcune settimane le Tdf sembrano concentrarsi sul fronte centrale, nella regione di Dessiè, a sud di Weldiya, vicino al lago Haik. In teoria il loro obiettivo è proseguire verso sud. Potrebbe essere un nuovo diversivo o un tentativo concreto di sfondare in direzione della capitale, contando sull’ipotetico aiuto dei loro alleati dell’Esercito di liberazione oromo (Ola), un gruppo armato formato da appartenenti all’etnia oromo, la più numerosa del paese. Nell’Amhara e nell’Afar le Tdf sono in difficoltà e da inizio settembre la coalizione federale ha ricominciato a conquistare terreno.

“Una retorica incendiaria e la divisione su base etnica stanno distruggendo il tessuto sociale del paese”, ha detto António Guterres

Per il momento il corridoio verso il Sudan è fuori gioco per le truppe tigrine e anche quello verso Gibuti sembra impraticabile. Intanto le forze governative fanno pressione da sud. Questo rovesciamento degli equilibri è stato favorito da una riorganizzazione dell’esercito federale a partire dal reclutamento di massa di milizie locali.

Siamo di fronte a un punto di svolta? Un recente comunicato firmato dal presidente del Tplf, Debretsion Gebremi­chael, offre di “tornare allo statu quo ante di tutte le forze presenti, cioè di riportare ogni gruppo armato nella sua regione d’origine, a condizione che anche le truppe eritree rientrino in Eritrea. Sarebbe il preludio a un processo negoziale sostenuto dalla comunità internazionale, in grado di mettere fine alle ostilità”.

Si sposta l’ago della bilancia

A giugno le forze del governo federale avevano subìto una dura sconfitta nel Tigrai, dove avevano perso il controllo del capoluogo Mekelle. A quel punto avevano proclamato un cessate il fuoco unilaterale, che le Tdf non avevano voluto rispettare. Hanno deciso così di riorganizzarsi, e ora se ne vedono i frutti. Alcune truppe sono state richiamate in patria dai contingenti all’estero, in particolare dalla Somalia. Si sono moltiplicati gli appelli alla mobilitazione, spesso caratterizzati da una retorica esplosiva. Il presidente dello stato dell’Amhara, Agegnehu Teshager, che definisce i tigrini “l’eterno nemico del popolo amhara”, ha lanciato una chiamata alle armi, diretta anche agli studenti universitari, per condurre “la lotta per la nostra sopravvivenza”.

Ed è proprio nell’Amhara che i combattimenti sono più intensi. Lì tra la fine di giugno – quando le forze governative si sono ritirate dal Tigrai – e il mese di agosto, i ribelli delle Tdf hanno messo le mani sulle armi, i veicoli e le munizioni abbandonati dalle truppe in ritirata. Così hanno aggiunto al loro modesto arsenale carri armati, blindati, camion e lanciarazzi.

Nello stesso periodo l’esercito federale ha puntato più sulla quantità che sulla qualità degli uomini (e delle donne) inviati sul campo di battaglia. Con i software per ritoccare le immagini, le autorità hanno modificato le foto delle nuove reclute riunite negli stadi per dare l’impressione che fossero una marea umana pronta alla guerra. Sono trucchi propagandistici grossolani e i numeri delle nuove reclute resi pubblici sono così alti che è difficile prenderli sul serio. Tuttavia la mobilitazione su base etnica, una delle caratteristiche più preoccupanti di questa guerra che fa leva sulle tensioni comunitarie, è ormai una realtà. E i suoi effetti perversi si vedono: in molte parti dell’Etiopia le persone di etnia tigrina sono state minacciate, arrestate o hanno subìto sorti peggiori. Nel Tigrai occidentale i mezzi d’informazione internazionali hanno individuato dei campi d’internamento, come se le forze governative avessero voluto rinchiudere la popolazione tigrina sospettata di complicità con i ribelli. “Una retorica incendiaria e la divisione su base etnica stanno distruggendo il tessuto sociale del paese”, avvertiva il 26 agosto il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres.

Per il momento, anche se la guerra coinvolge un’ampia parte dell’Etiopia, il paese non è sprofondato nel caos e non sono scoppiati tanti focolai locali, cosa che avrebbe decretato la fine del potere centrale. Inoltre la coalizione dei ribelli non sembra in grado di minacciare la capitale. Per alcuni osservatori i gruppi oromo dell’Ola avrebbero “circondato” Addis Abeba, ma in realtà sembrano in grado solo di fare delle operazioni mordi e fuggi.

Negli ultimi mesi il Cairo ha preferito ampliare la sua influenza nel bacino del Nilo, invece di farsi coinvolgere nel conflitto etiope

Con il reclutamento di massa, però, anche le perdite sono diventate ingenti. E questo spiegherebbe il bilancio delle ultime settimane. Un leader delle Tdf ha ammesso di recente che i suoi combattenti sono in difficoltà di fronte ad avversari poco esperti, ma numerosi, lanciati all’attacco “a ondate”.

Alleanze instabili

Dobbiamo parlare di guerra locale o regionale? Di guerra totale o di movimento? La risposta è complessa perché si mescolano elementi diversi. Il conflitto ha radici nella società rurale del paese, ma alcuni fattori vanno cercati fuori dall’Etiopia, in una serie di alleanze che si estendono a una vasta zona compresa tra il Corno d’Africa, il Nordafrica e la regione dei Grandi laghi. Questa guerra, apparentemente lontana, è radicata nei rapporti di forze in rapido cambiamento del continente africano, e anche oltre. Abiy Ahmed, arrivato al potere nel 2018 con il sostegno del presidente eritreo Isaias Afewerki, aveva formato “un’alleanza tripartita” con l’Eritrea e la Somalia. Ma invece di perseguire gli obiettivi di “stabilità e di prosperità” che aveva annunciato, questa coalizione ha cambiato radicalmente le dinamiche regionali. L’antagonismo tra Kenya e Somalia si è acuito. In Somalia il presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo, che ufficialmente ha finito il suo mandato l’8 febbraio 2021, è vicino allo scontro aperto con il primo ministro Mohamed Hussein Roble e con altri responsabili locali, tra cui il presidente della regione semiautonoma del Jubaland, Sheikh Ahmed Madobe, che gode del sostegno del vicino Kenya.

La destabilizzazione minaccia anche Gibuti a causa delle tensioni tra le comunità afar e issa (la seconda appartiene al grande gruppo etnico dei somali), che sono presenti sia nella regione etiope dell’Afar sia nello stato confinante. Gli scontri in Etiopia tra queste due comunità precedono la guerra civile e risalgono almeno al 2014, quando furono ridisegnati i confini regionali. A luglio circa trecento persone sono morte nella località di Gedamaytu a causa delle violenze scoppiate dopo l’attacco di una milizia proveniente dallo stato dell’Afar. In questa zona le Tdf e i ribelli afar loro alleati hanno cercato di interrompere la via di comunicazione tra Gibuti e Addis Abeba. L’operazione sembra essere fallita, ma ha comunque prodotto degli effetti indiretti a Gibuti. All’inizio di agosto nella città sono scoppiati degli scontri intercomunitari, e alcuni afar sono stati linciati o arrestati dalla polizia. Per ristabilire la calma è stato usato il pugno di ferro, e la situazione resta tesa. Il governo gibutino, dominato dagli issa, è accusato di strumentalizzare queste tensioni.

Tensioni fluviali

Per i ribelli delle Tdf le cose sono complicate anche a ovest, con il Sudan che rischia di essere coinvolto nel conflitto. Il comando filogovernativo che presidia l’area della diga del Grande rinascimento etiope (Gerd, la più grande opera idroelettrica del continente) ha affermato all’inizio di settembre di aver respinto un attacco. L’Etiopia procede con i lavori della Gerd nonostante l’opposizione dell’Egitto e del Sudan. Addis Abeba la considera un’infrastruttura fondamentale e il cantiere è uno dei siti meglio sorvegliati del paese (dalle truppe federali). Un’operazione militare in questa zona sarebbe considerata una grave minaccia. Tuttavia le armi sequestrate nell’attacco – alcune mine, una manciata di armi automatiche e qualche granata – sembrano troppo poche per parlare di un piano coordinato.

In ogni caso il deterioramento delle relazioni tra l’Etiopia e il Sudan è evidente. “Il Tplf ha cercato di estendere il conflitto entrando nello stato del Benishangul-Gumuz, dove si trova la Gerd, e nell’Amhara passando dalla frontiera sudanese”, ha dichiarato il ministro degli esteri e vicepremier etiope Demeke Mekonnen. La linea ufficiale del governo è che questi attacchi sono la prova di un’infiltrazione dei ribelli tigrini in Sudan, nei dintorni di Metemma. Addis Abeba accusa Khartoum di chiudere gli occhi sull’esistenza di campi di addestramento delle Tdf sul suo territorio, dove peraltro i ribelli si farebbero passare per “semplici profughi con documenti di identità forniti dall’Unhcr”, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.

Il Sudan nega la presenza delle Tdf all’interno dei suoi confini. Ma in realtà deve affrontare le forze attive sul suo territorio e allo stesso tempo gestire una situazione complicata. Dopo la rivolta popolare del 2019 il paese affronta una difficile transizione politica, con istituzioni nelle quali convivono civili e militari. Il generale Abdel Fattah Abdelrahman al Burhan è il presidente del consiglio sovrano (l’organo esecutivo) e su di lui l’Egitto esercita una certa influenza. Il problema è che tra l’Egitto e l’Etiopia c’è una lunga rivalità inasprita dalla costruzione della Gerd, e ora i due paesi sono ai ferri corti. Come l’Eritrea, anche l’Egitto potrebbe invitarsi a sorpresa nel conflitto etiope, sostenendo segretamente i ribelli tigrini in Sudan. Finora però non ci sono elementi per confermare questa ipotesi.

Nel corso degli ultimi mesi il Cairo ha preferito ampliare la sua influenza nel bacino del Nilo, invece di farsi direttamente coinvolgere nel conflitto etiope. L’Egitto ha firmato accordi militari ed economici con l’Uganda, il Ruanda e il Burundi, tutti attraversati dal Nilo, e con Gibuti. Questo insieme di paesi non dev’essere considerato “un’alleanza” filoegiziana, ma testimonia comunque la grande attività del Cairo per rafforzare i suoi legami nella regione e aumentare le pressioni nei confronti dell’Etiopia.

Da sapere
Dieci mesi di combattimenti

◆ Il 4 novembre 2020 il primo ministro etiope Abiy Ahmed ordina un’offensiva militare nella regione settentrionale del Tigrai. L’operazione è presentata come la risposta a un attacco delle forze armate legate al partito al potere nel Tigrai, il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), contro una base dell’esercito federale. Vengono tagliati i collegamenti telefonici e internet con la regione, che resta isolata per mesi. L’Eritrea in segreto manda i suoi soldati nel Tigrai per combattere a fianco delle forze governative. Anche alcune milizie regionali, come quelle amhara, si schierano con il governo. Il 28 novembre Addis Abeba annuncia la vittoria.

In realtà i combattimenti e le atrocità non si fermano. A febbraio del 2021 arriva la notizia di un massacro di civili ad Axum, attribuito ai militari eritrei. I ribelli si riorganizzano nell’ombra: il 28 giugno 2021 riconquistano il capoluogo tigrino Mekelle. Da lì fanno incursioni negli stati dell’Amhara e dell’Afar.

Nel frattempo la comunità internazionale fa ben poco per fermare il conflitto. Il 17 settembre il presidente statunitense Joe Biden firma un ordine esecutivo che permette d’imporre sanzioni a chi alimenta la guerra in Etiopia. Tutte le parti sono accusate di gravi violazioni dei diritti umani: il governo etiope, le truppe eritree e i miliziani amhara. Anche ai combattenti tigrini sono attribuiti massacri, in particolare dopo l’invasione dell’Amhara. Bbc, Afp, Al Jazeera


Questo non succederebbe se l’Etiopia svolgesse la sua funzione di perno della stabilità regionale. Ma sotto Abiy l’influenza internazionale di Addis Abeba si è ridotta. Ne sono una prova anche i discorsi incendiari tenuti da alcuni altri responsabili del governo, che non si addicono a un paese che aspira a essere una potenza regionale. Di recente l’Onu ha accettato – su richiesta del Sudan, il quale prima della destituzione del dittatore Omar al Bashir nel 2019 era isolato sulla scena internazionale – che il contingente di caschi blu etiopi di stanza nell’area di Abyei, contesa tra Sudan e Sud Sudan, fosse ritirato per sostituirlo con truppe di altre nazionalità. Il contingente (di cui facevano parte tremila soldati etiopi) era stato schierato nel 2011, a dimostrazione dell’influenza e del prestigio di cui godeva dieci anni fa Addis Abeba.

Per alcuni paesi esterni alla regione, il declino dell’Etiopia è un inaspettato colpo di fortuna. La Turchia, che vuole espandere la sua influenza nella regione, è attualmente molto corteggiata: i leader sudanesi hanno cercato di creare dei legami con Ankara, che è già presente nel Corno d’Africa, in particolare in Somalia; Abiy è andato in Turchia il 19 agosto a capo di una delegazione etiope per firmare degli accordi, anche militari. Secondo diverse fonti, l’Etiopia ha già comprato droni turchi.

Allo stesso modo, nel tentativo di contrastare l’influenza egiziana, Abiy è andato in visita il 29 agosto in Ruanda e in Uganda, due paesi che l’Egitto cerca di avvicinare a sé e che in passato avevano buone relazioni con il Tplf. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati