La prima cosa che ti colpisce è l’aria. In molti luoghi del mondo l’aria è torrida, pesante e, a seconda del giorno, densa di polveri sottili. Gli occhi lacrimano spesso. La tosse sembra non andarsene mai. Non puoi più uscire di casa e respirare aria fresca, perché potrebbe non essercene affatto. Piuttosto, prima di aprire porte o finestre al mattino, guardi il telefono per controllare la qualità dell’aria.

Questo è un passaggio del libro The future we choose (Vintage 2020), in cui due degli artefici degli accordi sul clima di Parigi del 2015 immaginano lo scenario migliore e quello peggiore per il pianeta. Ma è davvero il futuro quello che descrivono? Chiunque legga il libro a Lagos, Città del Messico, New Delhi o in decine di altre città – soprattutto quelle del sud del mondo, costruite in armonia con il paesaggio naturale circostante, ma che ora soffocano nello smog della modernizzazione industriale – riconoscerà in questo passaggio la sua realtà quotidiana.

A casa mia al Cairo, in Egitto, di notte attivo i filtri dell’aria nella stanza di mio figlio, ho due dispositivi che rilevano la presenza di polveri sottili, e avverto l’asilo suggerendo di tenere i bambini al chiuso quando i dati schizzano troppo in alto. Non guido mai con i finestrini abbassati e per tornare a casa prendo la strada più lunga per evitare le più trafficate. Mi ritrovo ad aggirare l’unico quartiere in collina, Moqattam, da cui si vede la nube dell’inquinamento sospesa sulla città, con i pochi hotel e le torri dei miliardari che spuntano attraverso la coltre chimica. Là sotto la città è controllata da decine di migliaia di poliziotti, soldati e agenti di sicurezza privati, schierati nei vari distretti, pieni di posti di blocco e reti d’informatori che possono rapidamente far scomparire chiunque in un vasto sistema di stazioni di polizia, furgoni, tribunali e carceri segreti. L’inquinamento e la polizia sono collegati.

Lo scenario peggiore è già qui. Per miliardi di persone che vivono nel sud del mondo, il meglio che si possa sperare è che la situazione semplicemente smetta di aggravarsi.

Una nuova epoca

Non si tratta solo d’inquinamento. In Egitto, come nel resto del mondo, il clima sta cambiando. La stabilità meteorologica è stata la base della civiltà egiziana: le piene annuali del Nilo riversavano sostanze nutritive a nord nel delta, e il calendario dei faraoni corrispondeva alle stagioni: piogge nel mese di tubi e tempeste di sabbia nel mese di amshir (rispettivamente gennaio e febbraio del nostro calendario).

Qui, dove il clima è rimasto inalterato per diecimila anni, le temperature ora oscillano di più, le piogge arrivano prima, le città s’inondano in inverno e le sabbie un tempo intatte del Sahara settentrionale sono punteggiate da arbusti. Il suolo del delta del Nilo diventa sempre più salato a causa dell’innalzamento dei mari. La terra un tempo tanto fertile da sostenere gli imperi, con la tassa sul grano imposta dall’impero romano o le materie prime fornite ai cotonifici di Manchester, è stata gestita così male in decenni di corruzione e negligenza, e in secoli d’interferenze straniere, che oggi l’Egitto è il primo importatore di grano al mondo.

Siamo già entrati in un’epoca che passerà alla storia come quella della transizione energetica, in cui le società industrializzate sostituiranno i combustibili fossili con fonti rinnovabili come il solare, l’eolico e l’idroelettrico. Gli impianti di energia rinnovabile si diffondono esponenzialmente, riducendo i costi. Sul lungo periodo le cose possono andare in una sola direzione, dato che il capitalismo si sta lentamente accodando ai nuovi potenti.

Durante un’interruzione di corrente a Gaza, in Palestina, 27 luglio 2015 (Wissam Na​ssar, Xinhua News Agency​/Eyevine/Contrasto)

La transizione energetica proposta dal capitalismo promette una continuità: l’auto diesel sostituita da una Tesla, la Coca-Cola verde, la proliferazione di investimenti responsabili, batteri che mangiano la plastica, carri armati a energia solare, macchinari che catturano il carbonio per congelare e seppellire il problema.

Ma la transizione energetica non potrebbe racchiudere al suo interno il potenziale per qualcos’altro? La sostituzione di un tipo di potere con un altro?

Il potere dell’occidente nel mondo si impose grazie alla forte spinta della rivoluzione industriale del capitalismo, e al suo apripista, il colonialismo. È ovvio, dunque, che una nuova base su cui costruire una potenza energetica – solare, eolica, rinnovabile – potrebbe anche essere una base per un nuovo tipo di potere politico. Come vedremo, qualcuno se ne rende conto perfettamente.

Cos’è il potere? Negli anni successivi al colpo di stato del 2013 in Egitto ho riflettuto molto su questo tema: come il potere si crea, si mantiene, s’impone o si perde.

Tenere le luci accese

Il regime di Abdel Fattah al Sisi è implacabile nella missione di esercitare il suo potere sulla popolazione attraverso la violenza della polizia, l’incarcerazione di massa, la propaganda e l’urbanistica, tutti strumenti di un nucleo di controllo molto centralizzato. Che però fatica a svolgere le funzioni più basilari: i treni si schiantano regolarmente, l’acqua è inquinata, i prezzi dei prodotti alimentari crescono mentre la moneta s’indebolisce di anno in anno. Eppure, il suo potere continua. Lo stato sembra un corpo tenuto in vita artificialmente: una serie di tubi che entrano ed escono, medici stranieri che occasionalmente somministrano prestiti dopanti o chemioterapie di modifiche strutturali.

L’unica parte dell’infrastruttura nazionale che continua a funzionare è la rete elettrica. Quel poco di gradimento su cui il regime di Al Sisi conta per legittimarsi si basa sulla capacità di tenere le luci accese. I giorni al potere dei Fratelli musulmani finirono anche a causa delle interruzioni di corrente. Al Sisi ha speso parecchio per garantire che lo stesso errore non fosse commesso di nuovo, costruendo una vasta infrastruttura di centrali elettriche. Anche se molto probabilmente una notevole quantità di denaro pubblico si perde in corruzione e una percentuale alta di elettricità si perde lungo cavi di trasmissione fatiscenti, oggi l’Egitto è comunque in grado di produrre il 50 per cento di energia in più di quella che consuma. Un potere costruito attraverso l’infrastruttura ed espresso sotto forma di elettricità.

Nella rete elettrica egiziana si può leggere una manifestazione concreta del potere come combinazione fortemente centralizzata e corrotta di tecnologia straniera e strumenti nazionali obsoleti.

Prendendo in considerazione la rete elettrica britannica, per esempio, si vede una diversa storia del potere.

Nel Regno Unito le aziende private che forniscono energia elettrica furono raggruppate negli anni trenta in una rete nazionale. Quando l’ideologia dominante cambiò, lo stato, che aveva creato il mercato attraverso l’infrastruttura, fu rimodellato per creare ricchezza privata. Verso la fine del ventesimo secolo, negli anni ottanta, la rete fu privatizzata, incorporando così la diversa concezione dello stato.

Prima i contribuenti pagarono per la creazione di un mercato su scala nazionale, poi quel mercato fu aperto ai privati con il sostegno dei contribuenti – un riflesso dell’“apertura” coloniale dei mercati in tutto il mondo – soprattutto a beneficio dei capitali privati.

In Palestina i primi coloni ebrei usarono la costruzione di una rete elettrica nazionale per portare avanti la creazione di una nazione: lì dove l’elettricità diventava disponibile, subito arrivavano i coloni. Furono posate le linee elettriche e lo stato vi fu edificato sopra.

La rete elettrica dell’ingegnere ebreo russo Pinhas Rutenberg fu osannata da un funzionario britannico perché faceva “più di qualunque altra cosa per pacificare la Palestina, facilitare l’immigrazione e sviluppare il paese”. Quarant’anni più tardi, dopo aver occupato militarmente la Cisgiordania, il generale israeliano Moshe Dayan disse: “Se la rete elettrica di Hebron dipendesse da quella israeliana e noi fossimo in grado di staccare la spina e tagliarli fuori, sarebbe decisamente meglio di migliaia di coprifuoco e azioni antisommossa”. Ancora oggi, la Striscia di Gaza è punita ogni giorno con i blackout per aver eletto Hamas: l’incarnazione della debolezza politica imposta da una potenza occupante.

Oggi Luanda è una città di grattacieli, tutti costruiti con i soldi cinesi per il petrolio

Le reti elettriche esprimono le caratteristiche di uno stato, agendo da indicatori per capire il potere e com’è stato costruito. Per millenni, anche prima dell’elettricità, il potere egiziano si fondava sulla geografia: nella valle fluviale coltivabile che taglia il deserto c’è sempre un punto preciso in cui il verde incontra il giallo, un passo che porta dalla campagna alle dune, dallo stato alla terra selvaggia, dalla civiltà alla libertà. Il potere converte la geografia in storia, e si eredita. Ogni nuovo regime cerca di prendere quello che può dal vecchio potere, integrandovi la sua modernità.

Linfa vitale

Per il sud del mondo la modernità diventò una possibilità quando gli amministratori coloniali se ne andarono. E anche se questi si portarono via i fucili, i regimi locali ereditarono strutture di potere composte da stati nazione, forze di polizia, eserciti, sistemi giudiziari, culture, lingue franche, scienze razziali e conflitti etnici.

Non c’è bisogno di scavare per trovare questa storia: ci viviamo dentro. Le stazioni di polizia, le carceri e i tribunali dell’impero sono ancora attivi nel sud del mondo. Molti di questi luoghi sono pieni di dissidenti processati in base a leggi scritte dai governanti coloniali, sorvegliati e dominati con attrezzature europee e statunitensi. Tanti paesi hanno ereditato il petrolio e la sottomissione a un intreccio mondiale di oleodotti, petroliere, raffinerie, distributori di benzina e mercati che pompano, spediscono, lavorano e bruciano cento milioni di barili al giorno: la linfa vitale del capitalismo, bruciata per creare energia e per alimentare il movimento e l’accelerazione necessari alla crescita costante.

Quelli che furono disposti ad allinearsi al flusso occidentale ottennero ideologie preconfezionate, mercati e aspirazioni culturali a cui attingere. Quelli che cercarono di nazionalizzare o sovvertire il sistema mondiale – come Mohammad Mossadeq in Iran o Patrice Lumumba in Congo – furono rapidamente e brutalmente rovesciati.

Poco prima dell’omicidio di Lumumba, Frantz Fanon, psichiatra, antropologo e filosofo francese, era in Mali per una missione di ricognizione, durante la quale tenne un diario: “Il nostro compito: aprire un fronte meridionale. Per trasportare armi e munizioni da Bamako. Sobillare la popolazione sahariana, infiltrare gli altipiani algerini. Dopo aver portato l’Algeria ai quattro angoli dell’Africa, muovere con tutta l’Africa verso l’Algeria africana, verso il nord, verso Algeri, la città continentale. Quello che vorrei: grandi linee, grandi canali di navigazione attraverso il deserto. Soggiogare il deserto, negarlo, unire l’Africa, creare il continente. Il primo punto di partenza, la prima base è stata la Guinea. Poi il Mali, pronto a tutto, fervente e brutale, coerente e straordinariamente entusiasta, ha ampliato la testa di ponte e ha aperto preziose prospettive. A est Lumumba ha segnato il tempo. Il Congo, che ha rappresentato il secondo approdo per le idee rivoluzionarie, è stato intrappolato in una rete inestricabile di contraddizioni sterili. Le cittadelle coloniali dell’Angola, del Mozambico, del Kenya, dell’Unione Sudafricana non erano ancora mature per essere riunite”.

Qualche mese dopo Lumumba fu ucciso. La seconda testa di ponte fu soggiogata. Nel giro di pochi anni l’Algeria rivoluzionaria inviava ingegneri petroliferi a sud, in Angola (la “cittadella coloniale”) per aiutare un altro movimento di liberazione meridionale, il Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla), a costruire la sua industria nazionale per alimentare la lunga guerra civile. L’Mpla ricevette anche un significativo supporto militare da Cuba, le cui truppe furono schierate a proteggere un giacimento off­shore della Standard oil of California (Chevron). Per tutti i 27 anni di guerra civile né il partito marxista rivoluzionario né i suoi alleati comunisti e antimperialisti interruppero neanche una volta il flusso di petrolio verso gli Stati Uniti. Alla fine i guadagni costanti realizzati con il petrolio permisero all’Mpla di vincere i nemici interni. Oggi è ancora al potere.

Sul fiume Congo. Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, ottobre 2015  (Kris Pannecoucke, Panos/Luz)

“Tra colonialismo, invasioni straniere, marxismo-leninismo e capitalismo, io sono rimasto sempre nello stesso edificio”, ha detto un dirigente della compagnia petrolifera statale angolana.

Le aziende petrolifere Sonatrach e Sonangol restano le istituzioni chiave dei regimi algerino e angolano. Entrambi i paesi dipendono dall’esportazione di gas e petrolio per più del 90 per cento delle entrate estere, e il loro sistema politico si fonda sul petrolio.

Quanto di quello che chiamiamo decolonizzazione è stato in realtà un riadattamento delle strutture coloniali per il mantenimento del potere dei nuovi governanti? E quanto potere avevano realmente i nuovi governanti per tirarsi fuori dai sistemi industriali di estrazione delle risorse presenti nei loro paesi? E se il potere politico moderno si basa sulla potenza energetica, si sostiene grazie al controllo di questa potenza, e si arricchisce e legittima esportandola, allora la questione della transizione energetica diventa di gran lunga più complicata per chi vive sotto regimi autoritari. Se il mondo deve passare a nuovi sistemi di potenza energetica, potrà anche adottare nuovi sistemi di potere politico?

Un’opportunità formidabile

Vista in questo modo, la transizione energetica diventa tanto una formidabile opportunità politica quanto una prospettiva terrificante. Una rapida transizione dai combustibili fossili potrebbe far collassare i regimi autoritari dall’Angola all’Algeria, all’Azerbaigian. Oppure, potrebbe essere il fondamento di un’epoca di grande potenza energetica rinnovabile, nazionale e centralizzata per i governi e le multinazionali abbastanza veloci da adattarsi.

Alla fine del 2020 lo stato egiziano ha raccolto 750 milioni di dollari lanciando le sue prime obbligazioni verdi (titoli la cui emissione è legata a progetti che hanno conseguenze positive per l’ambiente). Gli investitori sono stati così entusiasti dell’offerta – a un tasso d’interesse del 5,25 per cento – che gli ordini ricevuti ammontavano a un valore di 3,7 miliardi di dollari. Questo eccesso di domanda è diventato la norma nelle emissioni delle obbligazioni verdi, perché il mercato mondiale dei titoli – come tutti gli altri indicatori della transizione energetica – supera le aspettative. Oggi è possibile comprare obbligazioni verdi emesse per potenziare la rete elettrica dell’Arabia Saudita, migliorare l’efficienza energetica della Coca-Cola o produrre energia rinnovabile per la Banca nazionale del Qatar. Obbligazioni verdi emesse dai governi di Egitto, Qatar o Cina possono essere facilmente vendute a un fondo pensionistico all’interno di un pacchetto di titoli e altri investimenti rispettosi dell’ambiente, e l’ignaro lavoratore si ritrova a finanziare gli sforzi di un regime dittatoriale per riorganizzare la sua infrastruttura, in modo da poterla controllare ancora in un mondo post-petrolifero.

Nessuno stato più della Cina capisce quanto la transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili possa essere la base per un reale cambiamento, da un potere politico all’altro. La Cina ha lavorato incessantemente per colmare il divario industriale costruito dall’occidente fin dalla rivoluzione industriale. La maggioranza dei pannelli solari del mondo è realizzata in Cina, e molti sono prodotti nei campi di internamento nello Xinjiang. Una lista recentemente pubblicata da Bloomberg dei “miliardari delle rinnovabili” è dominata da cittadini e aziende cinesi. La Cina è avanti in ogni fase del processo di estrazione, raffinazione, trasporto, produzione e vendita delle terre rare, necessarie per le turbine eoliche e i pannelli solari.

Le aziende di stato cinesi hanno forti interessi nelle miniere di bauxite, che serve per produrre l’alluminio, in Guinea; in quelle di cobalto, fondamentale per le batterie, nella Repubblica Democratica del Congo; e nei giacimenti petroliferi in Angola. In cambio di materie prime i cinesi costruiscono infrastrutture: linee ferroviarie in Nigeria e in Kenya, città prefabbricate in Angola, basi navali a Gibuti.

Quando si parla delle attività cinesi in Africa a volte si dice che, a differenza degli Stati Uniti e prima dell’Unione Sovietica, gli accordi cinesi basati su risorse in cambio di infrastrutture non siano ideologici. Ma le infrastrutture sono sempre ideologiche: l’accelerazione del trasferimento di energia dall’interno alle coste è la base di tutte le infrastrutture coloniali fin da quando Luanda, la capitale dell’Angola, fu fondata dagli schiavisti portoghesi nel 1575 per portare energia umana verso il mare.

Oggi lo sviluppo dell’infrastruttura rafforza il potere di chi governa, il che in genere è un investimento contro la democrazia. Quando i cinesi cominciano a sostenere la realizzazione di impianti per le energie rinnovabili, senza dubbio seguono gli stessi schemi vecchi di secoli di costruzione, o creazione, del potere nelle mani delle élite compiacenti.

Oggi Luanda è una città di grattacieli, tutti costruiti con i soldi cinesi per il petrolio. È stato in Angola che si è affermato per la prima volta il modello cinese degli affari: sempre con l’Mpla, che emergendo vittorioso ma distrutto da tre decenni di guerra civile aveva bisogno di cominciare a ricostruire il paese. Il credito a buon mercato dei cinesi è stato ripagato in petrolio. Nel 2018 la Cina deteneva quasi il 70 per cento del debito nazionale dell’Angola. Le élite di Luanda – tra cui molti eredi di una complicata storia razziale di creoli, che collaborarono con i colonizzatori schiavisti – non dipendono dalla rete elettrica nazionale, ma installano generatori privati nei loro grattacieli. Al di là della capitale coloniale, le città e i centri dell’interno sono serviti non da una ma da tre reti scollegate tra loro, un lascito poetico e fortuito in un paese la cui modernità è stata plasmata da una sanguinosa guerra civile fra tre gruppi rivali.

Foreste di lame rotanti

Guidando verso nord, lungo la strada che costeggia il mar Rosso, la scorsa primavera mi sono ritrovato a muovermi con gli uccelli, vortici di cicogne bianche che intercettavano correnti di aria calda. A decine, a centinaia, turbinavano insieme, salendo abbastanza in alto da librarsi, dirigendosi lentamente verso nord, planando poi verso l’orizzonte, fino a cavalcare di nuovo le correnti calde per risalire. Gli uccelli che migrano tra l’Europa e l’Africa seguono il Nilo o il mar Rosso per attraversare il Sahara. Quelli più piccoli si fermano spesso sul Nilo.

Un parco fotovoltaico in costruzione vicino alla città di Hami, nello Xinjiang, in Cina, 23 maggio 2021 (Li Hua, Vcg/Getty Images)

Le cicogne e i rapaci sfruttano i venti della strada litoranea, che sono abbastanza costanti per i parchi eolici, foreste di lame rotanti all’interno delle quali gli uccelli possono trovarsi fatalmente perduti. Quando è stato proposto il primo parco eolico, gli attivisti egiziani hanno cercato di avvertire il governo delle conseguenze sugli uccelli migratori, ma non hanno ricevuto risposta. Quando però si sono accorti che la cicogna bianca è il simbolo nazionale della Germania e che uno dei finanziatori del parco eolico era una banca tedesca, hanno trovato un modo efficace per fare pressione.

Così è stato installato un sistema di allerta rapida, è stato garantito un accesso senza precedenti ai radar militari, sono stati impiegati osservatori con binocoli, e le turbine possono essere fermate per permettere agli stormi in migrazione di passare. Si tratta, sotto ogni aspetto, di un sistema esemplare.

La Germania finanzia anche il sistema egiziano di controllo delle coste, una rete di imbarcazioni, radar e soldati, che non permettono a nessun essere umano di migrare verso nord attraverso il mar Mediterraneo.

Nel novembre 2020 la polizia egiziana ha arrestato tre ricercatori dell’Egyptian initiative for personal rights. Qualche giorno prima l’organizzazione per i diritti umani aveva fatto una riunione con diversi ambasciatori e diplomatici europei, tra cui una rappresentante norvegese. Attivisti e giornalisti hanno fatto pressioni sui mezzi d’informazione e diplomatiche per farli liberare. È stata dunque una sorpresa quando, al culmine della crisi diplomatica, l’ambasciatrice norvegese in Egitto ha twittato una sua fotografia in cui sollevava goffamente un pallone da calcio multicolore per promuovere un progetto di energia solare. Produzione di energia, ma sostenibile.

Come possiamo evitare questa transizione energetica di facciata?

L’intifada delle pianure

Il più vasto spiegamento di forze statunitensi in più di un secolo all’interno del paese è stato realizzato nel 2016 per affrontare migliaia di attivisti che si erano radunati nella riserva di nativi sioux di Standing rock, in North Dakota, per protestare contro la costruzione di un oleodotto. Dotate di alcuni degli equipaggiamenti militari usati dall’esercito statunitense in Iraq e in Afghanistan, le forze di polizia di 76 giurisdizioni, la guardia nazionale e varie compagnie di sicurezza sono state mobilitate per proteggere gli interessi di un’azienda energetica privata. La resistenza a Standing rock è stata senza precedenti. L’inverno del 2016 ha visto quella che lo storico Nick Estes in un libro sulla protesta ha descritto come una “intifada delle pianure”: “La tanto attesa riunificazione di tutte le sette nazioni delle popolazioni di lingua dakota, nakota e lakota , disperse e separate durante l’invasione, non si verificava da più di cento anni”.

L’Egitto, da sempre caratterizzato e alimentato dal Nilo, teme per la sua risorsa

Quell’intifada ha colpito l’industria statunitense del petrolio e del gas, le arterie del suo capitalismo. E ha segnato l’inizio del percorso politico di Alexandria Ocasio-Cortez verso il green new deal, un piano di riforme economiche e sociali che ha costituito il fulcro iniziale della politica interna dell’amministrazione di Joe Biden. Quell’intifada è ancora in corso: i nativi wet’suwet’en contestano il gasdotto Coastal gaslink, le popolazioni anishinaabe guidano una coalizione contro l’oleodotto Line 3, mentre continua la campagna contro la Dakota access pipeline e gli attivisti della coalizione Stop the money pipeline prendono di mira banche e investitori.

Il 5 luglio 2020 la Dominion energy della Virginia ha annunciato la cancellazione del gasdotto Atlantic coast. Circa quattro mesi prima la Williams companies aveva annunciato che la costruzione della Constitution pipeline, che avrebbe dovuto portare dalla Pennsylvania a New York il gas estratto con il fracking, la tecnica della fratturazione idraulica, non sarebbe più andata avanti.

La Mountain valley pipeline, dal West Virginia alla Virginia, è stata sospesa a tempo indeterminato.

Anche prima che Biden promettesse un green new deal, che ora si è arenato, per i costruttori di oleodotti statunitensi il futuro si prospettava sempre più difficile. Da quando è entrata in carica, l’amministrazione Biden ha cancellato l’oleodotto Keystone xl e ha sospeso i diritti di perforazione nell’area naturale protetta Arctic national wildlife refuge, mentre il governatore del Michigan ha sospeso la costruzione di una condotta nella regione dei Grandi laghi, tra Stati Uniti e Canada.

Vista l’incertezza sui guadagni futuri, le nuove infrastrutture non procederanno. Questo significa che l’industria statunitense del gas e del petrolio faticherà a crescere.

Torniamo quindi alla domanda: cosa sostituirà la potenza energetica dei combustibili fossili? Gli attivisti nativi non s’illudono che il capitalismo possa creare un sistema ecologico di potere attraverso i pannelli solari e le turbine eoliche. La lotta contro gli oleodotti è solo l’ultimo capitolo di una battaglia lunga cinquecento anni contro i coloni capitalisti, o capitalisti colonizzatori. Il capitalismo potrebbe dimostrarsi capace di ridurre le emissioni di carbonio, ma è incapace di creare un equilibrio naturale o cancellare l’eredità del colonialismo.

David Correia, Nick Estes, Jennifer Nez Denetdale e Melanie Yazzie l’hanno detto chiaramente nel loro libro del 2021, Red nation rising. From bordertown violence to native liberation (L’ascesa della nazione rossa. Dalla violenza delle città di frontiera alla liberazione dei nativi): “Non c’è nulla di naturale nelle relazioni coloniali, quindi non c’è nulla di naturale nel colonizzatore. Quella che il colonizzatore chiama democrazia, noi la chiamiamo non-libertà. Quella che il colonizzatore chiama proprietà, noi la chiamiamo violenza. Quello che il colonizzatore dà per scontato, noi cerchiamo di abolirlo. Abolire la proprietà privata libera la terra dai confini che la imprigionano. Noi aboliamo i confini riducendo in cenere le città di frontiera. Senza confini, il capitalismo muore”.

I due fiumi

Ancora una volta, possiamo guardare alla rete elettrica per cogliere una verità sul potere. Negli anni trenta il new deal, l’acclamato antecedente del green new deal di oggi, ampliò enormemente la rete elettrica, soprattutto con la costruzione di dighe idroelettriche che inondarono le pianure dei lakota, dakota e nakota della grande nazione sioux.

Lo stato colonizzatore espresse ed estese il suo potere sui nemici attraverso l’energia elettrica (rinnovabile), in quella che da allora è celebrata come un’età dell’oro della democrazia.

La potenza idroelettrica è anche al centro dei sogni di sviluppo di alcuni governanti africani.

Il 95 per cento dell’elettricità che attraversa la rete della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) è generata dall’immenso fiume che caratterizza gran parte del paese. Ma quella rete – la rete di uno stato debole – raggiunge solo il 19 per cento della popolazione.

Scrivendo dal Cairo, mi colpisce il fatto che la Rdc sia per certi versi un’immagine rovesciata dell’Egitto. Entrambi i territori sono caratterizzati dagli immensi fiumi che li attraversano. Ma mentre il Nilo solca il Sahara creando un’esile striscia di terra abitabile che si è a lungo prestata all’autarchia, il Congo attraversa la foresta, un’area incredibilmente estesa, governabile in modo centralizzato solo grazie a un sistema di brutalità genocida. E anche se la loro idropolitica ha sostenuto sistemi di controllo profondamente diversi, oggi i governi del Nilo e quello del Congo si somigliano sempre di più. Da anni la diga Grand inga è un modello di come imbrigliare le vaste energie politiche del fiume Congo, un mega-progetto che si dice potrebbe alimentare l’intero continente, e per cui non manca una schiera di aziende straniere pronte a prenderne una fetta.

L’Egitto sta offrendo al suo vicino a sud assistenza, competenze e contratti per le infrastrutture. In cambio il regime di Al Sisi vuole aiuto diplomatico per stroncare un’altra infrastruttura statale: la diga Grand ethiopian renaissance (Gerd), in Etiopia.

Dopo dieci anni di costruzione la diga è quasi completata e l’Egitto, da sempre caratterizzato e alimentato dal Nilo, teme per la sua risorsa fondante. L’Etiopia ha bisogno di elettricità e afferma che la diga sia necessaria per dare forza alle sue ambizioni nazionali. L’Egitto ha bisogno che il Nilo continui a scorrere e, come già detto, ha un surplus incredibile di capacità di produzione elettrica. Ma invece di costruire una rete elettrica di raccordo regionale con cavi ad alta tensione attraverso cui i due vicini potrebbero colmare la loro mancanza di risorse, siamo sull’orlo di una guerra dell’acqua.

Nella transizione energetica c’è un potenziale che potrebbe allontanarci da queste assurdità violente. Per esempio, esiste già un consenso sul principio dei risarcimenti climatici: alcuni paesi industrializzati hanno beneficiato della combustione delle fonti fossili a scapito di altri che pagheranno un costo ecologico sproporzionato. Ma la domanda più difficile è: come progettare un sistema di risarcimenti che non rafforzi i regimi autoritari? Questo dovrebbe essere al centro dei negoziati tra paesi del sud e del nord del mondo alla ventisettesima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop27), che si svolgerà in Egitto dal 6 al 18 novembre. Solo che quelli che negoziano per il sud tendono a essere regimi autoritari con interessi a breve termine ancora più fragili di quelli dei petrolieri.

Ma esistono casi virtuosi: prendiamo la diga di Manantali, che produce energia idroelettrica condivisa tra Mali, Senegal e Mauritania. Quello che in precedenza era stato un terreno di scontro etnico oggi sembra essere una risorsa condivisa e ben gestita, controllata da un organismo tripartito.

Mettere in comune

I risarcimenti climatici potrebbero finanziare la creazione di infrastrutture regionali simili, al di fuori dell’autorità di un singolo stato. I conflitti – come quello che potenzialmente cova tra Egitto ed Etiopia – potrebbero essere evitati e il potere autoritario ridotto, mettendo in comune le risorse a livello regionale.

La transizione energetica offre l’opportunità di far saltare i confini coloniali dello stato-nazione e di rafforzare il potere delle iniziative comuni. Micro-reti decentralizzate potrebbero erodere il potere di uno stato centralizzato. I risarcimenti climatici e i negoziati della Cop27 dovrebbero contrastare le normative restrittive per finanziare la decentralizzazione e rinunciare ai dazi.

La cosa ancora più importante, tuttavia, è che i diritti di proprietà intellettuale sulle tecnologie per produrre energia rinnovabile siano eliminati, come parte di qualunque risarcimento climatico, e che la proprietà intellettuale creata con denaro pubblico sia resa automaticamente accessibile a tutti. Questo incoraggerebbe immediatamente la produzione e il coinvolgimento a livello locale, e permetterebbe a nuove reti di commercio, cooperazione e migrazione di radicarsi nel sud del mondo.

La produzione di vaccini è un esempio significativo: un destino globale interconnesso che potrebbe unire i poteri dell’industria e del lavoro si scontra con l’opposizione degli azionisti delle multinazionali.

Dal 2000 studi accademici sostengono che l’Africa non sia un debitore nei confronti del mondo, ma un creditore netto, se si prendono in considerazione i flussi illeciti verso i centri finanziari offshore. Tassare i ricchi e chiudere questi centri sono già considerate questioni esistenziali per le democrazie consolidate, ma sono essenziali perché possa compiersi una vera decolonizzazione. Ed è solo attraverso la decolonizzazione che una transizione energetica verso un nuovo sistema di potere potrà compiersi. Al contrario, senza decolonizzazione non sarà possibile arrivare a una giustizia ambientale che vada al di là di una riduzione delle emissioni. Più urgente di qualsiasi iniziativa di forestazione nel sud del mondo è il controllo e la regolamentazione di questo sistema, la cancellazione di debiti odiosi, l’eliminazione dei sussidi statali e dei finanziamenti bancari ai combustibili fossili.

Purtroppo questo potenziale ugualitario non sarà in cima all’agenda della Cop27. Alla conferenza la transizione energetica diventa un’opportunità per l’ambientalismo di facciata e gli speculatori, mentre paesi e aziende fanno la fila per firmare accordi per installare impianti energetici con una dittatura che ha un surplus di energia e prigionieri politici. Questo ci fa capire quali saranno i prossimi sacrifici del sud del mondo e ci ricorda che finché l’autoritarismo governerà con una combinazione di fonti energetiche diverse, il suo potere sarà duraturo. ◆ fdl

Da sapere
La Cop27 dell’Onu in Egitto

◆ Dal 6 al 18 novembre 2022 si svolge a Sharm el Sheikh, in Egitto, la ventisettesima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop27). Le conferenze delle parti si tengono ogni anno nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc), firmata nel 1992 durante il cosiddetto vertice della Terra di Rio de Janeiro, in Brasile. I rappresentanti di 197 paesi discutono le azioni per affrontare la crisi climatica mondiale. Nel corso degli incontri sono trattati i temi più importanti legati al clima, dalla finanza alla decarbonizzazione, dall’agricoltura alle risorse idriche, alla biodiversità. Il primo grande banco di prova della Cop27 sarà l’assunzione di nuovi impegni per ridurre le emissioni. Inoltre, si profilano tre grandi questioni sui finanziamenti per il clima, ovvero i fondi per sostenere la mitigazione e l’adattamento. In primo luogo bisogna affrontare il fatto che i paesi più ricchi non hanno mantenuto l’impegno, assunto nel 2009, di fornire cento miliardi di dollari all’anno ai paesi poveri. In secondo luogo, i paesi meno industrializzati chiederanno di concentrarsi sui finanziamenti per l’adattamento agli effetti del riscaldamento globale. Infine, è probabile che faranno maggiori pressioni perché i paesi ricchi si impegnino a finanziare il meccanismo di “perdite e danni”, cioè aiuti per le possibili distruzioni causate dal cambiamento climatico, come previsto dall’accordo di Parigi del 2015. The Conversation


Da sapere
Appello agli attivisti

◆ In un articolo pubblicato il 7 ottobre sul sito statunitense The Intercept e ripreso dal quotidiano britannico The Guardian, la giornalista, scrittrice e attivista canadese Naomi Klein denuncia l’ambientalismo di facciata del regime egiziano, che mentre si prepara a ospitare il summit sul clima Cop27 incarcera gli attivisti e vieta la ricerca. Klein contrappone la lotta per la libertà di Alaa Abdel Fattah – l’attivista volto della rivoluzione del 2011, in carcere dal settembre 2019 e in sciopero della fame da sette mesi – e degli altri sessantamila prigionieri politici egiziani alla responsabilità delle persone che parteciperanno alla Cop27, invitando questi ultimi a usare la loro libertà per cambiare davvero le cose prima che sia troppo tardi. E chiede agli attivisti del clima di portare al summit un semplice messaggio: “Se non si difendono le libertà politiche, non è possibile un’azione climatica significativa. Né in Egitto né in nessun altro paese. Questi temi sono legati tra loro, come i nostri destini”.


Omar Robert Hamilton è uno scrittore e regista egiziano-britannico. È tra i fondatori del Palestine festival of literature, una manifestazione che si svolge ogni anno in città della Palestina. In Italia ha pubblicato La città vince sempre (Guanda 2017). Questo articolo è stato scritto con il sostegno del progetto Africa is a country.

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Questo articolo è uscito sul numero 1484 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati