Il 20 marzo un’imbarcazione carica di profughi rohingya salpata dal Bangladesh e diretta in Australia si è rovesciata al largo delle coste indonesiane. Settantacinque persone, tra cui nove bambini, sono state tratte in salvo, ma più di settanta risultano disperse. Non si è trattato di un incidente isolato. Negli ultimi mesi è aumentato il numero dei rohingya, una minoranza musulmana birmana non ufficialmente riconosciuta e perseguitata, che fuggono via mare dagli accampamenti dove vivono da anni in condizioni precarie.

Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, tra gennaio e ottobre 2023 erano partiti dal Bangladesh in 1.783, e dopo il 1 ottobre il numero è cresciuto del 74 per cento, con un bilancio di 770 morti dall’inizio del 2023. A cosa è dovuto questo aumento? E in che modo la comunità internazionale dovrebbe rispondere a questa crisi umanitaria? Insieme a sei attivisti rohingya abbiamo fatto una ricerca nei campi profughi in Bangladesh per individuare i fattori che spingono a partire.

I rohingya che oggi vivono in Bangladesh, poco meno di un milione, sono i sopravvissuti di una vasta operazione condotta nel 2017 dall’esercito birmano per scacciarli dallo stato del Rakhine, dove vivevano da generazioni. Si stima che durante l’operazione siano morte tra le 7.800 e le 24mila persone. L’Onu ha definito l’operazione un “esempio da manuale di pulizia etnica”.

Apolidi

Prima di essere costretti alla fuga, i rohingya per decenni sono stati discriminati, gli è stato negato il diritto di cittadinanza, all’istruzione e al lavoro e hanno subìto restrizioni alla libertà di movimento e violenze dalle autorità. Nel 2019 abbiamo intervistato 27 persone tra insegnanti, madri, leader religiosi, guaritori tradizionali, giovani e attivisti che vivono nei campi profughi bangladesi. Volevamo sapere quanto fossero consapevoli delle conseguenze psicologiche della persecuzione e dello sfollamento, e in che modo le descrivessero. Questa consapevolezza è importante perché la maggior parte dei servizi di salute mentale si basa su terminologie occidentali che includono concetti come “depressione”, “ansia” o “stress”, che però potrebbero non essere del tutto adatti a descrivere l’esperienza dei rohingya.

Abbiamo scoperto che molti profughi usavano il termine sinta, “tensione”, che include i sentimenti di timore, preoccupazione e ansia e descrive l’esperienza di chi è apolide. Al centro del concetto di sinta c’è il sentirsi “senza opportunità” a causa dell’impossibilità di lavorare, studiare e spostarsi. Le persone intervistate hanno riferito che la mancanza di opportunità spinge a pensare troppo, provoca dolori fisici e conflitti in famiglia, tra le famiglie e con la comunità bangladese. Queste fonti di tensione sono peggiorate dopo il 2019 a causa degli arresti arbitrari, delle denunce inventate e delle incarcerazioni ordinate dalle autorità di Dhaka.

Per i campi si aggirano diversi gruppi armati che dopo il tramonto rapiscono persone e chiedono alle famiglie i soldi del riscatto, trafficano droga e uccidono chiunque cerchi di protestare. Donne e bambine vengono aggredite e finiscono nella tratta di esseri umani. I campi sono recintati, come prigioni a cielo aperto. Questo significa che quando scoppia un incendio, cosa che avviene abbastanza spesso, i profughi sono in trappola. A gennaio a causa di un rogo settemila persone sono rimaste senza un tetto. Nel frattempo, in Birmania, infuria la guerra civile, e alcuni rohingya sono stati uccisi da colpi di mortaio provenienti dall’altra parte del confine.

Il Bangladesh, uno dei paesi più densamente popolati e poveri del mondo, non può da solo risolvere il problema. E gli aiuti internazionali per i rohingya continuano a diminuire. Cosa può fare la comunità internazionale per trovare una soluzione duratura al problema?

Il dovere di aiutare

In quanto partner regionale con molte risorse, l’Australia potrebbe avere un ruolo molto più rilevante nell’assistenza umanitaria, invece di concentrarsi solo sulla punizione dei trafficanti di esseri umani o degli stessi profughi respingendo delle imbarcazioni. Come dimostrano i recenti arrivi in Australia e in Indonesia, i respingimenti e gli arresti non affrontano le ragioni di fondo delle migrazioni forzate. Non “fermano le barche”.

Al contrario sarebbe necessario che l’Australia, la Nuova Zelanda e gli altri paesi della regione esercitassero pressioni diplomatiche sulla giunta birmana affinché riconosca ai rohingya il diritto alla cittadinanza. E potrebbero contribuire a trovare una soluzione del conflitto in corso nello stato del Rakhine, per consentire ai profughi di tornare a casa.

Inoltre dovrebbero aiutare finanziariamente le organizzazioni umanitarie che lavorano in Bangladesh per rispondere ai bisogni immediati dei profughi in termini di viveri, riparo, cure mediche, istruzione e sostegno psicologico. E dovrebbero aumentare le pressioni su Dhaka affinché migliori le condizioni di vita nei campi e dia modo ai profughi rohingya di avere di che vivere, consentendogli di lavorare legalmente. Infine sarebbe importante dare priorità alle opportunità di reinsediamento dei profughi in paesi terzi, soprattutto per gli sfollati negli anni novanta. Il reinsediamento offre una soluzione duratura alle persone che hanno bisogno di protezione internazionale, dandogli la possibilità di costruirsi una vita sicura e dignitosa. ◆ gim

Ruth Wells e Max William Loomes sono due ricercatori in psicologia e salute mentale all’università del New South Wales di Sydney.

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Questo articolo è uscito sul numero 1557 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati