A meno di un mese dalle elezioni presidenziali e legislative del 9 agosto i keniani sono in fermento. Nonostante una prima fase insolitamente sottotono, il paese è in piena febbre elettorale. Sono state formate le alleanze e pubblicati i programmi dei partiti. I candidati si lanciano attacchi, il governo favorisce quelli della sua parte politica e i mezzi d’informazione abbondano in sensazionalismo. Gli elettori si lasciano allettare dalle promesse di una vita migliore, che vanno dalla sanità gratis ai soldi regalati, a favolose nuove attività industriali per esportare cannabis e testicoli di iena.

Fino a pochi mesi fa, non si vedevano la mobilitazione e l’entusiasmo che avevano caratterizzato le precedenti elezioni. John Githongo, un attivista anticorruzione ed editore del sito The Elephant, aveva scritto: “I keniani andranno al voto senza credere in nulla, senza parteggiare per nulla. Nessuna grande idea, nessuna questione per cui esaltarsi”.

Con la nomina dell’attivista per la giustizia sociale Martha Karua a candidata alla vicepresidenza di Raila Odinga, decano dell’opposizione e uno dei principali contendenti alla carica di capo dello stato, le cose sono un po’ cambiate: per la prima volta un’importante coalizione ha scelto di includere una donna ai vertici. Un sondaggio di metà maggio, dopo l’annuncio della scelta di Karua, per la prima volta ha dato la coppia in vantaggio sugli avversari. Ancora oggi sono i favoriti.

Il principale rivale di Odinga è William Ruto, l’attuale vicepresidente. Si candida insieme a Rigathi Gachagua, imprenditore ed ex assistente personale del presidente Uhuru Kenyatta.

Sulla carta la scelta sembra scontata per i keniani. Da un lato abbiamo Odinga e Karua, due personaggi simbolo di quella che chiamiamo “seconda liberazione”, il tentativo di strappare il Kenya alle grinfie della cleptocrazia che ha preso il posto dello stato coloniale dopo il 1963, l’anno dell’indipendenza dal Regno Unito.

Dall’altro c’è William Ruto, accusato di crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale per le violenze scoppiate dopo le contestate elezioni presidenziali del 2007, in cui lui paradossalmente sosteneva la candidatura di Odinga. Ruto è anche accusato di corruzione e non ha mai risposto alle domande sulle origini della sua ricchezza. Intanto sta portando avanti una campagna populista, facendo leva sullo scontento di molti cittadini per i dieci anni al potere di Kenyatta, durante i quali il paese è sprofondato nei debiti. L’attuale vicepresidente vuole presentare le prossime elezioni come uno scontro “dinastico”, tra le famiglie della cleptocrazia che hanno dominato la politica e l’economia dall’indipendenza, e i “traffichini”, termine con cui i keniani indicano le persone impoverite che hanno subìto la violenza di quel sistema. Tuttavia per Ruto, che negli ultimi vent’anni ha fatto parte di vari governi, potrebbe essere difficile convincere gli elettori di non aver niente a che fare con quel sistema.

La storia si ripete

Ma soprattutto queste elezioni raccontano di come i presunti buoni della politica keniana, cioè i progressisti che negli anni ottanta e novanta si opposero alla dittatura di Daniel Arap Moi e del suo partito Kenya african national union (Kanu), si stiano trasformando a loro volta in ipocriti e profittatori. Se negli anni passati avevano mal tollerato la corruzione e gli abusi di potere o gli si erano opposti con veemenza, oggi cercano l’appoggio di quello stesso sistema (l’attuale presidente Uhuru Kenyatta ha pubblicamente appoggiato Odinga alla presidenza, non il suo vice Ruto) e compiono a loro volta abusi di potere. Odinga e Karua sono felici di godere dei favori di uno stato che non è imparziale, a differenza di quanto prevede la costituzione, e tacciono quando Ke­nyatta assegna riconoscimenti pubblici ai suoi familiari o toglie dei terreni a un’università per darli all’Organizzazione mondiale della sanità.

Questa non è una novità per l’elettorato keniano, da tempo abituato a politici ipocriti che cambiano alleanze e posizioni come cambia il vento. Alla vigilia dell’indipendenza, per esempio, persone come il padre di Uhuru, Jomo Kenyatta, approfittarono della loro collaborazione con il regime coloniale per arrivare al potere, promettendo che tutto sarebbe cambiato dopo averlo ottenuto. Alla fine quel cambiamento fu un miraggio.

Solo un’eccezione

La novità di oggi è l’apatia di parti significative dell’elettorato: molte persone non sono andate a registrarsi per votare e non pensano di sostenere né l’uno né l’altro schieramento. Le elezioni, in particolare quelle presidenziali, che negli ultimi trent’anni sono state indicate come il percorso verso la democrazia e la crescita economica, sembrano aver perso il loro smalto.

Questo potrebbe essere un riflesso di tendenze più globali. Secondo l’International institute of democracy and electoral assistance (Idea), “dall’inizio degli anni novanta l’affluenza alle urne è calata in tutto il mondo”. Una ricerca del 2021 fa risalire questo declino agli anni sessanta, attribuendolo al cambiamento generazionale e alla stanchezza degli elettori causata da un numero sempre più alto di elezioni e cariche elettive. In Kenya le votazioni si sono moltiplicate dall’inizio del nuovo millennio, includendo referendum costituzionali, la ripetizione di elezioni presidenziali, voti per amministrazioni e assemblee locali, oltre a numerose suppletive.

Forse oggi l’affluenza alle urne si sta semplicemente assestando dopo l’euforia e le aspettative create dall’approvazione della nuova costituzione nel 2010. Secondo il professor Karuti Kanyinga dell’Institute for development studies dell’università di Nairobi, dal 2000 la partecipazione al voto in Kenya non ha mai superato il 70 per cento. La più bassa affluenza alle urne (57 per cento) è stata registrata in occasione delle elezioni più significative: quelle del 2002, che per la prima volta tolsero il potere al Kanu.

L’attuale apatia potrebbe quindi essere semplicemente una risposta all’eccessivo entusiasmo suscitato dalla nuova costituzione e dalle speranze di cambiamenti che avrebbe portato. E forse riflette la consapevolezza che le elezioni continuano a essere un percorso improbabile per ottenere un cambiamento reale e duraturo. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1470 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati