La musica comincia con un canto a cappella e già dalle finestre aperte si sente soffiare l’aria del vasto paesaggio pianeggiante del sud. Il sud dei musicisti: il Madagascar meridionale, che oggi è colpito dalla carestia. Le pareti della stanza sono bianche, così come le piastrelle del pavimento, che fanno risaltare i colori sgargianti degli abiti tradizionali indossati dai musicisti per le prove ogni mattina e sera, anche quando ad assistere non c’è nessuno. Portano anche dei piccoli cappelli di rafia a punta originari dei loro villaggi, che ricordano quelli dei giullari. In sala prove si affacciano spesso altri gruppi provenienti dal sud, una piccola diaspora nella capitale malgascia Antananarivo. Anzi, non una diaspora, ma un’ambasciata. Come mi dirà poi il cantante Naïnako, i musicisti tradizionali sono l’ultima speranza della loro regione. E presto mi renderò conto di quanto sia vera quest’affermazione azzardata. A dare speranza non sono le politiche di sviluppo né quelle del governo, non sono gli indicatori economici, gli obiettivi climatici, le filiere produttive. È la musica.

Parte un ritmo fatto di tamburi, basso e sonagli, prima molto semplice, giusto il tempo di entrare nel groove. In sottofondo, il suono tremolante di kabosy (una specie di mandolino) e chitarra, poi si aggiungono una voce solista, una seconda voce, il coro. Un sorriso si trasmette di volto in volto e dopo neanche un minuto la gioia contagia tutti i presenti, dai bambini seduti per terra agli amici in visita, dai vicini che entrano dalla porta alla madre che si affaccia dalla cucina, da dove arriva un buon odore. Non possiamo fare a meno di muovere mani e piedi, ondeggiare con il busto e ridere, come se all’improvviso il mondo fosse diventato più bello. Chissà se quei berretti, che non sono da giullare, indicano che avverrà un incantesimo.

Appropriazione riuscita

Naïnako mi parla della musica tradizionale che il suo gruppo porta in giro nel mondo. In tournée hanno un amplificatore e per le percussioni usano un moderno cajón, uno strumento a forma di scatola di legno, originario del Sudamerica. Nei loro brani ci sono influenze gospel, pop e soul. Le stesse che ho sentito in villaggi sperduti, a tre giorni di viaggio da una strada asfaltata. La musica era tutt’altro che “pura”: al primo funerale a cui ho assistito, ho sentito una specie di trance con un canto parlato che sembrava hip-­hop – e forse lo era davvero – e il ritmo scandito da fischietti, come quelli che si usano nelle partite di calcio. Al secondo funerale, un gruppo rock si esibiva in rumorosi riff dal suono metallico; al terzo, che per la precisione era una famadihana, cioè una seconda sepoltura – la cerimonia più importante di tutte – c’erano quindici ottoni e un tamburo, come in una banda che suona alla festa di paese. Quella musica, con il suo parlato, i riff di chitarra e gli ottoni, non dava l’impressione di essere artificiosa, ma risultava autentica e inconfondibile. Insomma, un’appropriazione culturale perfettamente riuscita.

In Africa l’adozione più stupefacente, e musicalmente più fruttuosa, delle armonie occidentali è stata quella compiuta negli ultimi sessant’anni dal jazz, che di per sé è già la fusione di due culture. Questo genere ha prodotto star di fama internazionale come il sudafricano Abdullah Ibrahim e l’etiope Mulatu Astatke. Anche in Madagascar c’è un’importante scena jazz che, come il settore culturale nel suo insieme, ha sofferto per la crisi economica e la pandemia di covid-19. Nell’estremo nord dell’isola, ad Antsiranana, ho assistito al concerto di Hajazz, chitarrista e cantante, che si esibisce in un gruppo formato da una batterista e un percussionista. Inizialmente la chitarra jazz elettrica suonava morbida e familiare, ma pian piano ho capito che al centro della scena non c’era Hajazz: a catturare l’attenzione erano soprattutto le percussioni, che non facevano da sostegno o da sottofondo alla musica, ma ne costituivano il centro. Un’unica variazione improvvisata e il modello ritmico cambiava completamente, strutturando una sua narrazione. La chitarra, strumento principale del jazz europeo, sembrava semplicemente un elemento di raccordo melodico tra le percussioni. A qualche centinaio di metri dalla sala prove del gruppo di Naïnako c’è il quartiere di Ambohipo, che è pieno di studenti e ha un’atmosfera decisamente più rilassata di quella del centro, dove s’incontrano una ricchezza oscena e un’estrema povertà. Ho appuntamento con il cantante Jao­joby in un locale rock gestito da sua figlia. Negli anni settanta, ispirandosi a una tradizione locale semisconosciuta, Jao­joby ha inventato il salegy, che oggi è la musica popolare più tipica e ascoltata del Madagascar, con chitarre e bassi elettrici dal suono chiaro, sintetizzatori, spesso fisarmoniche, molte percussioni e un canto a più voci. Ovviamente lui è il “re del salegy”, ed è considerato alla stregua di un padre da tanti musicisti più giovani di lui con cui ho parlato. Quando gli chiedo di raccontarmi la sua idea di tradizione, Jao­joby risponde: “Cosa ascoltavamo alla radio da ragazzi? La musica americana, quella sudafricana, quella mozambicana, e assorbivamo tutto. Quando ho cominciato a suonare mi veniva naturale il rhythm’n’blues, cantare il soul, fare le cover di James Brown, Ray Charles e Louis Armstrong. Ho cominciato così. Per quanto riguarda la musica tradizionale, io vengo da un villaggio sperduto e prima dei quindici anni non sapevo neanche cosa fosse la radio. Conoscevo solo le nostre canzoni. Per fortuna”.

Secondo lui, la maggior parte dei musicisti del Madagascar – o almeno quelli che vengono dalle campagne – sono così immersi nella tradizione musicale da poter assorbire elementi esterni senza perdere la loro specificità. Non possono far altro che suonare in modo tradizionale: il ritmo è sempre quello, indipendentemente dagli strumenti che usano. Più gruppi ascolto, più mi rendo conto che Jao­joby ha ragione: non c’è mai niente di estraneo, la musica è sempre autenticamente malgascia.

Corpo e mente

Questo, però, significa che il concetto europeo di tradizione è troppo stretto per le altre culture musicali, e forse anche per le nostre. Probabilmente anche per un’orchestra sinfonica le cose non sono poi così diverse. Solo che in Madagascar la discendenza non è intesa in senso strettamente genealogico. “Quando suoniamo, abbiamo la sensazione che siano presenti i nostri antenati. Suonando parliamo con loro, cantando li evochiamo”, mi dice Naïnako.

Presto il ritmo si ramifica in ottavi, sedicesimi, strutture misteriosissime, poi torna ad accelerare in un beat veloce e monotono. Naïnako posa la chitarra e comincia a ballare con la figlia, che faceva da seconda voce: il busto in avanti, le braccia allargate e i piedi che saltellano a una velocità pazzesca seguendo un ritmo tutto loro, complementare al beat. Ho visto fare così anche ai funerali, che nel sud sono celebrati come delle feste. Le gambe sembrano staccarsi dal corpo di chi balla. Vecchi o giovani, uomini o donne, grassi o magri: sembravano tutti ballerini nati. Sarà una forma di razzismo, e come minimo di essenzialismo culturale, o una conseguenza di quel brutto stereotipo occidentale secondo cui i neri hanno il ritmo nel sangue e così via? Forse sì, eppure lo penso ogni volta che vedo qualcuno ballare. I corpi non si muovono, sono mossi, ed è sempre meraviglioso: perfino gli anziani sono eleganti e leggeri. Certo, qualche ballerino e musicista occidentale è in grado di muoversi senza sforzo al ritmo contagioso della musica africana, e pure di insegnarlo. Ma quando torno in Germania ho comunque difficoltà ad andare a ballare, a vedere tutti saltellare scomposti. Un’altra forma di essenzialismo? Che il mio sguardo sia distorto da pregiudizi razzisti? No, dev’esserci qualcos’altro, un motivo per cui la mia pelle piuttosto pallida sembra una specie di handicap. Non bastano l’etnia o la cultura a spiegare l’evidente musicalità di un intero popolo o di un mezzo continente.

Di cosa si tratta allora? Forse la domanda è mal posta, forse dovrei procedere al contrario e chiedermi cos’è che non funziona da noi, cos’è che dall’infanzia, ormai da tante generazioni, interrompe il collegamento tra corpo e cervello. Forse, anzi, sicuramente, la moderna vita in città si ripercuote sulla nostra consapevolezza del corpo. Negli ultimi due secoli ci siamo allontanati dalla natura e da noi stessi, tanto che dobbiamo prendere lezioni per imparare ad ascoltare i nostri corpi, per esercitare il respiro e allenare l’udito.

Anche Naïnako e la figlia camminano sull’asfalto e vivono tra quattro mura. Lo stesso fanno Jao­joby, il jazzista Hajazz e i suoi due incredibili percussionisti. Ma i loro nonni probabilmente no. Perfino la parola “prove” sembra inadatta: si va in un posto e si comincia a suonare senza interruzioni e correzioni, l’intesa viene da sé e ogni esecuzione è diversa dalle precedenti. Sembra che stonare non faccia parte del loro repertorio. Forse invocano gli antenati anche per riuscire a conservare, per qualche generazione ancora, l’unità di corpo e spirito che, a un certo punto, finirà per appartenere irrimediabilmente al passato, a un passato che – anche se non è mai stato migliore del presente – ci ricorda ciò che abbiamo perso.

“Cosa ascoltavamo da ragazzi? La musica americana, quella sudafricana, quella mozambicana, e assorbivamo tutto”

Prima che ci chiamino per il pranzo incontro Surgi, cantante e violinista. La sua band Vilon’Androy è composta da suoi parenti, tra cui le tre figlie adulte che cantano e ballano. Sono scioltissime e senza mai aver bisogno di guardarsi rispondono l’una ai movimenti dell’altra, trasmettendosi un cenno del capo, una mossa delle anche, una flessione particolare dell’avambraccio, come fossero collegate da una corrente di energia.

Questa corrente invisibile è la musica. O forse l’armonia, l’allegria e la grazia mi colpiscono tanto solo perché contrastano con la miseria, la siccità e la disperazione che ho visto nel sud del Madagascar, facendo da balsamo, ricordo, forma di resistenza. Surgi non si limita a cantare: con il volto, il corpo e il violino elettrico che si è costruito da solo racconta una storia di arbitrio e corruzione, interpreta diversi ruoli, si lamenta, canta, scandisce, scherza, incede, balla, marcia e striscia per tutta la sala prove. Sarebbe piaciuto a Bertolt Brecht che però, probabilmente, avrebbe avuto meno senso dell’umorismo, e meno musicalità.

“Perché i musicisti tradizionali sono l’ultima speranza del sud?”, chiedo mentre alcuni ragazzi prendono gli strumenti per partecipare alla jam session. “Perché”, risponde Naïnako indicando l’amico Soubi, “uniscono le persone, le spingono a difendersi. La loro musica racconta al paese e al mondo la miseria del sud, ma non solo: parla anche di quanto sono belle le persone, quanto sono ricche la cultura e la terra, che sarebbe fertilissima se solo tornasse l’acqua. E poi portano idee nuove nei villaggi su come sopravvivere nonostante la siccità e salvare la foresta dal disboscamento, che è inarrestabile perché il carbone di legna è l’ultima fonte di guadagno rimasta”.

Prima che sia pronto da mangiare ballano tutti e lo faccio anch’io. I vicini e perfino i bambini sono abbastanza educati da non ridere di me, anche se il vero giullare qui sono io. ◆ sk

Navid Kermani è uno scrittore tedesco d’origine iraniana. Si occupa di viaggi e religioni. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Stato di emergenza (Keller 2019).

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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati