La mia giornata cominciava con una bella tazza di caffè, seguita da diversi bicchieri di tè verde e l’occasionale cappuccino dopo pranzo, poi improvvisamente ho rinunciato alla caffeina. Non che avessi così tanta voglia di farlo, ma ero arrivato con riluttanza a questa conclusione mentre scrivevo un articolo. Molti degli esperti che stavo contattando mi dicevano che non avrei potuto capire il ruolo svolto dalla caffeina nella mia vita – il suo potere invisibile ma pervasivo – se non avessi smesso, almeno per un po’. Tra loro c’era Roland Griffiths, uno dei maggiori esperti al mondo di sostanze che alterano l’umore, nonché principale responsabile della diagnosi di “astinenza da caffeina” inclusa nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm-5), testo di riferimento per le diagnosi psichiatriche. Griffiths mi raccontava di aver capito il suo rapporto con la caffeina solo quando aveva smesso di usarla e aveva fatto una serie di esperimenti su se stesso, esortandomi a fare lo stesso.

Giornata nera

Per la maggior parte delle persone è assolutamente normale assumere caffeina. Circa il 90 per cento degli esseri umani la consuma regolarmente, il che la rende la sostanza psicoattiva più usata al mondo e l’unica che diamo abitualmente ai bambini (di solito sotto forma di bevande gassate). Pochi di noi la considerano una droga, e tanto meno considerano l’uso quotidiano che ne facciamo una dipendenza. La caffeina è così onnipresente da farci dimenticare che essere sotto l’effetto della caffeina non è una condizione normale ma, in realtà, uno stato alterato. È uno stato che praticamente condividiamo tutti, e questo lo rende invisibile.

Dopo alcune settimane i disturbi causati dall’astinenza si sono attenuati

Gli scienziati hanno spiegato, e io li ho sperimentati direttamente, i possibili sintomi dell’astinenza da caffeina: mal di testa, affaticamento, letargia, difficoltà di concentrazione, calo della motivazione, irritabilità, intenso disagio, perdita di fiducia e disforia. Ma sotto la voce apparentemente innocua di “difficoltà di concentrazione” si nasconde una minaccia esistenziale per il lavoro dello scrittore. Come puoi aspettarti di scrivere qualcosa se non riesci a concentrarti?

L’ho rimandata il più a lungo possibile, ma alla fine la giornata nera è arrivata. Secondo i ricercatori che ho intervistato, il processo di astinenza era cominciato in realtà durante la notte, mentre dormivo, nel punto più “basso” del grafico degli effetti diurni della caffeina. La prima tazza di tè o caffè del mattino deve la maggior parte del suo potere – e della gioia che ci procura – non tanto alle sue proprietà euforiche e stimolanti ma al fatto che placa i sintomi emergenti dell’astinenza. Questo fa parte dell’insidiosità della caffeina. Il suo meccanismo d’azione, o “farmacodinamica”, si sposa così perfettamente con i ritmi del corpo umano che la tazza di caffè del mattino arriva appena in tempo per scongiurare l’incombente disagio mentale messo in moto dalla tazza di caffè del giorno precedente. La caffeina si propone quotidianamente come la soluzione ottimale al problema creato dalla caffeina stessa.

Al bar, invece del mio solito caffè, ho ordinato un infuso alla menta. E quella mattina, la bella dispersione della nebbia mentale che la prima dose di caffeina introduce nella coscienza non è arrivata. La nebbia si è posata su di me e non si è più mossa.

Non che mi sentissi male – non ho avuto un forte mal di testa – ma per tutto il giorno ho sentito un certo torpore, come se tra me e la realtà fosse calato un velo, una specie di filtro che assorbiva certe lunghezze d’onda di luce e di suono.

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Potevo lavorare, ma distrattamente. “Mi sento come una matita non temperata”, ho scritto nel mio taccuino. “Cose che sono alla periferia della mia mente s’intromettono in quello che sto facendo e non posso ignorarle. Non riesco a concentrarmi per più di un minuto”.

Nei giorni successivi ho cominciato a sentirmi meglio, il velo si è sollevato, ma non ero ancora del tutto me stesso. Mi sentivo più opaco. La mattina era il momento peggiore. Ho capito quanto la caffeina contribuisce a rimetterci in sesto dopo lo sfilacciamento della coscienza durante il sonno. Il riassestamento ha richiesto molto più tempo del solito e non mi è mai sembrato del tutto completo.

Il rapporto dell’umanità con la caffeina è sorprendentemente recente. Ma non è esagerato affermare che questa molecola ha cambiato il mondo. Le trasformazioni causate dal caffè e dal tè sono avvenute a un livello profondo, quello della mente umana. Caffè e tè hanno introdotto una modifica della condizione mentale, affinando le menti che erano state annebbiate dall’alcol, liberando le persone dai ritmi naturali del corpo e del sole, rendendo possibili nuovi tipi di lavoro e, probabilmente, anche nuovi tipi di pensiero.

Nel quattrocento il caffè veniva coltivato nell’Africa orientale ed era venduto in tutta la penisola arabica. Inizialmente la nuova bevanda era considerata un aiuto per la concentrazione e fu usata dai sufi dello Yemen per non appisolarsi durante le funzioni religiose (il tè, allo stesso modo, cominciò a diffondersi tra i monaci buddisti che si sforzavano di rimanere svegli durante i lunghi periodi di meditazione). Nel giro di un secolo, spuntarono caffetterie nelle città di tutto il mondo arabo. Nel 1570 ce n’erano più di seicento solo a Costantinopoli, e durante l’impero ottomano si diffusero a nord e a ovest.

In quel periodo il mondo islamico era per molti aspetti più avanzato dell’Europa a livello scientifico, tecnologico e culturale. È difficile dimostrare che quella prosperità avesse qualcosa a che fare con la diffusione del caffè (e con la proibizione dell’alcol). Ma, come ha sostenuto lo storico tedesco Wolfgang Schivelbusch, la bevanda “sembrava fatta su misura per una cultura che proibiva il consumo di alcol e aveva creato la matematica moderna”.

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Nel 1629 nacquero a Venezia i caffè europei, in stile arabo e turco; in Inghilterra il primo locale fu aperto a Oxford nel 1650 da un immigrato ebreo. Poco dopo le caffetterie arrivarono a Londra e si diffusero dovunque. Nel giro di qualche decennio, a Londra ce n’erano migliaia, una ogni duecento londinesi.

Definire quei luoghi un nuovo tipo di spazio pubblico è riduttivo. Una tazza costava un penny, ma le informazioni – sotto forma di giornali, libri, riviste e conversazioni – erano gratuite (per questo le caffetterie venivano chiamate “università da un penny”). Dopo aver visitato le caffetterie di Londra, lo scrittore francese Maximilien Misson disse: “Lì trovi ogni genere di notizie; puoi stare seduto finché vuoi vicino a un bel camino, bere una tazza di caffè; incontrare i tuoi amici e occuparti dei tuoi affari. Tutto per un penny”.

I caffè londinesi si distinguevano tra loro per gli interessi professionali o intellettuali dei loro clienti, e questo gli conferiva un’identità istituzionale specifica. Così, per esempio, i mercanti e quelli che lavoravano nelle spedizioni si riunivano alla Lloyd’s Coffee House. Lì potevi sapere quali navi erano in arrivo e in partenza e comprare una polizza assicurativa per il tuo carico. Alla fine la Lloyd’s Coffee House diventò la società di assicurazioni Lloyd’s di Londra. Persone di cultura e scienziati si riunivano alla Grecian, che cominciò a essere strettamente associata alla Royal Society; Isaac Newton ed Edmond Halley discutevano di fisica e matematica lì, e sembra che una volta sezionarono anche un delfino.

Nei caffè londinesi si parlava spesso di politica, e questo faceva infuriare il governo, soprattutto dopo la restaurazione della monarchia del 1660. Carlo II, preoccupato da possibili complotti, vedeva in quei luoghi dei pericolosi focolai di ribellione che la corona doveva eliminare. Nel 1675 decise di chiudere i caffè, perché diffondevano “resoconti falsi, maliziosi e scandalosi” che disturbavano “la quiete e la pace del regno”. Come tante altre sostanze che modificano le qualità della coscienza negli individui, la caffeina fu ritenuta una minaccia al potere, che decise di vietarne l’uso: un presagio delle future guerre contro le droghe.

Ma l’offensiva del re contro i caffè durò solo undici giorni. Carlo II si rese conto che a quel punto non si poteva più tornare indietro. Le caffetterie erano così integrate nella cultura inglese, e così tanti eminenti londinesi erano dipendenti dalla caffeina, che tutti semplicemente ignorarono l’ordine del re e continuarono allegramente a bere caffè. Temendo di mettere alla prova la sua autorità e scoprire di non averla, il re fece marcia indietro: pubblicò un secondo proclama che annullava il primo “per condiscendenza principesca e compassione regale”.

Difficilmente il tipo di fermento politico, culturale e intellettuale che ribolliva nei caffè di Francia e Inghilterra nel seicento si sarebbe mai sviluppato in una taverna. Il tipo di pensiero magico che l’alcol provocava nella mente medievale cominciò a cedere il passo a un nuovo spirito razionale e, poco dopo, al pensiero illuminista. Lo storico francese Jules Michelet scriveva: “Il caffè, la bevanda sobria, il potente nutrimento del cervello, che a differenza di altri spiriti, accresce la purezza e la lucidità; il caffè, che dirada le nuvole dell’immaginazione e il loro cupo peso, che illumina improvvisamente la realtà delle cose con il lampo della verità”.

Vedere lucidamente “la realtà delle cose”: era, in estrema sintesi, il progetto razionalista. E il caffè diventò, insieme al microscopio, al telescopio e alla penna, uno dei suoi strumenti indispensabili.

Più veloce, meno intelligente

Dopo alcune settimane, i fastidi mentali provocati dall’astinenza si sono attenuati e sono riuscito di nuovo a seguire un pensiero, trattenere in mente un concetto astratto per più di due minuti ed escludere i pensieri periferici. Eppure continuavo a sentirmi mentalmente rallentato, soprattutto quando ero in compagnia di bevitori di caffè e tè. Mi mancava il modo in cui la caffeina e i suoi rituali scandivano la mia giornata, soprattutto al mattino. Le tisane – che sono a malapena, e in alcuni casi non lo sono affatto, psicoattive – non hanno il potere del caffè e del tè di organizzare la giornata in alti e bassi energetici, dovuti alla marea mentale della caffeina che scorre e rifluisce. L’ondata mattutina è una benedizione, ovviamente, ma c’è anche qualcosa di confortante nella bassa marea del pomeriggio, che una tazza di tè può delicatamente invertire.

A un certo punto ho cominciato a chiedermi se la sensazione di aver perso il mio ritmo mentale non fosse tutta nella mia testa. Quindi mi sono rivolto alla scienza, per capire se la caffeina può effettivamente produrre un potenziamento cognitivo. Ho trovato molti studi secondo cui la caffeina migliora una serie di capacità cognitive: memoria, concentrazione, prontezza, vigilanza, attenzione e apprendimento. Un esperimento fatto negli anni trenta rilevava che le prestazioni dei giocatori di scacchi che assumevano caffeina erano significativamente migliori di quelle dei giocatori che non lo facevano. Da un altro studio risultava che i consumatori di caffeina eseguivano una serie di compiti mentali più rapidamente, anche se commettevano più errori, tanto che un giornale scrisse che chi assume caffeina è “più veloce ma non più intelligente”. In un esperimento del 2014, i volontari che avevano assunto caffeina subito dopo aver appreso qualcosa di nuovo lo ricordavano meglio di quelli che avevano ricevuto un placebo. Anche i test delle capacità psicomotorie suggeriscono che la caffeina dia una marcia in più, che negli esercizi di guida simulata migliori le prestazioni, soprattutto nelle persone stanche, e aumenti il rendimento fisico nelle prove a tempo, di forza muscolare e di resistenza. Bisogna prendere queste scoperte con cautela, se non altro perché è difficile fare bene questo tipo di studi. Il problema è trovare un buon gruppo di controllo in una società in cui praticamente tutti sono dipendenti dalla caffeina. Ma la maggior parte degli studiosi è convinta che la caffeina migliori in una certa misura le prestazioni mentali (e fisiche).

Tutt’altra questione è capire se la caffeina incentivi la creatività. Ci sono ragioni per dubitare che lo faccia. La caffeina migliora la nostra capacità di concentrazione, che a sua volta facilita il pensiero lineare e astratto, ma la creatività funziona in modo molto diverso. Può dipendere dalla perdita di un certo tipo di concentrazione e dalla possibilità di liberare la mente dal guinzaglio del pensiero lineare.

Gli psicologi cognitivi a volte distinguono tra due tipi di coscienza: la coscienza “faro”, che illumina un singolo punto focale dell’attenzione, utile per il ragionamento, e la coscienza “lanterna”, in cui l’attenzione è meno focalizzata ma ha un campo di azione più ampio. I bambini piccoli tendono ad avere la coscienza lanterna, come molte persone che fanno uso di sostanze psichedeliche. Questa forma più diffusa di attenzione si presta al vagabondare della mente, alla libera associazione e alla creazione di nuove connessioni, tutte cose che possono nutrire la creatività. Ma il grande contributo della caffeina al progresso umano è stato intensificare la coscienza del primo tipo: l’elaborazione cognitiva focalizzata, lineare, astratta ed efficiente, più strettamente associata al lavoro mentale che al gioco. Questo, più di ogni altra cosa, è ciò che ha reso la caffeina la droga perfetta non solo per l’età della ragione e dell’illuminismo ma anche per l’ascesa del capitalismo.

La capacità della caffeina di tenerci svegli e vigili, di arginare la marea naturale della stanchezza ci ha liberato dai ritmi circadiani della nostra biologia e, insieme all’avvento della luce artificiale, ha aperto le frontiere della notte alle possibilità di lavoro.

Ridotti alla servitù

Quello che il caffè faceva per gli impiegati e gli intellettuali, il tè lo avrebbe fatto presto per la classe operaia britannica. Fu il tè proveniente delle Indie Orientali – fortemente addolcito con lo zucchero delle Indie Occidentali – ad alimentare la rivoluzione industriale. In genere associamo al Regno Unito una cultura del tè, ma all’inizio era molto più diffuso il caffè, bevanda di gran lunga più economica.

Poco dopo che la British East India Company cominciò a commerciare con la Cina, il tè a buon mercato inondò il paese. Una bevanda che nel settecento potevano permettersi solo i benestanti, nell’ottocento veniva consumata da tutti, dalle donne dell’alta società come dagli operai.

Per soddisfare questa domanda era necessaria un’impresa imperialistica di enorme portata e brutalità, soprattutto dopo che i britannici decisero che sarebbe stato più redditizio trasformare l’India, che era già una loro colonia, in un paese produttore di tè, invece di comprare le foglie dai cinesi. Per questo fu necessario prima rubare i segreti della produzione del tè ai cinesi (missione compiuta dal famoso botanico ed esploratore scozzese Robert Fortune, travestito da mandarino); sottrarre terre ai contadini dell’Assam (dove il tè cresceva spontaneamente), e poi ridurre i contadini in servi che raccoglievano foglie di tè dall’alba al tramonto. L’introduzione del tè in occidente fu una storia di sfruttamento: produzione di plus­valore dal lavoro, non solo nella coltivazione della pianta in India ma nel consumo della bevanda nel Regno Unito.

Il tè permetteva alla classe operaia britannica di sopportare i lunghi turni, le condizioni di lavoro inumane e la fame più o meno costante. La caffeina aiutava a calmare il bisogno di mangiare e lo zucchero diventava una fonte fondamentale di calorie (da un punto di vista strettamente nutrizionale, i lavoratori avrebbero fatto meglio a continuare a bere birra). La caffeina nel tè contribuì a creare un nuovo tipo di lavoratore, più adatto alle macchine. È difficile immaginare una rivoluzione industriale senza caffeina. Quindi in che modo esattamente il caffè, e la caffeina in generale, ci rendono più energici, efficienti e più veloci? Come può questa piccola molecola fornire energia al corpo umano, senza aggiungere calorie? La caffeina potrebbe essere il proverbiale pasto gratis, ma bisogna chiedersi se in qualche modo paghiamo un prezzo per l’energia mentale e fisica – la prontezza, la concentrazione e la resistenza – che ci dà.

Da sapere
Chi beve più caffè
I paesi dove si fa più uso di caffè. Consumo pro capite, chilogrammi, 2020 (fonte: statista)

Il pasto gratis purtroppo non esiste. Si è scoperto che la caffeina sembra solo darci energia. Agisce bloccando l’azione dell’adenosina, una molecola che si accumula gradualmente nel cervello nel corso della giornata, preparando l’organismo al riposo. Le molecole di caffeina impediscono all’adenosina di svolgere il suo ruolo e ci tengono vigili. Ma i livelli di adenosina continuano a salire, così quando la caffeina viene infine metabolizzata, l’adenosina inonda i recettori del corpo e la stanchezza ritorna. Quindi l’energia che la caffeina ci dà è solo presa in prestito, e alla fine il debito deve essere ripagato.

Da quando le persone bevono caffè e tè, le autorità sanitarie ci mettono in guardia dai pericoli della caffeina. Ma finora la molecola è stata assolta dalle accuse più gravi. Attualmente nel mondo scientifico prevale un’idea rassicurante: gli studi fanno pensare che caffè e tè possano portare alcuni importanti benefici, purché non siano consumati in modo eccessivo. Il consumo regolare di caffè è associato a un ridotto rischio di contrarre diversi tipi di cancro (tra cui quelli al seno, alla prostata, al colon-retto e all’endometrio), malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, parkinson, demenza e forse anche depressione e tendenze suicide (anche se dosi elevate possono produrre nervosismo e ansia, e tra coloro che ne bevono otto o più tazze al giorno il tasso di suicidio aumenta).

Dopo aver scorso la letteratura medica su caffè e tè mi sono chiesto se il mio astenermi dalla caffeina potesse compromettere non solo le mie funzioni mentali ma anche la mia salute fisica. Ma questo è stato prima che parlassi con Matthew Walker, un neuroscienziato inglese dell’università della California a Berkeley. Walker, che ha scritto Perché dormiamo (Espress edizioni 2019), ha una missione ed è determinato a portarla a termine: avvertire il mondo che siamo nel bel mezzo di una crisi invisibile della salute pubblica, dovuta al fatto che dormiamo poco e male, e che la principale responsabile di questo crimine contro il corpo e la mente è la caffeina.

La caffeina in sé potrebbe non essere un male per noi, ma il sonno che ci ruba ha un prezzo. Secondo Walker, dalle ricerche è emerso che un sonno insufficiente può essere un fattore chiave per lo sviluppo del morbo di Alzheimer, dell’arteriosclerosi, dell’ictus, dell’insufficienza cardiaca, della depressione, dell’ansia, delle manie suicide e dell’obesità. “Meno dormiamo”, conclude senza mezzi termini, “meno durerà la nostra vita”.

Da sapere
Sostanza stimolante

◆ La caffeina è una sostanza naturale che si ricava trattando le piante di caffè, cacao, tè, guaraná e mate. Dal punto di vista chimico è identica alla teina. La differenza tra i nomi è dovuta al fatto che la sostanza è stata individuata in due momenti differenti, la prima volta nell’ottocento a partire dai chicchi di caffè, la seconda più tardi nelle foglie di tè. La caffeina si lega ad alcuni recettori delle membrane cellulari, inducendo un incremento dei livelli di adrenalina e di noradrenalina, stimolando così il sistema nervoso simpatico e provocando un aumento del battito cardiaco e dell’afflusso di sangue ai muscoli. La principale differenza tra la caffeina contenuta nel tè e quella del caffè riguarda la durata del suo effetto stimolante: nel tè agisce lentamente per un periodo di tempo prolungato, grazie alla presenza di altre sostanze che rallentano l’assorbimento, mentre nel caffè fornisce una scarica immediata di energia.


Sonno scadente

Walker è cresciuto in Inghilterra bevendo abbondanti quantità di tè nero, mattina, pomeriggio e sera. Oggi non consuma più caffeina, a parte la piccola quantità contenuta nell’occasionale tazza di decaffeinato. In effetti, nessuno dei ricercatori sul sonno e degli esperti di ritmi circadiani che ho intervistato fa uso di caffeina.

Walker mi ha spiegato che per la maggior parte delle persone l’effetto della caffeina dura di solito circa dodici ore. Questo significa che il 25 per cento di quella contenuta in una tazza di caffè consumata alle due di pomeriggio circola ancora nel cervello quando andiamo a letto a mezzanotte. Potrebbe essere abbastanza per rovinare completamente il sonno profondo.

Prima d’incontrare Walker mi consideravo una persona che dormiva abbastanza bene. Ma mentre eravamo a pranzo il neuroscienziato ha indagato sulle mie abitudini di sonno. Gli ho detto che di solito dormivo sette ore, mi addormentavo facilmente, sognavo quasi tutte le notti.

“Quante volte ti svegli?”, mi ha chiesto. Gli ho risposto tre o quattro volte a notte, ma quasi sempre mi riaddormentavo subito. Ha annuito con aria grave. “Non vanno affatto bene tutte quelle interruzioni. La qualità del sonno è importante quanto la sua quantità”. Le interruzioni stavano rovinando la quantità di sonno “profondo” o “a onde lente”, qualcosa al di sopra e al di là del sonno rem che avevo sempre pensato fosse la misura di un buon riposo notturno. Sembra invece che il sonno profondo sia altrettanto importante per la nostra salute, e la sua quantità tende a diminuire con l’età.

La caffeina non è l’unica causa dei nostri problemi di sonno. Stare davanti allo schermo, consumare alcol (che è dannoso per il sonno rem quanto la caffeina lo è per il sonno profondo), prendere farmaci, fare lunghi turni di lavoro, essere sottoposti a inquinamento acustico e luminoso: tutti questi fattori contribuiscono a ridurre sia la durata sia la qualità del sonno. Ma nella caffeina c’è qualcosa di particolarmente insidioso: oltre a essere una delle ragioni principali della nostra privazione del sonno, è anche il mezzo principale a cui ci affidiamo per porre rimedio al problema. La maggior parte della caffeina consumata oggi serve per compensare il sonno scadente causato proprio dalla caffeina, il che significa che la caffeina aiuta a nascondere alla nostra coscienza il problema che crea.

È arrivato il momento di concludere il mio esperimento sulla privazione della caffeina. Ero ansioso di vedere cosa avreb­be provato un corpo che non riceveva caffeina da tre mesi con un paio di dosi di caffè espresso. Avevo pensato a lungo e intensamente a che tipo di caffè avrei preso e dove. Ho optato per uno “speciale”, termine che la caffetteria vicino a casa usa per un espresso doppio con meno latte di quello che c’è in un classico cappuccino.

Il mio speciale era incredibilmente buono, un vivace promemoria di quanto sia insoddisfacente il decaffeinato che lo imita; c’erano intere dimensioni e profondità di sapore che avevo completamente dimenticato. Tutto nel mio campo visivo sembrava piacevolmente in corsivo, filmico, e mi chiedevo se tutte quelle persone con i bicchieri di cartone in mano avessero idea di quale potente droga stavano sorseggiando. Ma come potevano? Erano abituate alla caffeina e ora la usavano per un altro scopo: manutenzione ordinaria, più una piacevole scossa. Mi sono sentito fortunato di poter fare quell’esperienza più potente. Questo, insieme ai sonni stellari, è stato il meraviglioso profitto del mio investimento sull’astensione.

Eppure nel giro di pochi giorni sarei stato come loro, tollerante alla caffeina e di nuovo dipendente. Mi chiedevo se c’era un modo per preservare il potere di quella sostanza. Avrei potuto escogitare un nuovo rapporto con la caffeina? Forse trattandola come uno psichedelico, qualcosa da prendere solo occasionalmente e con un maggior grado di ritualità e intenzione. Magari bere solo un caffè il sabato? Quando sono tornato a casa ho affrontato la mia lista di cose da fare con un fervore inconsueto, sfruttando l’ondata di energia – e di concentrazione! – che scorreva dentro di me, e deciso a farne buon uso. Ho ripulito e riordinato compulsivamente: il computer, il mio armadio, il giardino e il capanno degli attrezzi. Ho rastrellato, diserbato, messo le cose a posto, come se fossi posseduto. Riuscivo a concentrarmi su qualunque cosa con zelo e risolutezza.

Verso mezzogiorno la mia compulsività ha cominciato a calare e mi sono sentito pronto per cambiare aria. Avevo strappato dall’orto alcune piante che non crescevano e ho deciso di andare al vivaio per comprarne altre. È stato durante il viaggio che ho capito il vero motivo per cui mi stavo dirigendo verso quel particolare vivaio: davanti c’era sempre un furgone che serviva un ottimo espresso. ◆ bt

Michael Pollan è un giornalista statunitense che si occupa di alimentazione e agricoltura. Insegna all’università della California a Berkeley. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Come cambiare la tua mente (Adelphi 2019).

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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati