Una delle domande che i futuri storici di Israele si faranno è cosa abbia spinto centinaia di migliaia di ebrei israeliani, soprattutto della classe media, a protestare contro le nuove norme sulla giustizia volute dal governo di estrema destra. Cosa li ha spinti a pensare che questa “riforma”, come la chiama il ministro della giustizia Yariv Levin, sia piuttosto un “colpo di stato” che minaccia direttamente la loro identità, la loro libertà e il loro stile di vita? Cosa li ha convinti a scendere in strada ogni giorno – perfino ogni ora, a volte con un preavviso di pochi minuti – per portare avanti una delle lotte più efficaci della storia di Israele?

La domanda è ancora più complessa perché è quasi impossibile indicare un singolo fattore, un partito o una personalità che guidi queste proteste decentrate. E anche se non mancano i finanziamenti – attraverso la racconta fondi e le donazioni – non sono i soldi a far scendere nelle strade centinaia di migliaia di persone in modo così spontaneo: i manifestanti sono certi di fare la cosa giusta.

Una protesta contro il governo a Tel Aviv, il 27 marzo 2023 (Amit Elkayam, The New York Times/Contrasto)

Nonostante la mancanza di una guida chiara e la loro provenienza relativamente eterogenea (anche all’interno delle classi medie e alte ci sono molte sfumature diverse, per età, lavoro, reddito, luogo di residenza e origine etnica), c’è un sentimento diffuso in modo abbastanza uniforme: questo governo vuole trasformare Israele in una dittatura, mentre noi vogliamo la democrazia. Il fatto che ci sia questo consenso in settori così ampi dell’opinione pubblica israeliana non può essere dato per scontato, anche se può sembrare incomprensibile per gli osservatori.

È vero che le misure promosse da Levin e Simcha Rothman – che sta facendo gli straordinari per far passare la riforma – avevano l’obiettivo di dare al governo un potere quasi senza freni. Ma non è una spiegazione sufficiente per quello che sta succedendo. Da anni la destra sta difendendo la sua causa contro la corte suprema e il sistema giudiziario israeliano. Inoltre, non tutti comprendono il significato di queste leggi, dalla “clausola di scavalcamento” alla nomina dei giudici.

Senso di minaccia

A costruire il consenso, quindi, è stato il governo stesso. Anche prima che Levin annunciasse la riforma, i componenti della coalizione hanno creato un’atmosfera da colpo di stato in divenire. Dalle minacce di cancellare il gay pride alle pene detentive per le donne vestite in modo inappropriato davanti al muro del pianto, dalla chiusura dell’emittente pubblica Kan alle leggi ad personam per consentire a esponenti della coalizione di rimanere in carica anche dopo aver violato la legge, ampi settori della popolazione laico-liberale sentivano che c’era un pericolo incombente.

Inoltre, la scelta di affidare l’Amministrazione civile, che governa la vita di milioni di palestinesi nella Cisgiordania occupata, al ministro delle finanze Bezalel Smotrich e la polizia al ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha sollevato preoccupazioni non solo tra i palestinesi e la sinistra ebraica, ma anche tra gli esponenti dell’apparato di sicurezza. La “riforma” di Levin e la brutalità con cui è stata imposta al parlamento, sono alla base della rivoluzione antidemocratica e antisecolare condotta dal governo.

Non è necessario andare molto indietro nel tempo per capire che alle origini delle fantasie di vendetta della destra c’è l’idea di aver subìto un torto. Il governo è composto da tre gruppi: quelli che si oppongono allo stato di diritto per motivi personali e criminali, come il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader ortodosso Aryeh Deri; i razzisti veri e propri che vogliono una seconda pulizia etnica di massa dei palestinesi, come Smotrich e Ben Gvir; e gli haredim (gli ebrei ultraortodossi) che vogliono mantenere ed espandere la loro autonomia finanziata dallo stato. Le differenze tra questi gruppi sono molte, ma a unirli è un’intesa di fondo non solo sull’essenza dello stato di Israele, che consiste nel concedere privilegi speciali agli ebrei, ma anche sull’avere la massima autorità per determinare chi può o non può essere considerato ebreo. I radicali di sinistra solidali con i palestinesi, i difensori dei valori liberali, le femministe, chi non consuma alimenti kosher (cioè conformi alle prescrizioni rituali) o le persone della comunità lgbt sono tutti considerati ostacoli alla piena realizzazione della supremazia ebraica tra il fiume Giordano e il mare.

Questi tre gruppi si sono avvicinati alle elezioni del 2019 sicuri di essere la maggioranza. Dal punto di vista demografico, sembra ragionevole: gli haredim, i nazional-religiosi e i mizrahim (ebrei immigrati in Israele da paesi arabi o musulmani) tradizionalisti dovrebbero avere abbastanza voti per assicurarsi 61 seggi al parlamento. Ma nelle ultime quattro elezioni la destra non è riuscita a raggiungere questa maggioranza, mentre i cittadini palestinesi, sempre politicamente emarginati, hanno cominciato a formare alleanze con i partiti ebraici di centrosinistra; il partito islamico Raam si è addirittura unito al “governo del cambiamento”, la coalizione che ha guidato il paese tra giugno 2021 e dicembre 2022. Smo­trich ha capito al volo questo pericolo. Come ha scritto in un post su Facebook due anni fa, se gli arabi entrano nel gioco politico da veri concorrenti, la destra rimarrà per sempre una minoranza.

Questa lotta per la “democrazia” non ha affrontato quasi per niente la questione dell’occupazione né il dominio oppressivo sui palestinesi

Essenzialmente c’è questo alla base del desiderio di rivincita dell’attuale coalizione, e della riforma di Levin: un tentativo di garantire che quello che è successo negli ultimi quattro cicli elettorali, dal 2019 al 2022, non si ripeta. In quest’ottica, bisogna assicurare il dominio della destra e farle realizzare il suo programma, cioè l’istituzione di un pieno apartheid in Cisgiordania, poi l’espulsione dei partiti arabi dal parlamento e infine la soppressione del potere laico-liberale nella società ebraica israeliana. Per ottenere tutto questo, la corte suprema deve essere neutralizzata. In altre parole, la coalizione di destra ha deciso di contrapporre ufficialmente “ebraico” a “democratico”, privilegiando il primo. Se lo stato è anche democratico va bene, ma non è certo necessario.

Questo ha spaventato molti ebrei israeliani. E ha ispirato lo slogan “democrazia”, portandolo al centro delle proteste. L’idea di “democrazia” può essere piuttosto confusa. Nel nostro caso, il termine esprime il punto di vista di chi si oppone al golpe perché darebbe allo “stato” – cioè all’attuale governo – troppo potere a spese della classe dirigente israeliana.

Questa preoccupazione era e resta molto forte nelle manifestazioni. E si riflette nella decisione della presidente della corte suprema Esther Hayut e del procuratore generale Gali Baharav-Miara di opporsi alle riforme; nella partecipazione del settore dell’alta tecnologia alle proteste; e negli avvertimenti delle élite economiche su come il colpo di stato distruggerà l’economia israeliana. Si rispecchia anche nella protesta dei riservisti, ovviamente. La scintilla che ha acceso la forte e spontanea protesta del 26 marzo è stata la destituzione del ministro della difesa Yoav Gallant, fedele ai vertici militari nettamente contrari alla riforma e accusato di proteggere migliaia di persone – tra cui i piloti – che hanno detto di “rifiutarsi di prestare servizio sotto una dittatura”.

La mobilitazione ha seguito una dinamica tutta sua. È cresciuta e si è diffusa a una velocità che nessuno aveva previsto, trasmettendo un senso di opportunità a una parte della popolazione che per anni si era sentita politicamente irrilevante e aveva avvertito una sorta di “esilio interno”, come ha detto lo scrittore David Grossman in un discorso a una delle prime manifestazioni. Inoltre, è stata una grande lezione di cittadinanza attiva per centinaia di migliaia di persone. Nei bar e per le strade, la gente ha cominciato a parlare della “tirannia della maggioranza” e dei diritti delle minoranze.

La generazione sbagliata

Le proteste hanno anche portato molti a concludere che il processo per corruzione di Netanyahu non è l’unico problema: la destra, che considera l’uguaglianza pericolosa e sovversiva, deve essere contrastata. Non è un caso se il grido di battaglia più popolare dei manifestanti che hanno occupato l’autostrada Ayalon alla fine di marzo è stato: “Senza uguaglianza, bloccheremo Ayalon! Vi siete imbattuti nella generazione sbagliata!”.

Questo sviluppo ha chiarito che le manifestazioni, nelle ultime settimane, non erano solo contro la riforma della giustizia, “congelata” da Netanyahu il 27 marzo. Molti manifestanti ora chiedono una costituzione scritta e l’approvazione di una legge fondamentale che protegga i diritti civili. La traduzione più coerente di questa esigenza è la proposta pubblicata dal presidente Isaac Herzog che include la richiesta di “sancire il diritto all’uguaglianza, il divieto di discriminazione e le libertà di espressione, opinione, protesta e riunione nella legge fondamentale Dignità umana e libertà”, un passo che Israele non è mai stato in grado di fare perché troppo impegnato a difendere la supremazia ebraica e perché gli haredim temevano di perdere, con l’uguaglianza, il loro status unico nella politica israeliana.

Shikma Bressler, una delle figure più importanti del movimento, ha espresso i caratteri della protesta e il suo potenziale in un’intervista pubblicata su Haaretz il 17 marzo: “C’è uno schieramento democratico, che crede nella libertà e nei diritti civili e sostiene l’uguaglianza. Di fronte c’è quello che sostiene la sua supremazia assoluta sugli altri: solo con i suoi sostenitori, contro tutti. Possiamo chiamarlo il fronte della supremazia ebraica. Questi sono gli schieramenti e ogni altra divisione è senza senso”. In altre parole Bressler, che ha detto di non essere di sinistra, descrive la “supremazia ebraica” – fino a poco tempo fa citata solo dalla sinistra radicale – come un nemico.

Netanyahu, nel frattempo, cerca di guadagnare tempo, promettendo che il colpo di stato è solo “sospeso” e che riprenderà dopo il giorno dell’indipendenza, il 25 aprile. La probabilità che possa riuscirci non è molto alta, ma è chiaro che, nella prima battaglia tra il governo di estrema destra e la protesta civile, la seconda ha ottenuto una vittoria schiacciante. La domanda, però, è: cosa succederà quando il golpe giudiziario finalmente si sgretolerà? O, forse più precisamente: la vittoria sarà la semplice cancellazione della riforma Levin o qualcosa di molto di più?

Da sapere
La mobilitazione

4 gennaio 2023 Il ministro della giustizia Yariv Levin presenta una riforma che ha l’obiettivo di indebolire la corte suprema, dando al parlamento il potere di controllo sulla magistratura.

7 gennaio A Tel Aviv migliaia di persone manifestano contro la riforma. Le proteste si ripeteranno ogni settimana.

21 febbraio Il parlamento approva in prima lettura due testi che fanno parte della riforma della giustizia. La seconda e terza lettura sono previste entro la fine di marzo.

26 marzo Migliaia di persone partecipano a una manifestazione di protesta a Tel Aviv dopo che il premier Benjamin Netanyahu ha destituito il ministro della difesa Yoav Gallant, contrario alla riforma. Ci sono scontri tra manifestanti e polizia.

27 marzo Netanyahu annuncia la sospensione temporanea della riforma fino all’apertura della sessione estiva del parlamento, alla fine di aprile. Haaretz


Una possibilità è che tutto torni al punto di partenza: i piloti riprenderanno a bombardare Gaza, i ricchi riprenderanno le loro posizioni e la corte suprema continuerà a non rappresentare una parte della popolazione di Israele: i palestinesi, i mizrahim, gli etiopi eccetera.

Ma c’è un’altra possibilità, una speranza, cioè che le centinaia di migliaia di persone che si sono riversate nelle strade abbiano imparato un nuovo linguaggio. Forse non sono pronte a tornare alla situazione precedente al 4 gennaio 2023, quando Levin ha annunciato la riforma. Per tre mesi hanno cantato “democrazia o rivolta” e non sembrano disposte a fermarsi solo perché Netanyahu sta cercando di estrarre altri conigli dal cappello. Potrebbero unirsi al progetto di creare una vera “democrazia”, diventando agenti di democratizzazione. Le richieste di una costituzione scritta o di leggi fondamentali significative possono essere usate come base per il cambiamento. È difficile immaginare un leader del centrosinistra che torna al potere e ignora le richieste di uguaglianza e diritti civili, contenute anche nella proposta di Herzog.

L’elefante nella stanza

Bisogna dirlo apertamente: questa lotta per la “democrazia” non ha affrontato quasi per niente la questione dell’occupazione né il dominio oppressivo sui palestinesi. Dico “quasi”, perché chiunque si sia unito alle proteste ha visto cambiare le cose con il passare delle settimane. Quando le manifestazioni sono cominciate, c’era ostilità e perfino violenza verso chi portava le bandiere palestinesi. Ma poi la risposta dei manifestanti è diventata molto più tollerante, anche solidale. L’incursione di centinaia di coloni israeliani il 26 febbraio ad Hawara e le mostruose dichiarazioni di Smotrich, che chiedeva di spazzare via la città palestinese, hanno stabilito un collegamento diretto tra i coloni della Cis­giordania e i responsabili del colpo di stato. Alcuni riservisti hanno detto che i fatti di Hawara sono il motivo per cui hanno rifiutato di tornare in servizio. Trasformare questo rifiuto in uno strumento politico legittimo può anche segnare un cambiamento nella lotta contro l’occupazione.

Chiunque cerchi di rendere Israele “democratico” invece di “ebraico”, di scrivere una costituzione o sancire l’uguaglianza nelle leggi fondamentali si scontrerà presto con l’enorme elefante nella stanza: i diritti e i privilegi riservati agli ebrei, e il regime di occupazione e apartheid imposto ai palestinesi. Siamo ancora lontani da una piena democrazia. Ma in questi giorni dovremmo concederci un po’ di ottimismo. La destra razzista, nella sua arroganza, ha mobilitato forze che nessuno – nemmeno il centro e la sinistra – sapeva esistessero. Il fallimento della destra dà a questa opposizione la possibilità di chiedere un cambiamento fondamentale, un cambiamento che Israele non vede dal 1948. ◆ dl

Meron Rapoport è un giornalista e scrittore israeliano. Lavora per Local Call (Sikha Mekomit) un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazone, e che spesso condivide gli articoli con il sito +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese.

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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati