Da metà settembre la situazione ad Haiti è precipitata. Gli abitanti della capitale Port-au-Prince sono isolati e alle prese con la mancanza di generi alimentari e acqua potabile. I manifestanti hanno costruito delle barricate fatte di detriti, tronchi e pneumatici, saccheggiando negozi e depositi delle organizzazioni umanitarie, e attaccando banche, case di politici filogovernativi e cittadini ricchi. Le proteste, le più grandi degli ultimi anni, sono esplose l’11 settembre, quando il governo ha aumentato il prezzo del carburante, sovvenzionato dallo stato. Poi il malcontento si è allargato e gli haitiani se la sono presa con le difficili condizioni di vita nel paese: molte famiglie soffrono la fame, mancano i servizi essenziali, la violenza delle bande criminali è diffusa, l’inflazione è in crescita e il primo ministro Ariel Henry è inerme.

Durante una manifestazione a Cap Haïtien, nel nord del paese, uno dei leader dell’opposizione, Moïse Jean Charles, ha invitato i suoi sostenitori a chiudere le banche scandendo lo slogan “Gli daremo fuoco”. Secondo il capo di una potente banda criminale, Jimmy Chérizier detto Barbecue, i poveri dovrebbero cacciare Henry, nominato dopo l’omicidio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021: “Il sistema dev’essere rovesciato”, ha dichiarato il 15 settembre, “i veri criminali sono quelli in giacca e cravatta”. Secondo alcuni esperti, i politici e gli imprenditori che finanziano i criminali potrebbero alimentare i disordini, sfruttando l’indignazione generale per costringere Henry a ritirare le misure che danneggiano gli affari. La decisione di aumentare di più del doppio il prezzo del gasolio e della benzina potrebbe ridurre i profitti del redditizio mercato nero del carburante, controllato da alcuni gruppi dell’élite haitiana. Nei mesi scorsi i funzionari doganali del paese, su insistenza degli Stati Uniti, hanno intensificato le ispezioni portuali, scoprendo grandi carichi di armi e munizioni illegali. In questo modo hanno fatto aumentare le entrate fiscali derivanti dalle importazioni legali. Il tutto a spese dei contrabbandieri e degli imprenditori haitiani che cercano di evitare i dazi.

“I problemi non si risolvono incendiando le barricate o distruggendo i finestrini delle auto e i beni delle persone”, ha detto Henry il 17 settembre in un discorso pubblico. Secondo alcuni diplomatici ed esperti di sicurezza, il suo governo non ha gli strumenti per gestire la situazione. La mancanza di carburante e il potere sempre più capillare delle bande criminali hanno ridotto la presenza della polizia nelle strade. Alcuni agenti non si presentano al lavoro: non vogliono rischiare la vita per un governo impopolare, considerato illegittimo dalla maggior parte della popolazione.

Agire subito

Comunque, anche se i manifestanti riuscissero a mandare via Henry, Haiti avrebbe poche possibilità di stabilizzarsi nel breve periodo. Da quando è al potere il primo ministro ha fatto poco per pacificare il paese, riformare la costituzione e convocare nuove elezioni, come aveva promesso. In poco più di un anno Haiti è precipitata nella violenza. Il 13 settembre alcuni criminali hanno ucciso tre agenti di polizia in un’imboscata in un quartiere elegante di Port-au-Prince e poi hanno pubblicato sui social network il video con i cadaveri. Pochi giorni prima due giornalisti locali erano morti negli scontri tra bande rivali, sempre nella capitale.

L’ufficio di Henry e la polizia non hanno risposto alle richieste di commento.

Il 16 settembre alcune zone di Port-au-Prince, dove vivono tre milioni di abitanti, somigliavano a una zona di guerra. I giovani presidiavano le barricate vicino al palazzo nazionale, con le strade piene di detriti in fiamme e alberi caduti. Qualche pattuglia della polizia percorreva le strade vuote di alcuni quartieri della classe media e gli abitanti, soprattutto donne, setacciavano le case alla ricerca di acqua potabile. Molte ambasciate, aziende e uffici pubblici sono rimasti chiusi, mentre il governo della vicina Repubblica Dominicana ha richiamato i suoi diplomatici e inviato soldati al confine.

I paesi caraibici, colpiti dall’esodo di decine di migliaia di haitiani, chiedono un intervento. “Haiti non può più aspettare. Quella che sta vivendo è una guerra civile a bassa intensità”, ha detto il 15 settembre il presidente dominicano Luis Abinader a Washington, negli Stati Uniti. “Dobbiamo agire in modo responsabile e subito”. Secondo Abinader, che sta facendo costruire un muro per fermare il flusso di haitiani verso il suo paese, la crisi di Haiti è una minaccia alla sicurezza nazionale. Anche se la comunità internazionale ha sempre cercato una soluzione politica locale per Haiti, ha detto il 15 settembre, dovrebbe cominciare a considerare altre opzioni, facendo pensare a un intervento militare.

Interessi statunitensi

Haiti ha una lunga e traumatica storia d’interventi stranieri, tra cui un’occupazione durata quasi vent’anni da parte dei marines statunitensi all’inizio del novecento e, più di recente, l’arrivo delle forze di pace delle Nazioni Unite dopo il colpo di stato del 2004 contro il presidente Jean-Bertrand Aristide. Poco dopo l’omicidio di Moïse, il primo ministro ad interim Claude Joseph aveva chiesto agli Stati Uniti d’inviare soldati per ripristinare l’ordine e proteggere le infrastrutture fondamentali. La proposta era stata respinta dall’amministrazione Biden, che ha faticato a bilanciare il suo sostegno a una soluzione locale con il desiderio di ridurre l’afflusso di haitiani ai confini statunitensi. Wash­ington ha appoggiato Henry anche quando sono emerse le prove dei suoi legami con il principale sospettato dell’omicidio di Moïse. “Gli Stati Uniti vogliono un governo che continui ad accogliere gli haitiani rimpatriati”, dice Pierre Espérance, un attivista haitiano per i diritti umani. “Invece dovrebbero cominciare ad ascoltare i desideri del nostro popolo”. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1479 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati