Non è facile raggiungere Twisp, una minuscola città nella Methow valley, nello stato di Wash­ington. Si può comprare un volo per Spokane e tagliare in direzione nordovest per quasi trecento chilometri, oppure prendere un aereo a turboelica da Seattle, sorvolare le montagne e raggiungere la capitale mondiale delle mele, Wenatchee. Da lì si può affittare una macchina e seguire il fiume Columbia per un paio d’ore. Oppure potete andarci in macchina partendo da Seattle, come ho fatto io, attraverso il muschio della catena delle Cascate, avanzando a passo d’uomo sul ghiaccio delle montagne.

È il novembre 2019, e sto andando a conoscere Lynx Vilden, una britannica di 54 anni espatriata negli Stati Uniti che per buona parte della sua vita adulta ha vissuto completamente fuori dai radar. Le strade sdrucciolevoli non alleviano i miei timori su quello che mi aspetta: un’esperienza di “vita selvaggia” della durata di tre giorni. Mi hanno consigliato di essere pronta a sopportare il clima e le escursioni impegnative. “Mettiti delle scarpe resistenti. Porta della carne”, mi ha detto Lynx.

Sono incinta di quattro mesi e tendo ad avere improvvisi attacchi di sonnolenza, quindi quando un riposino al lato della strada si trasforma in una dormita di un paio d’ore, mando un messaggio a Lynx per avvertirla che sono in ritardo. Solo più tardi mi rendo conto che è un errore: dove si trova i cellulari non prendono e non c’è il wifi. Fino a una decina di anni fa, Lynx non aveva neppure una carta di credito e un indirizzo di casa. I suoi alloggi precedenti – un tepee in Arizona, delle iurte in Montana e New Mexico, una grotta di neve nella tundra lappone – non avevano elettricità né acqua corrente. Le cose sono cambiate quando ha ricevuto una piccola eredità dalla tenuta di sua madre nel Regno Unito, che la ha permesso di acquistare uno sperduto terreno di due ettari a una ventina di chilometri da Twisp. Ora la modernità, sotto forma di prese elettriche e un lavandino, è facilmente raggiungibile grazie ai pannelli solari e a un pozzo installati dai precedenti proprietari. Questo non significa che Lynx l’abbia accettata di buon grado.

Quando finalmente arrivo nella sua proprietà nel primo pomeriggio, mi accoglie con un abito fatto di pelli e cucito a mano. Riscalda gli ottanta metri quadrati del suo chalet fatto di tronchi – opera dei vecchi proprietari – con una stufa a legna. Per l’illuminazione preferisce il tremolio di una lampada a olio, proprio come sceglie l’acqua attinta al fiume al posto di quella che scorre dal rubinetto. C’è un futon sul pavimento, ma è usato soprattutto dalla figlia di 26 anni, che ogni tanto abbandona la frenesia della vita cittadina per farle visita. Lynx preferisce dormire per terra in un rifugio che ha costruito in mezzo alla foresta.

Lynx (che non vuole rendere noto il suo vero nome) non è la solita appassionata della natura. L’ex bionda e agile adolescente punk cresciuta nel “cemento e nel cupo grigiore” della periferia di Londra è diventata l’improbabile guardiana del patrimonio selvaggio dell’umanità. Il suo vero obiettivo non è semplicemente sopravvivere immersa nei boschi, ma “vivere come vivevano i selvaggi”, e insegnare anche agli altri come farlo.

Un cappotto di pelle

Da vent’anni Lynx organizza dei programmi intensivi che chiama progetti Età della pietra. Una volta iscritti, una quindicina di studenti raggiungono Twisp o altre località ancora più remote come White Clouds in Idaho, Jokkmokk in Svezia o i monti Rodopi tra Bulgaria e Grecia, per imparare da Lynx come accendere il fuoco, costruire un riparo, fabbricare un arco o delle calzature. Armati di queste conoscenze e dopo essersi cuciti un cappotto di pelle di daino e aver rinunciato allo spazzolino da denti per un ramoscello, gli studenti possono inoltrarsi con Lynx in una foresta nelle vicinanze per ben trenta giorni di fila. Si accampano, vanno a caccia e alla ricerca di cibo e passano lunghe ore nell’intimità di questa affiatata banda tribale.

Faccio luce intorno e vedo una minuscola porta di legno che conduce nel rifugio. Mi accovaccio per entrare nel caldo grembo della terra xx

Il suo approccio pedagogico può essere adattato al contesto. Sostanzialmente valuta da quale luogo del mondo si sente più attratta (prima della pandemia di covid-19, la Mongolia era uno dei posti dove voleva andare il prima possibile) e quali abilità siano importanti per condurre una vita primitiva in quel posto (le proposte per la prossima estate includono la costruzione di kayak nelle isole San Juan, nello stato di Washington). Poi mette insieme una classe di persone reclutate in biblioteca o nel centro della comunità a Twisp, inviando email ai suoi contatti per capire se c’è abbastanza interesse. Mentre altre scuole di sopravvivenza chiedono migliaia di dollari per programmi di una o due settimane, i prezzi dei suoi corsi puntano all’inclusione piuttosto che al profitto: i suoi corsi introduttivi di una settimana costano 600 dollari, mentre quelli di tre mesi ne costano 2.500. Riduce o addirittura azzera il prezzo per gli amici, gli studenti che tornano più volte e chi propone un baratto.

Quello che offre è un kit di strumenti per la completa autosufficienza, sia come antidoto sia come alternativa radicale al ritmo frenetico e al solipsismo digitale contro cui imprecano tanti di noi ma a cui ben pochi riescono a resistere.

Si sta facendo tardi, così Lynx e io abbandoniamo il confortevole chalet per il rifugio nella foresta. “Mi piace dormire toccando la terra”, dice con le sillabe allungate del suo inglese britannico. Con il filo di luce della mia lampada frontale, cerco di seguire i suoi passi sicuri lungo una traccia invisibile che attraversa conifere e alberi latifoglie.

Temo di aver perso Lynx per colpa del buio, ma poi intravedo una cupola di fango che si eleva un paio di metri sul terreno coperto di aghi di pino. Faccio luce intorno e vedo una minuscola porta di legno che conduce nel rifugio. Mi accovaccio per entrare nel caldo grembo scavato nella terra. Dentro, prima di sistemarci nei nostri due giacigli gemelli di pelli e aghi di pino, Lynx attizza le braci facendo divampare una fiamma.

Il fascino di questa “cosa dell’età della pietra”, spiega Lynx mentre ci sdraiamo davanti al fuoco, è che tutto quello che hai sono i materiali disponibili nell’ambiente circostante. “C’è qualcosa che si libera nella mente quando ti rendi conto che non sei limitato dalla necessità di andare a comprare un utensile di qualche tipo che ti renderà la vita più facile”. Questa dipendenza diretta dagli elementi favorisce “un profondo collegamento con tutte le sfumature della natura intorno a noi”, dice. “Tu magari vedi un filo d’erba avvizzito. Io so che, sotto la terra, c’è una radice commestibile che sa di noci. Non smetti mai d’imparare”. Vivere allo stato selvaggio, riflette la donna, è un atto di testimonianza, e spesso impone di imparare da capo a vedere e ad ascoltare. I nostri sensi sono intorpiditi dalla luce e dal rumore implacabile della vita urbana. Ci fiaccano, dice: “Se diventiamo così docili, così addomesticati, perdiamo qualcosa di molto umano”.

Catastrofe agricola

La prospettiva dell’autarchica sicurezza dell’età della pietra e di un’oasi protetta e ben fornita nei boschi sembra particolarmente attraente ora che la pandemia del covid-19 ha messo a nudo la vulnerabilità del nostro mondo iperconnesso e profondamente disuguale. Ma per buona parte del novecento le capacità dei nostri antenati nomadi sono state tenute in scarsa considerazione.

L’Homo sapiens, vale a dire l’essere umano moderno, esiste da duecentomila anni. Ma è stato solo con l’avvento dell’agricoltura durante la rivoluzione neolitica, dodicimila anni fa, che la storia è diventata interessante e la vita umana più prospera e sicura. O almeno questa era la narrazione generalmente accettata, prima che gli studiosi iniziassero a sciorinare nuove prove per suggerire che l’età della pietra non era poi così male.

Il geografo Jared Diamond, vincitore del premio Pulitzer, ha definito l’adozione dell’agricoltura e la conseguente sedentarietà del genere umano “una catastrofe da cui non ci siamo mai ripresi”. Yuval Noah Harari nel suo best seller Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità (Bompiani 2017) definisce il passaggio alla coltivazione su vasta scala come “la più grande impostura della storia”. Harari sostiene che i cacciatori-raccoglitori, ben lontani dal trascinarsi in uno stato di barbarie hobbesiana, probabilmente erano più felici, più longevi e più egualitari dei loro discendenti addomesticati.

Questo cambiamento nella posizione degli studiosi è stato accompagnato da un crescente interesse per il nostro passato selvaggio, visto come un gradito correttivo alle lunghe ore spese alla scrivania e ai nostri logori rapporti sociali. Come tutti sappiamo fin troppo bene, il nostro è un periodo di abbondanza senza precedenti, anche se distribuita in modo disuguale. Eppure la ricchezza del mercato non riesce a saziare i nostri appetiti. La gente – sovralimentata, ipermedicalizzata, malnutrita, socialmente isolata e carente di sonno – è alla ricerca ansiosa di uno scopo.

Un allievo di Lynx Vilden raccoglie delle foglie di sassifraga da cucinare a cena (Kiliii Yüyan)

Se davvero la nostra esistenza era migliore quando eravamo nomadi, non sarebbe saggio riflettere su come risuscitare alcuni aspetti del nostro lontano passato? Questo interrogativo stuzzica il variegato gruppo di moderni entusiasti cacciatori-raccoglitori. Nei convegni che si svolgono negli Stati Uniti, che hanno titoli come Echi nel tempo o La pietra focaia, i raccoglitori di alimenti selvatici fraternizzano con i montanari e gli esperti di arti ancestrali. Aumentano le persone che guardano al futuro ma praticano abilità primitive, e si uniscono ai survivalisti impegnati a prepararsi per un’imminente catastrofe o per il giorno del giudizio perché condividono la preoccupazione di come sopravvivere nell’inevitabile assenza del Sistema. Poi c’è chi spera di disintossicarsi dal nostro mondo sempre più digitale e loda le virtù dell’immersione nella foresta e di una prolungata astinenza dallo smartphone.

La glorificazione del paleolitico abbonda anche nella cultura popolare. Canali YouTube come Primitive Technology propongono a milioni di iscritti dei video che mostrano come costruire capanne e lance, mentre una straordinaria fioritura di reality show come Nudi e crudi o The great human race sottopongono star muscolose a presunte condizioni aborigene.

Ma nonostante le approfondite indagini dell’archeologia, la vita quotidiana dell’età della pietra rimane in larga parte un’ipotesi. “Stiamo cercando di emulare questa cultura, ma in realtà non abbiamo idea di come funzionasse. Non ci sono anziani che possano dirci come fare”, mi ha detto Alexander Heathen, amico ed ex allievo di Lynx. La pratica della vita primitiva, quindi, richiede sia una padronanza delle abilità necessarie sia una certa fantasia e un idealismo romantico. Contiene in sé la speranza di un comunalismo molto unito e la convinzione che la vicinanza al rischio – al fuoco, alle bestie, al calore e alle ossa rotte – sia una manna per l’anima e per i sensi.

Può esserci anche un atteggiamento nostalgico in questo guardare al lontano passato per cercare un patrimonio universale. La preistoria è presentata come un’epoca in cui il mondo non era stato ancora sfregiato dalle frontiere, prima della politica, prima dell’idea di razza, perfino prima che il concetto di identità delineasse i confini di chi può stare dove. Alcuni pensano che questa comunità di persone con abilità primitive rischi di usurpare il posto delle popolazioni indigene. A praticare il bushcraft, come è chiamato in gergo, di solito sono i bianchi privilegiati. “C’è un intrinseco colonialismo nell’idea delle abilità primitive”, dice Kiliii Yüyan, fotografo, esperto di survivalismo e uno degli occasionali collaboratori di Lynx, che è un discendente sino-americano del popolo siberiano dei nanai. “Il bushcraft implica il fatto che puoi essere paracadutato in qualunque posto e sopravvivere grazie alla terra. Indigeno letteralmente significa ‘di un posto’. Il survivalismo è quasi l’esatto contrario”.

Emma Doige indossa dei vestiti di pelle di daino. Sulla schiena porta un cesto da viaggio che userà per trasportare pesanti attrezzi da campeggio (Kiliii Yüyan)

Tenere il passo

Ci sono dei galli cedroni da queste parti, mi fa notare Lynx il secondo giorno che passiamo insieme. E propone di fare un’escursione in modo di cacciarne uno per cena. Altrimenti, potremmo cercare di procurarci uno degli impettiti tacchini selvatici che ha adocchiato sulle rive del torrente e nei boschi. Ci prepariamo mentre il pomeriggio volge al crepuscolo. Il sole scivola rapidamente dietro i pendii delle montagne, e tutt’intorno la foresta proietta ombre nel freddo sempre più intenso. Lynx guarda con aria critica il fucile che ha appena finito di pulire e poi lancia un’occhiata alla mia macchina fotografica. “Meglio prendere l’arco?”, chiede. Siamo d’accordo sul fatto che è sicuramente l’opzione più primitiva. Oltretutto, è più difficile che il breve sibilo di una freccia spaventi gli stormi che vorremmo mangiare.

Camminiamo fino al fiume che segna il confine della sua terra. Non ci sono uccelli in vista, ma Lynx è raggiante mentre indica con un ampio gesto la distesa del basso corso d’acqua. “Non è magnifico?”, dice. Nel cuore dell’inverno, mi racconta, a volte si sveglia per un silenzio improvviso. E lentamente capisce: il fiume si è ghiacciato.

A un tratto si gira e affronta a passo di marcia una ripida salita. Ansimando alle sue spalle, ricordo una sua osservazione casuale sul fatto che è difficile trovare buoni compagni di escursione perché quasi nessuno riesce a tenere il suo passo. Indica un altro posto dove abitualmente si radunano i galli cedroni. “Sono dappertutto finché non decidi di andare a caccia”, dice stizzita, e lancia una freccia nella radura vuota di pennuti.

È difficile fare i cacciatori-raccoglitori di questi tempi. Per non parlare della lotta per rispettare i pilastri della sopravvivenza di Maslow: essere selvaggi sconfina nell’illegalità. Ci sono dei limiti al tempo che si può passare sul suolo pubblico. I fuochi spesso sono proibiti e le zone di caccia circoscritte. Lynx si è scontrata con la legge nel 2008, quando un funzionario del governo sotto copertura ha partecipato a uno dei suoi corsi. Lei rimase all’oscuro sulla sua vera identità fino a due anni dopo, quando è stata incriminata per aver organizzato un corso sul suolo pubblico senza la necessaria autorizzazione e per aver tagliato un albero morto ancora in piedi. Le hanno vietato di mettere piede nelle foreste della parte orientale dello stato di Washington per un anno. “A volte le leggi dell’uomo e le leggi della natura si scontrano”, dice. “Io scelgo le leggi della natura”.

Austin Roberts, musicista, posa per un ritratto con il suo tamburo di pelle di daino (Kiliii Yüyan)

Lynx sogna un gruppo con cui condividere la fatica e lo splendore delle sue giornate. Questo gruppo immaginario di 10-15 anime selvagge è assolutamente perfetto, forse perché rimane irrealizzato, sospeso nell’intatta crisalide degli ideali. Nella realtà, anche quando i gruppi si formano volontariamente, come succede per i progetti di Lynx, è difficile evitare attriti. “Ci sono tanti giovani esuberanti e sognatori che pensano di voler vivere a contatto con la natura”, dice Lynx. “Ma quando la breve fase della luna di miele è finita, tutti diventano tipo ‘È troppo dura’”. Il pensiero dei propri cari si fa sentire con forza, la fame pesa sullo stomaco, la noia offusca la mente. Gli ex partecipanti ai progetti di Lynx con cui ho parlato in effetti ricordano la difficoltà di procurarsi il cibo e la fatica dell’insufficienza calorica. “Bisognava resistere alla fame”: è così che Yüyan descrive il primo progetto portato a termine quasi vent’anni fa.

Ma gli allievi di Lynx dicono anche che le sue abilità sono migliorate nel corso degli anni. Steven Dirven, un ex allievo, mi ha detto che nel 2016 il suo gruppo divorava “pasti squisiti” a base di carne di bisonte, farina di ghiande, radici, bulbi e grasso di orso, e ha insistito, senza ombra di ironia, che “non molti ristoranti possono competere con quello che mangiavamo noi”.

Anche molti allievi di Lynx sono diventati più esperti, e continuano a tornare per nuovi progetti. Per il corso di due mesi della prossima estate, nelle isole San Juan, l’elenco delle attrezzature richieste comprende 35 metri di corda in fibra vegetale, un punteruolo e un ago di osso, sandali di cuoio grezzo, vestiario di corteccia conciata e uno stick di colla ricavata dalla linfa degli alberi, insieme a mezzo chilo di piante selvatiche essiccate, carne selvatica secca e grasso animale fuso. Oggi un buon numero di ex allievi diventati amici vive nella Methow valley, dove filano, allevano volatili e sperimentano svariate forme di vita comunitaria.

Questa comunità è attratta dal mondo accuratamente creato da Lynx, che Yüyan descrive come volutamente privo di distrazioni, e popolato invece da pelli, archi, contenitori scavati a mano e dall’infinito mutare delle stagioni. “Lynx ama davvero l’estetica della vita nell’età della pietra, e credo che questo la rilassi”, mi ha detto Yüyan. “Nel mondo moderno tutto cerca di richiamare la nostra attenzione, ma poi guardi a quello naturale e per lo più è una sinfonia di cose che cercano di nascondersi”.

Nei boschi sta calando il buio. Lynx lancia un’ultima freccia a casaccio prima che ci dirigiamo verso casa. Il suo umore migliora quando le ricordo che nello chalet abbiamo la carne che mi ha chiesto di portare. Mantiene una certa compostezza quando tiro fuori le migliori bistecche che sono riuscita a procurarmi all’Hank’s Market di Twisp: due fette di un grigio dubbioso avvolte nel cellophane. Lynx mangia con soddisfazione la sua, staccandone i pezzi con le dita e masticando pazientemente la carne dura come cuoio.

Anche se fa del suo meglio per avere uno stile di vita primitivo, per molti aspetti Lynx rimane un prodotto degli anni duemila

Quando non c’erano gli zaini

Lynx non avrebbe mai immaginato di finire i suoi giorni nei boschi. Quando da bambina viveva a Londra con sua madre, una sarta, e con suo padre, un pittore, voleva essere, oltre a tante altre cose, un’artista. Trascorse la sua adolescenza negli anni d’oro della scena punk britannica, si tingeva i capelli di vari colori e si faceva chiamare Loo (“gabinetto”, in inglese). “Avrei potuto essere brava a scuola, ma non ero molto motivata”, dice. “Sono sicura che se fossi nata dieci anni dopo mi avrebbero imbottito di Ritalin”. Lasciò le superiori a 16 anni e, dopo una breve esperienza alla Chelsea school of art e un periodo di vagabondaggio ad Amsterdam, si ritrovò nel paese di sua madre, nella Svezia rurale, dove cominciò a sviluppare quell’amore per la natura che avrebbe definito la sua vita di adulta.

A 21 anni il suo ragazzo di allora la convinse ad andare negli Stati Uniti e la portò a Wenatchee, nello stato di Wash­ing­ton, due ore a sud della sua casa di oggi. Non aveva mai visto gli spazi sterminati della natura selvaggia. È negli Stati Uniti che ha cambiato nome ed è diventata Lynx, scegliendo come cognome Vilden, selvaggia in svedese. Rapita dalla bellezza di quei posti, cominciò a fare passeggiate sui monti delle Cascate, ma racconta che era pigra e non le piaceva portare lo zaino. “Come faceva una volta la gente? Non esistevano gli zaini”, dice sprezzante. “Come accendevano il fuoco? Cosa mangiavamo? A quell’età mi facevo questo genere di domande”. Lynx imparò a riconoscere le piante in modo da poterle mangiare e raccogliere durante le escursioni. E poi le capitò tra le mani una guida alle piante commestibili di Tom Brown, autore del libro The tracker. Il cacciatore di orme, e si iscrisse a un corso di una settimana nella sua scuola dei Pine Barrens, in New Jersey. L’ultimo giorno, racconta, “sono uscita dalla capanna del sudore (una struttura per cerimonie dei nativi americani), mi sono sdraiata per terra e a un tratto l’ho capito: è questo che voglio fare. Voglio imparare a entrare in relazione con la terra e poi condividere questa esperienza con altre persone. È stato l’inizio del mio viaggio”.

Aspettando il clan

Affascinata dalle proprietà terapeutiche delle piante, Lynx si dedicò all’erbalismo e alla medicina naturale e si ritrovò alla Reevis mountain school nella riserva delle montagne Superstition, in Arizona. Un giorno, racconta, arrivò un tizio a cavallo di un mustang. “Aveva lunghe trecce e una gran barba, che sono un po’ il mio debole, e ricordo di aver pensato: quest’uomo lo sposo. E così è stato”. Andarono insieme in giro per il paese a bordo di un vecchio scuolabus, trascinandosi dietro il mustang con un rimorchio per cavalli. Nel giro di un anno Lynx era incinta. Ma quando la piccola Klara aveva due anni la loro relazione si era già deteriorata, e Lynx si trasferì con la figlia in Montana, dove passò il decennio successivo vivendo in una iurta e facendo scuola alla bambina in casa. Conciava pelli, realizzava oggetti di artigianato e d’estate insegnava alla Boulder outdoor survival school nello Utah meridionale.

Lynx e Klara tiravano avanti. Quando fece dodici anni, Klara scelse di andare a vivere con il padre nello stato di Wash­ington. “Volevo studiare in modo più strutturato e frequentare ragazzi della mia età”, mi ha spiegato. La madre sosteneva il suo interesse per la scuola e la socialità, ma non era disposta a scendere a compromessi sul proprio stile di vita. “Non gliel’ho mai rimproverato”, mi ha detto Klara. “Anche se voglio cose diverse, mi sento davvero appoggiata nelle mie scelte di vita”. Ma la decisione di lasciare andare la figlia è stata difficile per Lynx. Il desiderio di ridurre la distanza tra loro l’ha riportata nello stato di Washington e poi a Twisp.

Di tanto in tanto Lynx è assalita dalla malinconia, e malgrado gli amici disseminati nella Methlow valley è alla continua ricerca di contatti sociali. Le notti, in particolare, possono essere “piuttosto dure”, dice. Quando non ha a disposizione amici con un camion o altre forme di trasporto, cammina fino a Twisp river road e aspetta un’auto che la porti in paese per usare la biblioteca o andare nei negozi. Se non passa nessuno, fa dietrofront e torna a casa.

Una sera prendo la macchina e andiamo nella vicina Winthrop, un’ex cittadina di miniere d’oro che somiglia a una versione favolistica del vecchio west. Uno dei bar locali ha organizzato una serata a lume di candela, promettendo musica dal vivo senza luce elettrica. Lynx pensa che sia divertente e ha portato con sé una lampada a grasso. Ma il suo entusiasmo si spegne quando all’arrivo scopriamo che le luci del bar sono accese. I clienti avevano troppi problemi a ordinare al buio, spiega la cameriera. Tornando a casa, Lynx mi dice che il suo ultimo amante l’ha respinta, e si chiede ad alta voce se non sia semplicemente incapace di avere una relazione sentimentale. Ma riflettendoci bene conclude che no, è che il suo amore è troppo, troppo impetuoso, troppo grande, e più di quanto molti uomini possano sopportare.

Non per la prima volta, mi chiedo cosa ci voglia per resistere al semplice impulso di premere l’interruttore. Oppure, poniamo, perché non si trasferisce più vicino al limite della città? Ma mentre io vedo il richiamo della comodità nelle case gradevolmente illuminate lungo la strada, Lynx mi spiega che lei si sente attratta da un isolamento ancora maggiore. “Voglio farmi invischiare in un sistema che mi rende schiava? Proprio no. A volte ho voglia di dire ‘fanculo tutto’ e allontanarmi ancora di più dalla società. Andarmene semplicemente a vivere sulle montagne e non scendere più”.

E allora cosa la frena?, chiedo. Risponde con un tono piatto: “Lo farò solo quando avrò un clan”.

L’ultimo pomeriggio, Lynx e io facciamo una passeggiata su un crinale poco lontano. Lei marcia in testa, incurante dei rami che schioccano dietro di lei e mi frustano la faccia. Il suo comportamento, come il suo stile di vita, contiene elementi di pragmatismo e di poesia. Nei giorni che ho passato con lei a volte è stata brusca, quasi impaziente, pronta a borbottare scontenta quando le offrivo gli aghi di pino sbagliati per alimentare il fuoco.

Lynx Vilden usa il suo arco come una canna da pesca (Kiliii Yüyan)

Il fuoco ci rende umani

Sulla cima si spalanca un panorama a 180 gradi, e Lynx mastica una striscia di carne essiccata e beve dell’acqua da una zucca svuotata prima di alzarsi e posare per me. È consapevole della bellezza cinematografica dell’ambiente e dello straordinario effetto della sua figura che si staglia nitida su questo sfondo. “Cappuccio o berretto?”. Posa con diversi copricapi. “Fucile o arco?”, chiede accennando alla mia macchina fotografica. Eppure adora i dettagli e la paziente fatica richiesta dal suo stile di vita. Lentamente, affila il legno con una scheggia di pietra per fabbricare le frecce. Concia le pelli con il cervello dei cervi per ammorbidirle.

E soprattutto, adora accendere il fuoco. Quella sera mi accovaccio per terra mentre lei magicamente estrae pennacchi di fumo dal punto in cui il suo trapano ad archetto incontra l’incavo nella tavola che fa da focolare. Appare una scintilla arancione e Lynx raccoglie delicatamente la minuscola brace e la deposita in un nido di paglia. Come se le sue dita screpolate fossero insensibili al fuoco, solleva in alto la palla incandescente a cui ha dato vita. “È il fuoco che ci rende umani”, mi dice.

Ma anche se fa del suo meglio per avere uno stile di vita primitivo, per molti aspetti Lynx rimane un prodotto degli anni duemila. Dopo aver cercato per anni di restare fedele a un’unica regione, ora divide il suo tempo tra i monti delle Cascate, la Svezia settentrionale, la valle della Dordogne in Francia e qualche incursione altrove. Questo genere di nomadismo è tutt’altra cosa rispetto alle abitudini migratorie dei cacciatori-raccoglitori tradizionali, che cercavano un clima più mite o seguivano la transumanza delle mandrie. Di fatto, se c’è una grossa falla nel personaggio paleolitico di Lynx non è che a volte usa uno spazzolino da denti di plastica comprato in un negozio o si concede una pizza. Non è la sua inclinazione a leggere classici a lume di candela (quando sono andata da lei, era Tess dei d’Urberville di Thomas Hardy) né il fatto che usa i vecchi computer del Methow valley community center per controllare la posta elettronica o che conosce PowerPoint (le piace preparare delle presentazioni per documentare i suoi progetti). È che la sua fascinazione per il vasto mondo – e la possibilità di saltare su un aereo per esplorarlo – la rende una persona assolutamente moderna.

Lynx si fa delle remore sulla questione dei viaggi: è consapevole delle catastrofiche emissioni di carbonio dei voli aerei e ammette il suo estremo disagio nel muoversi attraverso la sorveglianza dei grandi aeroporti. Preferisce, dice, viaggiare con compagni che sanno tenere lontana la sua ansia.

Rinuncia al suo costume di pelli quando prende l’aereo. Ridacchia malinconicamente al paradosso di volare intorno al mondo per insegnare alla gente come ottenere una fiamma strofinando dei bastoncini. Ma invariabilmente l’irrequietezza ha la meglio sull’istinto del nido, e lei risponde al richiamo del viaggio. Lynx pensa che il suo lavoro abbia una dimensione multigenerazionale. La sua grande fantasia è quella di creare una riserva per gli esseri umani selvaggi, proprio come certe zone della terra sono protette per tutelare la flora e la fauna. I principi della biologia della conservazione dovrebbero estendersi agli “umani che vogliono tornare allo stato selvaggio”, dice. “Noi probabilmente non possiamo diventare selvaggi, ma i nostri figli e i nostri nipoti sì, se avessimo un posto”.

È una proposta affascinante perché, tra tanti altri motivi, decidere che un luogo è al di fuori dello stato di diritto implica un intervento normativo importante, per il quale è necessario innanzitutto riconoscere le stesse autorità che si vorrebbero cancellare.

Ma il sogno di Lynx comincia con qualcosa che somiglia moltissimo a come svolge la sua attività oggi: una scuola per imparare le abilità primitive che si appoggia a un rifugio incontaminato. E qui, dopo aver acquisito le conoscenze necessarie per sopravvivere con l’ingegno e l’abbondanza della natura, “Si potrebbe andare in giro nudi nella foresta”. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati