Ha messo tra i bagagli anche degli assorbenti extra. Voleva metterseli sotto le ascelle: non avrebbe potuto lavarsi per molto tempo, ma non voleva avere l’aria trasandata o puzzare di sudore, altrimenti avrebbero potuto notarlo. Con gli assorbenti forse sarebbe andata meglio.

Ha disposto ordinatamente sul pavimento tutto il necessario per il viaggio: un visore notturno, un ricevitore gps, una torcia frontale impermeabile, fiammiferi antivento, biancheria termica, un kit di pronto soccorso, barrette energetiche, un sacco a pelo, una bussola, tre orologi da polso da usare per corrompere qualcuno e 580 euro in contanti. Il giorno dopo sarebbe partito.

Durante le ultime settimane passate in Germania, nel gennaio del 2018, Mehdi Maturi, 30 anni, organizzatore di eventi e barman nei club e nei locali di Monaco, non si era più fatto assegnare turni di lavoro. Aveva lasciato la sua stanza e si era appoggiato da un amico a Stoccarda per prepararsi al viaggio. Solo tre persone erano al corrente dei suoi piani. “Non volevo che qualcuno si preoccupasse o magari provasse a fermarmi”, spiega Maturi.

Questo non è il suo vero nome: è stato cambiato per proteggerlo da eventuali azioni legali da parte delle autorità turche o iraniane. Anche i nomi delle persone che lo hanno aiutato durante il viaggio e quelli dei suoi familiari sono falsi.

La sera del 16 gennaio 2018 Mehdi Maturi ha fatto i bagagli per mettersi in cammino: dalla Germania all’Iran a piedi, come un profugo ma in direzione opposta. Voleva ritrovare la madre, che aveva sempre creduto morta.

Un giorno Maturi ha ricevuto un messaggio su Facebook da uno sconosciuto che sosteneva di essere suo zio

Mehdi è arrivato in Germania da neonato, nel 1988: quando aveva solo qualche mese e la sorella e il fratello erano piccoli, il padre era fuggito con loro dal regime dei mullah. La madre invece era stata arrestata dalla polizia ed era morta nella prigione di Evin, a Teheran. Stando ai racconti del padre, la donna maltrattava i tre figli rinchiudendoli in una stanza senza latte né pannolini: per la fame mangiavano i loro escrementi. Di lei il padre parlava sempre con odio: “Per tutta la nostra infanzia e adolescenza vigeva una legge non scritta per cui nostra madre non si poteva nominare. Non sapevamo neanche come si chiamasse”, racconta Maturi. L’ultima volta che ha chiesto di lei aveva sei anni. “Mio padre mi ha ordinato di non parlarne mai più”.

Mentre cresceva a Schwäbisch Hall, nel sud della Germania, Maturi sembrava un adolescente come tutti gli altri: giocava nella squadra di calcio locale come esterno sinistro, mangiava patatine con ketchup e maionese alla piscina all’aperto, aveva un lavoretto in un negozio di bricolage. L’educazione che il padre impartiva ai suoi figli non era religiosa, ma estremamente severa: li chiudeva in cantina per punizione e quando voleva picchiare il figlio maggiore, che gridava forte, lo portava nel bosco. Anche Maturi le prendeva, ma cercava di farsi notare il meno possibile, per non dare al padre l’occasione di mettergli le mani addosso.

Amore, affetto e tenerezza non facevano parte dell’infanzia dei tre fratelli: Maturi non si ricorda di essere mai stato abbracciato. Neanche il padre aveva mai ricevuto niente di diverso, né dal suo paese, dove i guardiani della rivoluzione frustavano la gente per strada, né dalla sua famiglia: “Mio nonno gli ha dato l’ultimo schiaffo dal letto di morte”, racconta Maturi.

Il padre si guadagnava da vivere facendo “l’artista”: dipingeva quadri dai colori psichedelici che spesso raffiguravano donne, coppie, rose rosse e pavoni. Poi ha fatto l’ipnoterapeuta, senza avere alcuna formazione: per farsi prendere sul serio aveva appeso un diploma trovato su internet accanto a una di quelle poltrone che usano gli psicologi.

“Mio padre era un po’ imbroglione, un po’ maestro nell’arte di arrangiarsi e un po’ buono a nulla”, dice Maturi. Lo ha sempre saputo, ma non avrebbe mai immaginato che anche la morte della madre potesse essere una bugia.

Dopo il diploma all’istituto tecnico e un biennio integrativo al liceo, Maturi ha cominciato a guadagnarsi da vivere nei locali e nelle discoteche di Monaco. La vita notturna lo aiutava a dimenticare. La mattina del 22 febbraio 2010 Maturi aveva 22 anni e condivideva un appartamento a Monaco con altre quattro persone.

Facebook aveva appena cominciato a diffondersi. Un giorno Maturi ha ricevuto un messaggio da uno sconosciuto che sosteneva di essere suo zio e gli spiegava che la sorella – la madre di Maturi – cercava disperatamente i tre figli dal 1988, quando il padre li aveva rapiti e portati via dall’Iran. Era stata la crudele vendetta di un marito dispotico nei confronti della moglie che aveva chiesto il divorzio. Ormai l’unico desiderio della donna era rivedere i figli. Viveva in Iran, in una piccola località a poche ore di macchina da Teheran, senza un computer né accesso a internet.

La madre e i fratelli di Maturi in Iran negli anni ottanta

“Ero sotto shock”, dice Maturi. Chattando con lo zio ha scoperto il nome di sua madre: Nada Kharzi. Quando lo zio gli ha mandato una vecchia foto, Mehdi ha visto il volto di una donna sulla trentina che somigliava a sua sorella come una goccia d’acqua.

Quando lo ha raccontato ai fratelli, la loro reazione è stata piuttosto cauta. Ma Maturi ha trovato il coraggio di affrontare il padre, che viveva da solo in un appartamento a Stoccarda, segnato dalla leucemia e dagli ictus. Il padre si è messo a gridare: “Sono dei bugiardi!”.

Maturi non sapeva che fare. Aveva scoperto che sua madre era ancora viva, ma non aveva nessun rapporto con lei. “Non puoi sentire la mancanza di quello che non conosci”, spiega. Non aveva legami neanche con il paese dei suoi genitori. I tre bambini non erano mai stati in moschea, non avevano contatti con i parenti, parlavano poche parole di farsi. Eppure qualcosa in lui si è smosso. All’inizio era una specie di inquietudine, di insoddisfazione. Spesso aveva difficoltà ad addormentarsi. E se il padre non avesse mentito solo riguardo alla morte di quella donna, ma anche sul suo carattere? Maturi ha esitato per sette anni, ha dimenticato il fantasma della madre lontana, ha viaggiato e si è divertito.

Maturi vicino ad Alessandropoli, in Grecia, 19 gennaio 2018

Anche se l’avesse incontrata, come avrebbe fatto a comunicare con lei? Lo zio gli aveva detto che non parlava inglese. Una volta il suo telefono ha squillato di notte, e sul display c’era un numero iraniano. Mehdi è rimasto impietrito finché il cellulare non ha smesso di squillare. “Ho pensato: non sono cose di cui si possa parlare al telefono. Cosa avrei potuto dire?”.

Possiamo farcela

Mehdi Maturi non ama esprimere problemi e sentimenti a parole. Nella sua famiglia si parlava poco. Una volta, per scoprire chi di loro avesse rotto una tazza, il padre ha messo in fila i tre figli e li ha schiaffeggiati a turno finché il maggiore non ha confessato. Il padre ha cominciato a picchiarlo e a quel punto Mehdi ha ammesso di essere stato lui. Il padre però ha continuato a picchiare il fratello, perché aveva detto una bugia. “La cosa migliore era starsene zitti”, dice Mehdi. Quando gli chiedono come si sente, spesso risponde con un’altra domanda, nient’affatto retorica: “Non lo so, come dovrei sentirmi?”.

Da ragazzo si dedicava intensamente allo sport: calcio, football americano, baseball. “Quando voleva mettermi in punizione, mio padre mi vietava di fare sport, il mio unico svago”. Anche adesso Maturi va in palestra tutti i giorni, per almeno tre ore, ma spesso quattro o cinque. Per lui l’attività fisica è un modo di comunicare con se stesso.

Suo padre è morto nel 2014, accoltellato nel suo appartamento. Gli investigatori hanno cercato l’uomo con cui era stato visto poco prima di essere ucciso, ma non sono mai riusciti a trovarlo. “Forse mio padre ha raccontato le sue bugie alla persona sbagliata”, dice Maturi.

Gli oggetti che Maturi ha portato con sé nel viaggio di ritorno (Mehdi Maturi, 3)

Nel 2015, quando in Germania arrivavano sempre più profughi dal Medio Oriente e Angela Merkel ha detto la famosa frase “possiamo farcela”, Mehdi ha cominciato a riflettere su quelle famiglie sradicate e quelle vite spezzate come la sua: “Sentivo che prima o poi avrei dovuto affrontare la mia storia. Cosa ho preso da mia madre? Le somiglio? Come reagirebbe se mi presentassi all’improvviso e dicessi: ‘Ciao, sono io, tuo figlio?’”.

Nel 2017 in una discoteca di Ibiza ha conosciuto Dariusch, un iraniano che vive a Teheran ma può muoversi liberamente tra i due mondi perché ha anche un passaporto britannico. Da­riusch gli ha detto una cosa che gli avrebbe poi ripetuto spesso al telefono nei mesi successivi: “Mehdi, devi scoprire le tue radici, devi sapere chi sei. Devi trovare tua madre!”.

Maturi vedeva Dariusch come un’ancora di salvezza in un paese sconosciuto: qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo e fargli da interprete. Nell’estate del 2017 Maturi finalmente ha chiesto il visto per andare in Iran. Ma da quando era arrivato in Germania non possedeva altro che il documento di viaggio per i rifugiati, quello con la copertina blu, che l’Iran non riconosce. Per di più era scaduto nel 2016, come anche il suo permesso di soggiorno con l’indirizzo di residenza. Maturi aveva vissuto quasi sempre in appartamenti in cui non era permesso il subaffitto e quindi non poteva presentare una dichiarazione del proprietario a conferma della sua residenza.

Aveva la testa piena di domande su identità, verità e menzogna. Il lungo viaggio gli avrebbe permesso di guadagnare tempo

Per ottenere il passaporto iraniano aveva bisogno del certificato di nascita, che suo padre però non aveva mai richiesto. La quarta volta che è andato al consolato iraniano, il funzionario ha gettato il passaporto di Maturi sulla scrivania e ha detto: “Con questo non riuscirà mai a salire su un aereo per l’Iran!”. Maturi ha risposto: “E allora ci andrò a piedi”. Il funzionario si è messo a ridere. Ma non era una battuta.

Bagaglio leggero

In quel periodo in tv si vedevano continuamente persone in abiti leggeri che si trascinavano verso l’Europa. Sulla cartina le loro rotte sembravano i vasi sanguigni che portano il sangue a un organo. Maturi voleva fare il loro percorso all’inverso per quattromila chilometri, seguendo le rotte di contrabbandieri e trafficanti, attraversando fiumi e montagne, senza un documento valido. Voleva passare inosservato, come faceva da bambino con il padre violento. Maturi era un fan della serie Man vs. wild, in cui il protagonista affronta sfide estreme attraversando foreste pluviali e paludi. Maturi voleva essere così. Non ha mai desiderato una vita di coppia o beni materiali come la casa e l’automobile: ha sempre voluto vivere leggero, senza legami, libero di partire da un momento all’altro. E da bambino al campo estivo aveva imparato a usare la bussola e a costruire zattere e capanne. “Con il senno di poi sono stato proprio un ingenuo”, riflette: “Come se per correre la maratona bastasse comprare un paio di scarpe da ginnastica”. Evitava di pensare ai pericoli: avrebbe potuto rimanere ferito, essere aggredito, finire in prigione o addirittura morire.

Su Google Maps ha stabilito un percorso che gli sembrava sensato: voleva andare in aereo ad Alessandropoli passando per Vienna e Atene, perché è l’aeroporto più a est della Grecia continentale. Da lì avrebbe proseguito a piedi: avrebbe attraversato a nuoto il fiume Evros, che segna la frontiera greco-turca, poi tutta la Turchia fino ai monti Zagros, al confine con l’Iran. Una volta a Teheran aveva intenzione di vivere per un po’ a casa di Da­riusch per migliorare il suo farsi. A Dariusch non aveva detto niente, per non farlo preoccupare.

Se non era riuscito ad affrontare il telefono e chiamare la madre, avrebbe affrontato questo viaggio. Aveva la testa piena di domande su identità, verità e menzogna. Il lungo viaggio gli avrebbe permesso di guadagnare tempo. Invece che emotivamente, si sarebbe avvicinato a sua madre materialmente.

Un puntino blu

Oggi Mehdi Maturi ha 32 anni, un fisico asciutto e un sorriso smagliante. Cammina a grandi passi e porta i capelli scuri raccolti dietro la testa. Questo racconto è basato sui suoi resoconti, ma non solo: il suo percorso può essere ricostruito anche dai punti salvati su Google Maps e dalle coordinate geografiche e temporali riportate sulle foto. L’intero viaggio è documentato sul suo cellulare.

Il 17 gennaio 2018 era mercoledì e faceva freddo. Maturi si è messo in spalla un grosso zaino con il sacco a pelo e i vestiti termici. Sul petto ha messo uno zaino più piccolo con l’attrezzatura tecnica. Ha portato con sé il documento di viaggio scaduto, anche se fuori dall’Unione europea sarebbe servito a poco, ma ha lasciato a casa il permesso di soggiorno. La notte dopo è atterrato nel minuscolo aeroporto di Alessandropoli. Per prima cosa ha aperto Google Maps: a nord c’era la Bulgaria e a est, a soli 43 chilometri, la Turchia. Nel corso del viaggio avrebbe osservato altre mille volte il puntino blu pulsante e i rilievi verde-marrone dell’immagine satellitare.

Il fiume Evros, che i turchi chiamano Meriç, è largo al massimo 150 metri. “Dovrebbe essere fattibile”, si è detto Maturi. Migliaia di profughi sono riusciti a passare da una sponda all’altra, ma centinaia sono affogati. Maturi ha chiesto a una tassista di portarlo a Feres, che sembrava il villaggio greco più vicino al confine. Lei lo ha fatto scendere davanti a una pensilina non illuminata lungo i binari della ferrovia.

Doğubeyazıt, al confine tra Turchia e Iran, 30 gennaio 2018

Solo nell’oscurità, Maturi ha indossato i vestiti pesanti, si è incollato gli assorbenti sotto le ascelle, ha acceso la torcia frontale e si è messo in cammino. Il fango si accumulava sotto gli anfibi e il sudore impregnava la biancheria da sci. Per ore Maturi si è fatto strada tra i campi, nella boscaglia e nella foresta, senza riuscire a raggiungere la riva del fiume. All’improvviso i fari di un camion lo hanno illuminato e dei soldati lo hanno fermato: “Che ci fai qui?”. Maturi ha risposto che stava scrivendo un libro sulla vita nella natura selvaggia e che si era perso. I soldati lo hanno lasciato andare scuotendo la testa: sembrava che non sapessero bene cosa fosse il suo passaporto, ma era un documento ufficiale tedesco e gli bastava. Non c’era motivo perché non potesse girare in quella zona di notte.

Maturi ha dormito nel sacco a pelo sotto un telo impermeabile. Anche il giorno dopo è andato avanti e indietro, secondo Google Maps percorrendo 39,2 chilometri in otto ore e 59 minuti, ma non è riuscito ad arrivare al fiume. Esausto e affamato, ha rinunciato. È tornato ad Alessandropoli in autobus e ha preso una camera in un albergo economico. Nei giorni successivi ha cercato sull’app Couch­surfing qualcuno che potesse aiutarlo. Gli ha risposto Evangelis, un soldato che stava di guardia proprio lungo il confine. Maturi gli ha chiesto come facessero i profughi ad attraversare il fiume nella direzione opposta. Evangelis gli ha indicato due guadi, ma era inverno e il fiume in piena era pericoloso: “Non lo fare, ripeschiamo continuamente cadaveri dal fiume!”. Allora Maturi ha chiesto a Evangelis di prestargli il suo passaporto: glielo avrebbe rispedito una volta superato il confine. Evangelis ha esitato un po’, ma alla fine ha accettato: non voleva ripescare un altro cadavere dall’Evros. La notte dopo Maturi è salito su un autobus diretto al confine con il cappello calato sul viso. Alle 5.30 è entrato in Turchia con un passaporto greco preso in prestito.

Oltre il confine

Ha attraversato la Turchia in autobus per 1.800 chilometri fino a Doğubeyazıt, una città sul confine. Voleva arrivare in Iran scavalcando le montagne, con le tasche piene di barrette energetiche. Ma non è andato lontano. Aveva appena nevicato e le suole dei suoi anfibi erano consumate. È scivolato e si è fatto male. Ancora una volta è stato costretto a fermarsi.

Il nascondiglio dei trafficanti iraniani, 1 febbraio 2018

Tornato a Doğubeyazıt, Maturi si è rimesso a cercare contatti su Couchsurfing. Gli ha risposto un certo Karim, che lo ha invitato a cena. “Non puoi passare da lì”, gli ha detto Karim quando Maturi gli ha raccontato il suo piano. “I turchi hanno costruito un muro di cemento per tenere lontani i migranti irregolari e il Pkk. Erdoğan si è chiuso dentro”. Ma ai piedi dell’Ararat c’è un varco nel muro. Il suocero di Karim ne sapeva di più. Quando ha saputo della storia di Mehdi, ha detto: “Conosco qualcuno che può portarti dall’altra parte”. Per 320 euro.

La sera dopo Maturi è partito per le montagne insieme a dei contrabbandieri di sigarette, praticamente dei ragazzini, in groppa ad asini e cavalli. Il terreno era ghiacciato sui sentieri stretti ed era buio pesto. All’improvviso sono stati illuminati dai riflettori montati su delle jeep, e hanno dovuto scappare al galoppo dai militari. “Non cadere”, gli hanno gridato i contrabbandieri, “o ti rompi l’osso del collo!”.

A un punto d’incontro i turchi hanno ricevuto dei sacchi di sigarette da un gruppo di adolescenti iraniani. Maturi ha proseguito a piedi con loro. Gli otto ragazzi erano incuriositi: non avevano mai visto uno come lui. Perché voleva entrare clandestinamente in Iran? Maturi ha cercato di spiegarglielo nel suo pessimo farsi. Loro hanno continuato a fare domande: in Germania è permesso bere birra? Si può uscire con le ragazze? Come fai a capire se piaci a una ragazza? Tutti conoscevano Angela Merkel. Uno di loro ha detto che era una brava persona, perché aveva dato prova di umanità.

Maturi era così esausto che riusciva a stento a parlare. I ragazzi invece si arrampicavano come capre di montagna: indossavano giacche leggere e scarpe da ginnastica, mentre Maturi sudava nei suoi vestiti termici. Dopo ore di cammino i ragazzi continuavano a lasciarlo indietro: “Hai mangiato troppa pizza!”, gli gridavano ridendo. I suoi polmoni erano in fiamme, non riusciva ad andare avanti. “Lasciatemi qui in montagna!”, ha urlato, ma i ragazzi gli hanno risposto: “Se resti qui muori!”. Così lo hanno trascinato, prendendolo uno per un braccio e uno per l’altro.

Prima di varcare il confine tra Turchia e Iran, 13 luglio 2018 (Mehdi Maturi, 3)

A un certo punto il capo del gruppo ha fatto un gesto con la mano: fermatevi, state giù. Ed ecco il confine: una strada sterrata per le pattuglie, un fosso con il filo spinato a lame di rasoio della Nato. “Ora!”, ha gridato il capo, e tutti si sono messi a correre verso il punto in cui all’andata avevano schiacciato il filo spinato e lo avevano coperto con degli stracci. Maturi ha saltato il filo spinato, ha corso su per una montagna sbuffando e sudando, e così è arrivato in Iran.

Parenti lontani

Alle prime luci dell’alba hanno raggiunto un villaggio. Una macchina è arrivata sgommando, e Maturi si è steso nello spazio tra i sedili. Dopo dieci minuti si sono fermati e lo hanno portato in una capanna di fango. Quattordici paia di occhi lo fissavano da visi sporchi: erano afgani, tutti diretti dalla parte opposta, quella da cui era venuto lui. Qualche ora dopo sono venuti a prenderli, spronandoli con il bastone come bestiame, per farli arrampicare su per le montagne come aveva fatto lui. Mehdi ha dormito un paio d’ore, poi si è steso di nuovo tra i sedili. Il viaggio è durato circa dodici ore.

Un’ora prima di arrivare a Teheran, Mehdi ha chiamato Dariusch per avvertirlo, ma ha scoperto che l’amico era in vacanza nel nord del paese, lontano. Gli unici parenti che conosceva erano degli zii che vivevano vicino a Teheran: la sorella di suo padre e il marito. Maturi li aveva conosciuti da bambino durante una vacanza in Turchia. Dariusch ha telefonato ai parenti stupefatti per spiegargli la visita a sorpresa di Maturi. Hanno accettato di ospitarlo, ma la zia era taciturna, fredda e quasi ostile. In seguito Maturi avrebbe saputo che all’epoca aveva coperto il rapimento dei bambini.

Un pomeriggio ha sentito lo zio che parlava al telefono. Poi gli si è avvicinato e gli ha passato la cornetta: “È tua madre, parla con lei”

“Probabilmente non voleva ripensarci, forse si sentiva la coscienza sporca, non lo so”, dice Maturi. Anche in quella famiglia si parlava poco. Lo zio aveva aiutato sua moglie, ma non aveva mai approvato il rapimento, come Maturi avrebbe scoperto in seguito. All’inizio lo zio gli ha detto: “Ora che sai la verità su tuo padre non condannarlo. Aveva anche dei lati buoni”.

Qualche giorno dopo lo zio gli ha messo davanti un album di fotografie della famiglia di suo padre. Con l’aiuto di un traduttore automatico, gli ha raccontato qualcosa su ogni immagine. Maturi ha visto una foto della sorella e del fratello da piccoli e li ha riconosciuti immediatamente: doveva essere il primo compleanno del fratello, perché c’è un 1 sulla torta. Ma Maturi non si è soffermato a guardare i fratelli, perché accanto a loro c’era una giovane donna che abbracciava il bambino. Era quello quindi il mostro che gli descriveva suo padre? L’ha osservata a lungo: i suoi capelli, la sua pelle, il suo sorriso. C’ero già io nella sua pancia?, si è chiesto. Ma non ha detto nulla, e nemmeno suo zio.

Davanti alla porta

Maturi voleva rimanere dai parenti solo per qualche giorno e poi trasferirsi da Dariusch a studiare il farsi. “Avevo paura di vedere mia madre”, ricorda. Voleva rimandare l’incontro. Ma un pomeriggio ha sentito lo zio che parlava al telefono nell’altra stanza. Poi gli si è avvicinato e gli ha passato la cornetta: “È tua madre, parla con lei”. Maturi lo ha guardato esterrefatto. “Dai su, parla con lei!”. Esitante, Maturi ha preso il telefono e ha detto: “Pronto?”. Ha sentito una voce dolce: “Cuore mio, luce dei miei occhi, sei venuto da me!”. Non ha capito il resto. “So bene che non volevi parlarle così la prima volta”, si è scusato lo zio in seguito. “Va tutto bene”, gli ha risposto Maturi. Lo zio gli ha detto che la madre sarebbe partita il prima possibile dalla sua città per raggiungerlo.

Due giorni dopo Maturi ha finalmente incontrato Dariusch presso un lago lì vicino. Pensava di avere ancora un po’ di tempo prima che sua madre arrivasse quella sera. Ma a un certo punto lo ha chiamato suo zio: “Tua madre è già qui!”. Maturi è saltato su un taxi e si è ritrovato a passare tre ore imbottigliato nel traffico. “Ero emozionatissimo”, ricorda. “Non sapevo che tipo di persona fosse”. Aveva scalato le montagne che dividono l’Europa dall’Asia, ma quali altre montagne si sarebbero frapposte tra lui e la madre? Quando finalmente è arrivato ha salito i gradini a due alla volta, finché non l’ha vista in piedi davanti alla porta, emozionata quanto lui. Eccoli uno di fronte all’altra, e lei sorrideva, anzi, “illuminava tutto il corridoio con la sua felicità”, racconta Maturi. Si sono abbracciati. Lei era minuta e delicata. “Tesoro mio, sei venuto da me”, ha sussurrato. “Vieni, andiamo”.

All’improvviso Maturi si è reso conto che sua madre aveva dovuto passare tre lunghissime ore con le persone che avevano collaborato al sequestro dei suoi figli, e ha salutato in fretta gli zii. Hanno viaggiato per metà della notte. Lei aveva portato delle provviste, semi, noci, frutta, tè, dolci iraniani. Maturi parlava pochissimo farsi, perciò comunicare con la madre era praticamente impossibile, ma per quasi tutto il tempo ha osservato il suo profilo. A un certo punto il cellulare della madre ha squillato: erano la nonna e la zia. Quando lo hanno sentito rispondere si sono messe a piangere: in seguito gli avrebbero raccontato che alla sua nascita la zia era stata la prima a tenerlo in braccio.

Nelle settimane successive, man mano che imparava il farsi, Maturi ha appreso l’altra versione della storia. La madre l’ha raccontata così: nel suo matrimonio non c’era stato neanche un giorno di felicità. Era una ragazza di campagna di 17 anni quando aveva conosciuto il suo futuro marito. Lui le aveva fatto credere di essere un dentista. Dopo il matrimonio aveva cominciato a picchiarla, a mentire, a non tornare a casa per giorni. Non le portava soldi, latte o pannolini. Lei aveva sempre il viso gonfio, anche la sua famiglia se ne era accorta. Proprio come succedeva a noi da bambini, ha pensato Maturi. “Eravate l’unica gioia della mia vita”, gli ha detto la madre, “la mia unica fortuna”.

Quando il padre aveva picchiato la sorellina di due anni perché faceva la pipì nel pannolino – altrimenti non impara a usare il gabinetto, aveva detto – lei aveva chiesto il divorzio. Incinta di Maturi, era andata a stare dai nonni. In tribunale aveva ottenuto la custodia dei figli. Dopo la nascita di Maturi, passati i primi tempi, avrebbe preso con sé gli altri due bambini, che nel frattempo stavano dalla suocera. Quando Maturi aveva poche settimane, il padre aveva detto che doveva portarlo all’anagrafe per farsi fare il certificato di nascita. Quella era stata l’ultima volta che la madre aveva avuto notizie del marito e dei figli. Da allora non aveva smesso di cercarli, con l’aiuto della polizia e della famiglia. Più volte si era rivolta alla sorella del marito, che giurava e spergiurava di non saperne nulla. Piangeva quasi tutti i giorni, viveva da sola e lavorava in un ufficio. Solo un anno prima della visita di Maturi, a 50 anni passati, si era risposata con un uomo gentile che la trattava bene.

Maturi a casa della madre con la nonna e la prozia, febbraio 2018 (Mehdi Maturi, 3)

Un piccolo avvenimento l’ha aiutata a far fronte ai decenni che passavano: 13 o 14 anni dopo la sparizione dei suoi figli ha ricevuto una fotografia, spedita per posta da un mittente anonimo. Mostrava i suoi figli in un bosco, davanti a una cascata, ben vestiti e pettinati, ben nutriti. Lei sospettava che fosse stato il fratello del marito a prenderla dalla casa della sorella, l’unica parente con cui il padre di Maturi era rimasto segretamente in contatto. Con quel fratello invece non era mai andato d’accordo.

Dalla foto era impossibile capire dove vivessero i bambini. “Ma da quel momento mia madre sapeva che stavamo bene, meglio che in Iran. Non dovevamo soffrire né la fame, né la guerra. Così era più facile sopportare la lontananza”, dice Maturi. Sognava di vederli da lontano, di prendere un aereo in segreto per raggiungerli, dovunque fossero, di sedersi su una panchina di fronte alla porta di casa loro in attesa che uscissero.

Maturi è rimasto in Iran cinque mesi. Ha conosciuto il resto della sua famiglia: zii, zie, cugini e cugine. Ha sentito ripetere centinaia di volte la formula di saluto iraniana – “Che i tuoi occhi possano brillare!” – e alle riunioni di famiglia gli è stato spiegato il suo rapporto di parentela con tutti. Lui e la madre non hanno raccontato a nessuno come era arrivato in Iran, per evitare che lo venissero a sapere i servizi segreti. Insieme sono andati a vedere l’ospedale dov’è nato Maturi. La madre gli ha comprato dei vestiti. In un retrobottega gli hanno offerto della merce firmata di contrabbando, e lei gli ha regalato magliette e pantaloni dai prezzi quasi proibitivi per gli standard iraniani. A tavola hanno scoperto la prima cosa che hanno in comune: “Entrambi prima di mettere in bocca qualcosa la annusiamo”, dice Maturi. Una volta l’ha chiamata “mami” e dal modo in cui ha sorriso ha capito quanto ne fosse contenta, così ha continuato. Per strada lei gli prendeva la mano o gli metteva il braccio intorno alle spalle. Sono andati in vacanza da soli, e poi di nuovo con tanti parenti. Andavano a pescare, cucinavano e passeggiavano.

La casa dove Maturi e la madre hanno passato una vacanza a Teheran, aprile 2018. In basso: Grecia, 2018

Feste segrete

Maturi ha chiamato i fratelli, che ancora non sapevano dove si trovava: “Nostro padre ci ha raccontato stronzate. Il cattivo era lui. Nostra madre è affettuosa e sensibile”. I fratelli si sono sentiti rincuorati: erano già andati alla polizia perché non riuscivano a trovarlo. A proposito della madre, però, sono rimasti piuttosto cauti. “Ma avevano cominciato a riflettere, ne ero sicuro”, dice Maturi.

Era quella casa sua, adesso? Quando è andato a trovare Dariusch a Teheran, Maturi è entrato in contatto con i giovani iraniani alle feste segrete. Ha scoperto i parrucchieri clandestini dove donne vestite all’occidentale tagliano i capelli agli uomini. Ha fatto dei fantastici viaggi nel deserto in fuoristrada. A un certo punto ha pensato di restare. Ma poi ha conosciuto anche dei ragazzi disoccupati che gli hanno raccontato degli insegnanti che costringono gli studenti delle scuole e delle università a bruciare le bandiere statunitensi per strada. “Se sei ricco e non crei problemi alle autorità in Iran puoi vivere bene, altrimenti no”, spiega Maturi. In ogni caso, tutti gli dicevano di tornare a casa, perché in Iran presto sarebbe scoppiata la rivoluzione, o la guerra. Maturi temeva anche che prima o poi lo avrebbero chiamato a fare il servizio militare. Così ha deciso di lasciare il paese. Suo zio insisteva perché partisse: non poteva rimanere ancora dalla madre, che aveva un nuovo marito e una famiglia di cui occuparsi.

Grazie alle mazzette e ai contatti della sua famiglia, Maturi ha ottenuto un certificato di nascita e una carta d’identità iraniana. Sperava di ottenere il passaporto per tornare in Germania in aereo. Ma per richiederlo bisogna aver fatto il servizio militare o aver pagato per esserne esentati. Inoltre avrebbe dovuto spiegare come aveva fatto a entrare nel paese. Maturi ha capito che doveva tornare per la strada da cui era venuto: stavolta però doveva percorrerla nella stessa direzione dei profughi.

Si è allenato in palestra e ha corso su e giù per le scale e le montagne. Ha chiamato Karim, che all’andata lo aveva aiutato a Doğubeyazıt e lo aveva messo in contatto con i contrabbandieri ragazzini. Ma ha scoperto che quella rotta non era più percorribile. La madre gli ha dato quasi mille euro, che in Iran sono una grossa somma. Se li è fatti prestare da un’amica. Poi lo ha portato in auto al confine.

Attraversando il villaggio di frontiera dove era arrivato sei mesi prima, Maturi ha capito perché i contrabbandieri non passavano più da lì: era stata costruita una caserma e i soldati pattugliavano la zona in fuoristrada. La madre si è innervosita e sono tornati indietro fino alla città più vicina, Bazargan.

“Lasciami qui”, ha detto Maturi alla madre, chiedendole scusa per tutti i problemi che le aveva procurato. “Grazie a te per aver affrontato questo viaggio”, ha risposto lei. “Per anni ho sognato di poterti riabbracciare anche solo una volta, e invece ho potuto trascorrere tutto questo tempo con te. Di’ ai tuoi fratelli che gli voglio bene”. Poi gli ha preso il viso tra le mani e lo ha baciato. “Sei la madre migliore che potessi desiderare”, ha detto lui. “Lo dirò anche ai miei fratelli”. Lei aveva le guance bagnate di lacrime. Si sono stretti in un lungo abbraccio. “Un giorno ci incontreremo tutti insieme, te lo prometto”, le ha detto Maturi andandosene.

Per diversi giorni Maturi ha cercato dei trafficanti a Bazargan. Mentre stava raccontando la sua storia nel negozio di un cambiavalute, un uomo ha detto di conoscere qualcuno che poteva aiutarlo. Poco dopo ne è arrivato un altro che gli ha chiesto 600 euro, 200 in anticipo. Sarebbero partiti il giorno successivo.

Maturi ha capito che doveva tornare per la strada da cui era venuto: stavolta però doveva percorrerla nella stessa direzione dei profughi

Un’auto lo ha portato a sudovest. Maturi si è unito a un gruppo di trafficanti e a più di cento profughi provenienti da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan. Dei venditori a cavallo li rifornivano di biscotti e sigarette: erano bambini che guadagnavano qualcosa seguendo le carovane di migranti.

Di notte hanno passato il confine turco correndo. Più tardi Maturi si è ritrovato rannicchiato, stipato in un camion con la musica curda a tutto volume. Alla fine è arrivato a Doğubeyazıt passando per le fogne.

È rimasto bloccato lì per quasi tre settimane, finché un’amica tedesca è venuta a prenderlo e lo ha portato attraverso la Turchia con un’auto a noleggio. Poi, durante un temporale, ha passato a nuoto il fiume sul confine greco-turco e all’alba è arrivato in un villaggio greco, Tychero. Un gruppetto di uomini stava bevendo il caffè. “Siria?”, hanno chiesto a quel giovane che evidentemente aveva appena attraversato il fiume e aveva l’aria provata come qualunque altro profugo. “No, tedesco”, ha risposto Maturi. Gli uomini si sono messi a ridere.

Finalmente nell’Unione europea, Maturi avrebbe voluto tornare a casa in aereo, ma non poteva: il suo documento di viaggio era scaduto e non aveva con sé il permesso di soggiorno. Poi sul tabellone dell’aeroporto di Atene ha visto un volo in partenza per Barcellona all’1.35 di notte. In Spagna c’era stato diverse volte e non aveva mai avuto problemi: gli spagnoli non vanno tanto per il sottile. E in effetti, passando per Barcellona, l’8 agosto 2018 è riuscito ad arrivare a Monaco. Ce l’aveva fatta. Aveva percorso 11.832 chilometri, di cui 4.585 in aereo, 3.446 via terra all’andata e 3.800 al ritorno.

Succo di carota

“Oggi sono una persona completa”, dice Maturi. Sapeva di aver preso la testardaggine, la spericolatezza e l’approssimazione da suo padre, ma ignorava di avere in sé anche la calma e la forza interiore di sua madre. Ora ha trovato la metà mancante della sua identità. “Con il senno di poi so di aver esitato troppo a lungo. Ora penso più alle cose da fare che a quelle da non fare”. Non vuole condannare del tutto suo padre: “Ci ha mantenuti da solo e ci ha dato un futuro. Oggi non siamo costretti a vivere in quella prigione che è l’Iran e gliene sono grato, anche se ce l’ho con lui”.

Il suo percorso con i profughi ha anche cambiato la visione che ha di loro: è ingiusto che lui sia stato accolto ovunque con solidarietà e comprensione perché stava cercando sua madre, mentre chi fugge dalla fame e dalle guerre per mantenere la famiglia rimasta a casa incontra solo ostilità. “Rispetto tutti quelli che intraprendono un viaggio così difficile. Sono persone che prendono in mano il proprio destino. E la maggior parte di loro non desidera altro che tornare dalla famiglia appena possibile”.

Quando Maturi è tornato e ha raccontato ai fratelli la storia della loro vita dal punto di vista della madre, anche suo fratello ha provato a ottenere il passaporto iraniano per andarla a trovare in moto, ma non ci è ancora riuscito. La sorella invece non vuole andare in Iran. Perciò stanno progettando di incontrarsi tutti insieme in Azerbaigian, se i documenti glielo permetteranno. La madre potrebbe arrivarci in ­pullman.

Maturi cerca di rimanere in contatto con lei, per quanto i mezzi di comunicazione e la censura iraniana lo consentono. Spesso internet e i servizi come WhatsApp e Telegram sono bloccati, a volte non riesce a raggiungerla neanche al telefono per settimane. Quando i servizi riprendono se ne accorge dai tanti cuoricini rossi e sticker di cagnolini che lei gli invia. Qualche tempo fa al telefono gli ha detto: “La situazione è grave, figlio mio”. L’inflazione è così forte che non può più permettersi di comprare neanche il succo di carota, l’unico lusso che si concedeva.

Maturi si è trasferito a Berlino per costruirsi un futuro. Vorrebbe un lavoro legato allo sport e alla motivazione, per aiutare gli altri a spingersi fino ai propri limiti: “Perché ora so quanto ne valga la pena”. Sarebbe disposto a rifare il viaggio, nonostante i pericoli e le difficoltà? Maturi ci riflette a lungo. “Sì, penso che lo rifarei”, dice. “Per quell’istante in cui ho fatto le scale di corsa per raggiungere mia madre e lei mi ha guardato per la prima volta. Lo rifarei anche solo per quel sor­riso”. ◆ _ sk_

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Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 150. Compra questo numero | Abbonati