La selezionatrice era una donna vispa con un master in letteratura inglese; in passato aveva lavorato come libraia indipendente. “La sua esperienza di laureata in inglese è ideale per questo ruolo”, mi aveva detto. Il lavoro era in un’azienda specializzata in soluzioni d’intelligenza artificiale (Ai) per il settore immobiliare. Avevano sviluppato un software che si chiamava Brenda, un’Ai conversazionale capace di rispondere alle domande sugli appartamenti in affitto. Brenda era stata acquistata da un’azienda più grande che forniva software alle società d’intermediazione immobiliare, e migliaia di agenzie in tutto il paese l’avevano adottata.

Brenda, mi aveva detto la selezionatrice, era una conversatrice sofisticata, talmente spigliata che quasi tutti la scambiavano per una persona.

Però, come tutte le intelligenze artificiali conversazionali, Brenda aveva dei difetti: faceva fatica a capire le frasi idiomatiche e non se la cavava molto bene con le domande che uscivano dal campo immobiliare. Per colmare queste lacune, l’azienda stava formando una squadra di specialisti chiamati “operatori”. Gli operatori dovevano vigilare su Brenda ventiquattr’ore al giorno, e quando lei usciva dal copione dovevano intervenire e imitarla. Teoricamente, il cliente dall’altra parte del filo non si sarebbe dovuto accorgere che prima stava parlando con un software per la comunicazione automatica, un bot. Con l’esercizio, Brenda assorbiva i modelli linguistici degli operatori e gradualmente li faceva suoi.

Era la primavera del 2019. I miei giorni da studente di scrittura creativa erano finiti, e anche i miei soldi, e dovevo pagare l’affitto: mi serviva un lavoro. Avevo mandato il mio curriculum alla selezionatrice. Vari colloqui telefonici dopo avevo firmato il contratto: mi avevano inserito in un corso di formazione e mi avevano mostrato una presentazione PowerPoint di 45 minuti sulla legge in materia di alloggi popolari. Mi ero fatta un po’ di conti: un operatore guadagnava 25 dollari l’ora e lavorava tra le quindici e le trenta ore alla settimana, a seconda di quanto era fortunato alla lotteria dei turni settimanali. Non bastava a coprire l’affitto, ma non avevo alternative. Ho fatto i bagagli e sono tornata a vivere con i miei genitori nel New Jersey.

Eravamo una sessantina di operatori: poeti e scrittori con un master in belle arti, ma anche laureati in discipline dello spettacolo o in letteratura comparata e qualche cantante lirico, evidentemente un altro segmento della popolazione considerato adatto a impersonare un bot che impersona una persona.

Abbiamo deciso di aprire un canale su un programma di collaborazione aziendale tipo Slack. Ed eravamo tutti aggressivamente gentili e sorridenti. Quando non parlavamo di Brenda, ci scambiavamo programmi di studio, chiedevamo suggerimenti sui tatuaggi e distribuivamo volantini digitali per laboratori di musica e movimento. Tra di noi c’era una manciata di operatori più anziani che avevano il ruolo di supervisori. Ogni giorno, quando arrivavamo al lavoro, ci accoglievano con un saluto da campo estivo: “Il sole splende, mie adorate Brenda!”. Sotto il messaggio spuntava un florilegio di emoji e reazioni.

Nelle prime settimane il mio lessico si è arricchito di nuove espressioni: pertinenze, villette a schiera, canone anticipato; parole e frasi che prima galleggiavano alla periferia del mio inconscio. Non mi era mai capitato di dire “specialista di locazione immobiliare in remoto”, ma era così che Brenda si qualificava, e ormai la frase mi usciva dalla bocca con disinvoltura.

La parola nuova più importante, però, era prospect. Indicava un potenziale inquilino. Lo scopo di Brenda era aggiungere nuovi prospect alla banca dati, prenotargli nuove visite e, fondamentalmente, trasformarli in residenti. Gli operatori usavano la parola prospect con grande slancio. Era talmente onnipresente nei nostri discorsi che spesso l’abbreviavamo in prospy o prosp.

Una tipica interazione con Brenda cominciava quando un prospect vedeva un appartamento su un sito immobiliare online. Sull’annuncio c’era un numero di telefono e il prospect lo componeva. Era una messinscena: il telefono squillava, ma non rispondeva nessuno. Alla fine, arrivava la voce ardente e ansimante di una donna. “Mi scusi se ho perso la chiamata!”, diceva. “Possiamo parlare in chat”. Quindi la linea cadeva. Cinque minuti dopo, il prospect riceveva un messaggio: “Salve! Sono Brenda della Parc Mosaic. A quale immobile è interessato?”.

Se il prospect rispondeva, Brenda cominciava a chattare. Le si potevano chiedere informazioni sull’affitto, le utenze, il parcheggio e la metratura, e se l’immobile non era disponibile lei suggeriva alternative gestite dalla stessa agenzia. La vera fissazione di Brenda, però, era convincere il prospect a fare una visita. Qualsiasi piega prendesse la conversazione, tornava sempre sullo stesso ritornello: “Le fisso un appuntamento! Che orario preferisce?”.

Se il cliente provava a richiamare Brenda al telefono, lei non rispondeva e inviava una serie di messaggi, uno più vago dell’altro, in cui si scusava spiegando che non poteva rispondere. “Non posso ricevere chiamate su questa linea”, diceva. “Ma sono disponibile via chat”. Al terzo tentativo, rispondeva con un laconico “mi scusi se ho perso la sua chiamata”, frase che poi ripeteva inesorabilmente ogni volta che il cliente ricomponeva il numero.

Nelle agenzie immobiliari i telefoni squillano di continuo. Gli agenti passano gran parte della giornata a parlare con i prospect, che spesso ripetono la stessa litania di domande. Con Brenda a prendere in carico le chiamate, le linee telefoniche erano mute e gli agenti erano liberi di sbrigare altre faccende. Brenda, tra l’altro, era più efficiente di qualsiasi agente in carne e ossa, anche il più solerte. Poteva fare controlli incrociati istantanei su un grande archivio d’informazioni immobiliari e rispondere ai messaggi più velocemente di qualsiasi essere umano. Poteva prendere chiamate a qualsiasi ora del giorno e della notte, non aveva bisogno della pausa pranzo e lavorava anche nei fine settimana e nei giorni festivi. Quando un agente immobiliare arrivava in ufficio la mattina trovava il giro delle visite perfettamente organizzato, come se tanti piccoli elfi ci avessero dedicato la notte.

Dall’altra parte noi operatori, forti delle nostre lauree in discipline umanistiche, avevamo capacità che a Brenda mancavano. Eravamo intuitivi, ci esprimevamo con proprietà di linguaggio e facevamo caso alle sottigliezze. Soprattutto, a 25 dollari l’ora, non costavamo praticamente nulla, almeno per gli standard del settore. L’alleanza tra Brenda e l’operatore era un vantaggio per tutti: l’operatore era pagato meglio di un professore universitario precario, e Brenda diventava più simpatica, più convincente e più umana. Allo stesso tempo, le aziende erano contente di sapere che le loro linee telefoniche non erano state sostituite da un semplice bot per il customer service, ma da un’intelligenza artificiale all’avanguardia assistita da laureati.

Di solito un turno durava cinque ore con una pausa di dieci minuti, ma capitava spesso che gli operatori decidessero di fare il doppio turno, e quindi di lavorare per dieci ore con due pause di dieci minuti. Quando cominciavo il turno, mi collegavo a una centrale di controllo che sembrava una casella di posta elettronica in modalità notte. A sinistra c’era una colonna di nomi. Quando cliccavo su un nome compariva sullo schermo la storia di tutti i messaggi tra Brenda e il prospect.

Brenda cercava su ogni messaggio le parole chiave poi gli assegnava un tag, che a sua volta determinava la risposta da dare al cliente.

Per esempio, se Brenda leggeva la parola “cane” classificava il messaggio con il tag REGOLE_ANIMALI e scriveva un messaggio generico sulla cauzione da versare per gli animali. Una volta che Brenda aveva preparato la risposta, compariva un timer di tre minuti, trascorsi i quali il messaggio veniva inviato. Il mio lavoro era rileggere il testo e aggiungere eventuali modifiche prima dello scadere del tempo.

La selezionatrice mi aveva assicurato che ero stata scelta per le mie raffinate abilità linguistiche. In realtà, si trattava soprattutto di avere i riflessi pronti. Appena mi collegavo, i messaggi si accumulavano in tempo reale. Ogni nuovo messaggio era accompagnato da un bip (bip che, ho subito scoperto, era impossibile silenziare) e spesso la successione era talmente rapida che i bip cominciavano a rimbalzare uno sull’altro. Dovevo capire velocemente a quali messaggi dare la precedenza.

Nel frattempo ho fatto una specie di corso accelerato sul mercato degli affitti statunitense. Qualcuno chiedeva informazioni sui voucher per i sussidi per gli alloggi a Sacramento, un altro cercava un appartamento in un grattacielo a Baltimora, un altro ancora si era presentato all’appuntamento per vedere un appartamento a Detroit ma si era perso, e ora vagava per il condominio tempestando Brenda di messaggi. L’unico modo per tenere il passo dei messaggi era mantenere un livello di concentrazione intensissimo. Non ascoltavo niente e non sentivo niente, neanche i segnali del mio corpo. A volte mi sentivo stordita e mi accorgevo che non stavo respirando. Un operatore anziano controllava tutto il tempo le nostre statistiche, e se un messaggio restava senza risposta per più di qualche minuto ci arrivava una lavata di capo in pubblico su Slack.

Brenda era una conversatrice talmente spigliata che quasi tutti la scambiavano per una persona. Però, come tutte le intelligenze artificiali, aveva dei difetti

Ogni giorno, man mano che sprofondavo nel fiume di messaggi, i vecchi punti di riferimento passavano in secondo piano. Non ero più una persona ma un grande orecchio universale pronto a recepire le preoccupazioni e i dubbi di chi cercava un alloggio, un’esigenza ineluttabile che ognuno di noi, prima o poi, deve affrontare.

“Mi serve una casa”, scriveva una prospect. “In questo momento sono in vacanza. Sono russa e ho appena divorziato da mio marito statunitense. Ha cominciato a frequentare un’altra persona e quando torno voglio spostare immediatamente la mia roba”.

Brenda ha risposto così: “Abbiamo bilocali a partire da 1.484$. Vuole un appuntamento alle 13 martedì 11 gennaio?”.

Sul timer è partito il conto alla rovescia. Subito ho corretto il messaggio: “Mi dispiace! Riesce a venire a vedere l’immobile prima di traslocare? In caso contrario, controllo con i nostri agenti se è possibile organizzare un video tour. Abbiamo bilocali e trilocali a partire da 1.484$”.

I messaggi degni di nota erano pochi. Il più delle volte erano noiosi e banali, ma i piccoli squarci che si aprivano su altre realtà erano più interessanti e vitali di qualsiasi cosa mi fosse capitato di leggere nei laboratori di scrittura.

“Salve! Sono Brenda della Springwoods a Lake Ridge. A quale immobile è interessato?”.

“Sono interessata al monolocale con la torretta. Mi chiamo Candy”.

C’erano le solite lamentele sull’affitto, richieste accorate di clemenza, missive solitarie nel cuore della notte. Alcuni temi erano ricorrenti. Mi colpiva in particolare il numero delle madri che cercavano appartamenti per i figli adulti iscritti a un master o impegnati in un dottorato. Un’altra cosa che ho notato era il numero di prospect che scrivevano a Brenda dalle piattaforme petrolifere offshore. Riflettendoci, era logico: come avrebbe fatto altrimenti un operaio che viveva a duecento chilometri dalla terra­ferma a trovare una casa per quando sarebbe tornato? Ho cominciato a interessarmi anche agli animali con cui vivevano le persone.

“Vedo che ammettete cani e gatti”, ha scritto un prospect. “E i maialini vietnamiti?”.

“C’è accesso alla rimessa?”, chiedeva un altro. “Abbiamo delle anatre in cortile”.

“Potete fare un’eccezione per un furetto?”, chiedeva un altro.

“Ho un bassotto e un gatto”, scriveva un altro ancora.

Molti degli immobili di cui si occupava Brenda erano odiosamente simili: colossi squadrati e policromi situati vicino a snodi di transito e interamente composti di vetro e rivestimenti in vinile, con le facciate piatte come lo schermo di un iPhone. C’era un che di colpevolmente incurante in questi edifici. Sembravano non sapere in che città si trovavano. Era come se dicessero all’inquilino di non interessarsi alle particolarità della zona o all’idea di comunità. E di non desiderare una casa nel senso tradizionale del termine, con i suoi mobili vecchi, le ristrutturazioni fai da te e i ricordi che attraversano generazioni.

L’inquilino tipo era un affittuario a vita, che passava più tempo in ufficio che a casa e che non avrebbe mai potuto permettersi un immobile di proprietà. Poco male: il suo lavoro poteva sbatterlo un anno a Omaha e l’anno dopo a El Paso, ma avrebbe sempre trovato una casa fluida come internet, una casa che non era da qualche parte ma dappertutto, quindi da nessuna parte.

Prima di cominciare mi ero immaginata gli operatori come dei ventriloqui. Brenda avviava la conversazione e quando andava in difficoltà l’operatore parlava al suo posto. In realtà, mi è capitato raramente di sostituire Brenda. Quasi tutti i suoi passi falsi nascevano da errori di comprensione. Si fissava sulla parola chiave sbagliata e scriveva una risposta senza senso, oppure pensava di non sapere come rispondere quando in realtà aveva la risposta giusta a portata di mano. In queste situazioni, l’unica cosa che facevo era smanettare un po’ – bastavano un paio di clic – e Brenda proseguiva spedita. Altre volte, un prospect faceva domande in sequenza (Quanto costa l’affitto? E le utenze? Quando posso trasferirmi?) e Brenda preparava un’unica risposta che metteva insieme tante informazioni da sembrare ostile. In questi casi ammorbidivo l’enumerazione aggressiva dei fatti con interruzioni di riga e commenti spiritosi. Più che prendere il posto di Brenda tiravo i fili da dietro le quinte, spingendola da una parte o dall’altra. I nostri messaggi erano piccole collaborazioni. Eravamo una creatura a due teste: nessuna di noi due parlava per conto suo, ci passavamo le parole.

C’erano però delle volte in cui l’intervento umano diventava necessario. Quando Brenda non capiva un messaggio e si rendeva conto di non aver capito, lo classificava con il tag AIUTOUMANO, che era la bandiera bianca della resa. Scrivendo AIUTOUMANO, Brenda mi cedeva la conversazione e dovevo assumere il suo tono e i suoi modi.

Durante la formazione ci avevano insegnato come imitare Brenda. Era vispa e informale, ma sempre controllata e professionale. Era di sesso femminile e quasi certamente bianca, anche se nessuno ce lo aveva detto esplicitamente. Faceva commenti come “Mi sembra ottimo!”, “Perfetto!” e “Mi dispiace”, e riportava sempre la conversazione all’ambito immobiliare.

Francesca Ghermandi

Le situazioni che richiedevano l’AIUTO_UMANO potevano verificarsi in qualsiasi momento, ma di solito erano verso la fine di una conversazione, dopo che il prospect aveva prenotato l’appuntamento. Una volta registrata la prenotazione, Brenda inviava un messaggio in cui elencava i requisiti per l’affitto, che normalmente prevedevano un punteggio di affidabilità creditizia, nessun precedente penale, nessuno sfratto e un reddito pari a quaranta volte il canone mensile. “Va bene per lei?”, chiedeva. Sostanzialmente, era un modo per fare una scrematura preliminare degli inquilini.

Se il prospect diceva di sì, Brenda confermava l’appuntamento. Se diceva di no, lo cancellava subito. “Buona fortuna per la sua ricerca!”, diceva.

A Brenda serviva un sì o un no per continuare la conversazione, ma raramente riceveva una risposta così netta. Praticamente nessuno guadagnava quaranta volte l’affitto mensile. Una volta una supplente ha detto a Brenda che non poteva dichiarare il reddito richiesto perché altrimenti suo figlio, che aveva una disabilità, avrebbe perso il diritto al sostegno per le prestazioni previdenziali e sanitarie.

AIUTO_UMANO, ha scritto Brenda.

Un’altra volta un uomo di settant’anni ha scritto a Brenda che dieci anni prima sua moglie era morta per un danno cerebrale, le spese mediche lo avevano mandato in bancarotta ed era stato sfrattato. A distanza di anni aveva ancora problemi a ottenere il nulla osta per un appartamento.

AIUTO_UMANO, ha scritto Brenda.

Invariabilmente, la domanda di Brenda scatenava rivelazioni clamorose: “Va bene per lei?”.

“Oddio, no. Il mio fidanzato ha una denuncia per omicidio e io sono stata sfrattata una volta… Mi dispiace!”.

“Va bene per lei?”.

“In realtà… sono un agente di polizia ma ho un precedente per un reato minore, una stupidaggine. Comunque sono sempre un agente di polizia, è ok?”.

“Va bene per lei?”.

“Sì, ma per trasparenza vi dico che sono in causa con un altro condominio nella zona. C’è una sentenza farlocca secondo la quale dovrei pagare 5.000 dollari ma voglio farla annullare perché il condominio era sudicio e le condizioni di vita erano inaccettabili. Ho quasi cento foto che posso presentare come prova. Sarei felice di farvele vedere domani. È l’unica cosa negativa che troverete su di me. Non fraintendetemi; non sono il tipo che si lamenta; sono molto passivo. È che non mi piace quando mi dicono bugie, m’imbrogliano o mi fanno delle prepotenze. Hanno anche dato fuoco alla mia macchina”.

AIUTO_UMANO, ha scritto Brenda.

La triste verità era che noi operatori eravamo inutili tanto quanto Brenda. Non eravamo in grado di dire se un prospect aveva i requisiti per affittare un appartamento.

Non eravamo agenti immobiliari. Non abitavamo vicino agli immobili in questione né sapevamo che aspetto avessero al di là delle foto ritoccate sui siti delle agenzie. Quando si entrava nei dettagli non eravamo in grado di dire molto, e i dettagli, alla fine, sono la cosa che conta di più per i clienti. Moquette o parquet? Quale esposizione avevano le finestre? Ovviamente non ne avevamo idea, e neanche Brenda. Ma Brenda era sempre positiva e competente.

Non era autorizzata a dire “Non lo so”. In caso di dubbio, ci era stato consigliato di rigirare la domanda. “Perché non viene a visitare la casa per vedere se risponde alle sue esigenze?”, chiedevamo. Di solito la tattica funzionava, ma dopo un po’ sembrava una presa in giro.

Francesca Ghermandi

“Quanti anni hanno la cucina e i sanitari?”.

“Perché non viene a visitare la casa per vedere se risponde alle sue esigenze?”.

“L’appartamento è al piano terra? Ho una disabilità e non posso usare le scale”.

“Perché non viene a visitare la casa per vedere se risponde alle sue esigenze?”.

Naturalmente, alcuni prospect s’insospettivano. Quando un prospect chiedeva se stava parlando con un bot, non potevamo rispondere di sì. Era vietato anche dire “non sono un bot”, perché è esattamente quello che direbbe un bot. Quando qualcuno metteva in dubbio l’identità umana di Brenda, dovevamo dire “Sono vera!”.

“Sono vera!”, dicevo. E lo ero davvero: una donna di 29 anni nella sua vecchia cameretta, circondata dai ricordi del liceo. Mia madre si era intestardita a portarmi il pranzo o la cena mentre lavoravo, e per qualche motivo il fatto di essere vicina a Brenda aveva cambiato il suo modo di fare. Entrava in punta di piedi nella mia stanza con il piatto in mano e sussurrava cosa c’era dentro, ma io non la sentivo per via dei frenetici bip dei messaggi in entrata. “Non ti sente nessuno”, dicevo. “Ah!”, sussurrava, abbassando la testa. “Non ti vedono”, le dicevo, al che lei faceva dei segni con le mani, lasciava il piatto a terra e sgattaiolava fuori. Mentre lavoravo non riuscivo a mangiare, perciò m’ingozzavo durante i dieci minuti di pausa. “Può andare bene per lei?”, scrivevo. Poi mi portavo il computer in bagno e rispondevo ai messaggi seduta sulla tazza: “Perché non viene a visitare la casa per vedere se risponde alle sue esigenze?”.

Il tempo passava in modo scoordinato. Ogni secondo era un monolito. Ogni volta che guardavo l’orologio mi sembrava di essere in un eterno presente. Le ore, invece, erano sottili come carta igienica. Cominciavo un turno la mattina e poi, in un istante, mi ritrovavo a fine giornata, come se le ore fossero state sminuzzate con un paio di forbici. I giorni non erano organizzati in sequenza ma si confondevano in una specie di pozzanghera indistinta. “Sono una specialista di locazione immobiliare in remoto!”, scrivevo. “Le consiglio di visitare l’immobile per vedere se risponde alle sue esigenze”.

“Sareste interessati a formare un nuovo agente immobiliare che abiti in zona?”, ha scritto una volta un prospect. “Penso che sarebbe una buona opportunità per entrambi”.

Dopo qualche settimana nel New Jersey avevo i nervi a fior di pelle. Brenda mi aveva resa scorbutica e irascibile, e mi ero convinta che il mio cervello fosse in preda a chissà quale odioso processo neurologico. Girando per la casa, mi accorgevo di essere sempre sulla difensiva, come se dovessi guardarmi le spalle. Ho scoperto, inorridita, che il lessico di Brenda si stava insinuando nel mio. “Felice di essere d’aiuto!”, mi sentivo dire. “Va bene per te?”.

Quella versione di me non mi piaceva, quindi ho deciso di andare via di casa. Qualche mese prima era morta mia nonna, e i miei genitori dovevano occuparsi della sua casa in campagna nel Maine. Allora sono andata dai miei genitori e gli ho fatto una proposta: potevo trasferirmi io nel Maine durante l’estate per cominciare a mettere in ordine la casa. Sono partita una mattina di giugno e sono arrivata lì al calare della notte. Dopo una giornata di traffico e rumore, la quiete del bosco era stupefacente. Il cielo stellato era limpido e nero, incontaminato, il vialetto talmente buio che non si vedeva niente tranne un cerchio illuminato dalla luce della veranda. Ero da sola in un piccolo avamposto su un asteroide.

Ho capito che con Brenda preferivo i turni di notte e ho cominciato a fare solo quelli. Di notte le agenzie immobiliari erano chiuse. Non c’era nessuno che si perdeva tra gli appartamenti o mandava maniacalmente sms a Brenda lungo la strada. Le persone davano un’occhiata agli annunci prima di andare a letto e i messaggi che mandavano erano di tutt’altro tenore. Erano più strani, più tristi, tendenzialmente più intimi. Spesso richiedevano l’aiuto umano. All’inizio non m’importava. Quei messaggi erano un diversivo salutare dal solito copione noiosissimo.

“Ehi Brenda”, ha scritto una volta un prospect. “Scusa se non ti ho risposto. Sei stata così carina e disponibile, mi dispiace se sono stato stronzo. Non sono stato molto attivo con il trasloco perché insomma… è brutto traslocare da soli senza condividere l’emozione con qualcuno, capisci?”.

“Abbiamo monolocali e bilocali a partire da 1.645$”, ha scritto Brenda. “Vuole un appuntamento?”.

Ogni sera sembrava una seduta spiritica. Ho trovato una vecchia poltrona reclinabile nel fienile e mi sono messa a lavorare da lì. Il fienile era fresco e umido, molto meglio della casa, dove faceva caldissimo, e di notte sentivo un gufo tra gli alberi e gli scoiattoli che bisticciavano tra loro.

“Salve, mi chiamo Charmaine Banks… Non sto cercando un appartamento, in realtà sto cercando il mio padre biologico che si chiama Ernest Lockhart Shaw. Credo che abiti in uno dei vostri residence, forse l’appartamento #1421?? Mi chiedevo se potevate aiutarmi”.

Un altro prospect è spuntato dal nulla. “Chi sei?”, ha scritto.

“Mi chiamo Brenda, sono un’agente immobiliare della Springs a Kenosha. Sto rispondendo a una sua chiamata. A quale immobile è interessato?”.

“Sei disponibile a incontrarmi?

Possiamo vederci alla mia casa al mare.

Sono interessato a te Brenda, sono sposato perciò dobbiamo essere discreti”.

Per giorni ho chattato con centinaia di persone senza dire una parola. Di notte i messaggi a Brenda somigliavano al moto delle maree. C’erano periodi di silenzio interrotti qua e là da missive solitarie nel buio. Poi, improvvisamente, dalla centrale di controllo partiva una raffica di sms che prendevo in carico digitando continuamente sugli stessi tasti, come in trance.

I tormentoni ciclici di Brenda avevano su di me un effetto anestetizzante, quasi narcotico. Gli sviluppatori decantavano l’inesorabile coerenza della loro creatura. Brenda, sostenevano, dice le stesse cose a tutti, il che significa che è incapace di pregiudizi. In compenso, era bravissima a respingere certe tipologie di clienti: quelli che non avevano uno smartphone o una connessione internet stabile, quelli che non erano abituati a mandare messaggi, quelli che non sapevano leggere o scrivere in inglese e quelli che volevano sapere se potevano vedere un immobile prima di presentarsi all’appuntamento programmato. Brenda li sviava tutti con cortese violenza. Non era una portinaia ma una buttafuori, e i suoi modi gioviali e frizzanti la rendevano ancora più inquietante. Era una barriera talmente efficace che molti proprietari la usavano per evitare gli inquilini. Alcune agenzie non davano un numero di telefono per contattare l’amministratore. Lo sapevo perché Brenda riceveva in continuazione foto di muffa e pezzi d’intonaco caduti dal soffitto dai clienti che non sapevano a chi altro rivolgersi. AIUTO_UMANO, diceva Brenda, ma neanch’io potevo fare niente. “Sono una specialista immobiliare in remoto!”, scrivevo. “Le consiglio di chiamare il numero della manutenzione”.

“Questo è l’unico numero che mi hanno dato”, rispondeva inevitabilmente l’inquilino. Una volta, uno dei supervisori mi ha detto che in queste situazioni una buona tattica era appoggiarsi alle qualità robotiche di Brenda. Effettivamente, un po’ di ottusità strategica era di grande aiuto, e se l’inquilino ancora non mollava, cominciavo a ripetermi a ciclo continuo.

Alla fine, ho raggiunto un tale virtuosismo che riuscivo a svuotare la casella della posta in entrata senza fatica. Il lavoro ormai non c’entrava più niente con il linguaggio. Non leggevo più i messaggi una parola alla volta, ma li registravo come se il blocco di testo fosse un’immagine. I miei occhi si fissavano sulle parole cruciali – animali, affitto, utenze – e le mie mani battevano sui tasti come in una partitura musicale. Ho smesso di preoccuparmi del tono di Brenda. Mi sono accorta che quando Brenda rispondeva in modo strano o sgarbato, gli sms tendevano a diventare meno intimi, il che significava meno AIUTO_UMANO e meno fatica per me. Dopo mesi passati a impersonare Brenda, le mie risorse emotive si erano esaurite. Non mi deliziavo più a leggere messaggi sconclusionati e senza inibizioni, traboccanti d’emozione e tragedie umane. Volevo solo lasciar scivolare via il mio turno. Mi sono resa conto che non stavo addestrando Brenda a pensare come un’umana: era Brenda che mi stava addestrando a pensare come un bot. Forse l’obiettivo era sempre stato quello.

Nel Maine, il passaggio dall’estate all’autunno è repentino. Gli ultimi giorni di agosto di solito sono torridi, con il ronzio degli insetti e il fruscio dell’erba secca, poi una mattina ti svegli e il giardino è avvolto in una pallida foschia. Avevo fatto domanda alle case editrici di New York per tutta l’estate e nessuna mi aveva risposto, quindi ho allargato la ricerca a Filadelfia, poi a Boston e a Washington. A ottobre ho ricevuto la mia prima offerta di lavoro, un posto nell’amministrazione di un’università di Boston. Ho accettato e mi sono messa a cercare un appartamento.

Il mercato degli affitti di Boston era tragico. Era tutto fuori dal mio budget, perfino le stanze singole. Questo però era un problema secondario, perché non c’era neanche qualcuno che mi rispondesse. Con il primo giorno di lavoro che si avvicinava, ho prenotato un soggiorno di un mese su Airbnb.

Sono arrivata a Boston subito dopo Natale. Mi sono avvicinata a una casa buia alla fine dell’isolato, ho trovato la chiave in mezzo ai cespugli e sono entrata.

Salendo le scale per andare in camera da letto ho sentito un ronzio proveniente dall’alto. Ho alzato lo sguardo e ho visto una telecamera su un braccio meccanico che seguiva ogni mio movimento. Ho sbloccato il lucchetto della camera da letto e sono entrata. La stanza era poco più grande del letto. Non c’era l’armadio, ma la finestra dava su una terrazza: il proprietario, su Airbnb, mi aveva detto che potevo usarla come guardaroba. La terrazza era piena di giocattoli e mobili rotti. Ho tirato fuori i vestiti dalla valigia e li ho appesi lì.

La mattina dopo ho indossato un vestito che si era congelato durante la notte e sono andata al lavoro facendo tre chilometri a piedi.

Il giorno ero in ufficio e di notte lavoravo per Brenda. Alla fine sono riuscita a trovare un appartamento, un monolocale nel seminterrato, a 1.650 dollari al mese, a partire da febbraio. In realtà non me lo potevo permettere, e puzzava anche un po’ di umido. Ora che avevo un impiego a tempo pieno e relativo stipendio, non avevo più bisogno di lavorare per Brenda, quindi ho dato il preavviso. Avrei finito il 31 gennaio.

Il mio ultimo turno è stato misericordiosamente tranquillo. Quando è finito non ho dovuto nemmeno scollegarmi: il sistema mi ha buttata fuori e le mie credenziali sono state immediatamente disattivate. Il turbine di chiacchiere nel quale ero stata immersa per nove mesi è diventato un luogo inaccessibile. Sono rimasta stupita dall’improvvisa realtà della mia stanza. La luce fluorescente faceva brillare le finestre buie. Per riposarmi ho appoggiato la schiena contro la parete.

Era un nuovo anno. Sono andata a letto sentendomi vuota, con la mente piacevolmente sgombra, come non mi capitava da tempo. Le possibilità apparivano oltre i miei occhi chiusi: fresche, ariose, illi­mi­tate. ◆ fas

Laura Preston è una scrittrice statunitense. Vive a New York. Questo articolo è uscito sul trimestrale letterario statunitense N+1 con il titolo _HUMANFALLBACK.

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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati