A 50 chilometri dalla costa, su un altopiano desertico dei monti della Giudea privo di risorse naturali e di protezione, Gerusalemme non era certo il sito ideale per una delle grandi città del mondo, il che spiega in parte perché è stata rasa al suolo dalle fiamme per due volte e assediata o attaccata più di settanta volte. Gran parte della città vecchia, che attira milioni di turisti e di pellegrini in visita nella Terra santa, risale a duemila anni fa, ma l’area che probabilmente ospitò la sede della monarchia di Giudea è precedente di un millennio. Secondo la Bibbia, il re David conquistò la città dei cananei e ne fece la sua capitale, ma in secoli di distruzioni e ricostruzioni ogni traccia di quel periodo è stata persa.

Nel 1867 un ufficiale britannico di nome Charles Warren decise di trovare le vestigia del regno di David. La sua intenzione era scavare sotto il famoso Monte del tempio, che i musulmani chiamano Haram al sharif, ma le autorità ottomane respinsero la sua richiesta. Allora Warren scelse di effettuare gli scavi su un pendio fuori dalle mura della città vecchia, avendo notato che nel libro dei Salmi Gerusalemme è descritta come una città situata non in cima a un’altura, ma in una valle circondata da alture.

Dati di fatto

Un lunedì mattina all’inizio dell’anno scorso ho camminato dal quartiere musulmano della città vecchia al sito archeologico portato alla luce da Warren, il cuore antico di Gerusalemme oggi noto come città di David. Nei vicoli della città vecchia la pietra tratteneva l’aria e i tendoni riparavano dal sole, quindi le strade erano fredde e buie, e l’atmosfera cupa. Solo i pellegrini erano in giro così presto. Gruppi di varie chiese statunitensi sfilavano lungo la via Dolorosa tenendo in mano esili croci di legno e cantando un inno che si basa su un versetto del Vangelo di Luca: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo regno”. Botteghe anguste vendevano incenso profumato alla gardenia, al muschio e all’ambra, accanto a felpe con il logo delle forze armate israeliane.

Ho attraversato la piazza del Muro occidentale fino alla Porta del letame, che secondo la credenza popolare segna l’antico percorso lungo il quale le giovenche rosse venivano condotte al tempio per il sacrificio. Fuori dalle mura della città vecchia, all’aperto, ho trovato luce, calore e chiasso. Autobus turistici erano in fila come vagoni ferroviari lungo il crinale. Lunedì è il giorno in cui in Israele si celebrano i bar mizvah e i bat mizvah, e i rulli di tamburo dei lontani festeggiamenti si mescolavano al frastuono dei martelli pneumatici dei vicini cantieri. Quando ho raggiunto la città di David, alcuni operai stavano rifinendo la pedana di legno posta all’ingresso del sito e posando un mosaico di marmo accanto allo sportello della biglietteria.

Avevo deciso di venire alla fine di gennaio, quando gli archeologi avrebbero avuto la pausa di metà semestre, anche se tutti mi avevano avvertito che rischiavo di trovare brutto tempo. Quella mattina il cielo era nebbioso e luminoso, ma i segni dell’inverno erano visibili altrove. Nel cortile del centro visitatori, melagrane sgonfie pendevano dagli alberi e alle viti era ancora appeso, scuro e rinsecchito, qualche grappolo d’uva dell’estate precedente.

Mentre lì accanto si radunavano gruppi di scolari, mi sono seduta a un tavolino con Zeev Orenstein, il direttore per gli affari internazionali della Ir David foundation, che gestisce il sito archeologico ed è più conosciuta con la sigla ebraica Elad. Orenstein aveva l’aspetto e i modi del presidente di una confraternita: vigile, esperto e navigato. Indossava occhiali da sole e un maglione ufficiale della città di David e aveva in mano una Bibbia rilegata in nero piena di segnapagina, che indicava mentre parlava. “L’archeologia dimostra tutti i giorni, al di là di ogni ragionevole dubbio, che queste cose sono successe davvero”, mi ha detto. “Non è semplicemente una questione di fede, sono dati di fatto”.

Una Disneyland biblica

Nei siti sparsi per Israele, gli archeologi hanno riportato alla luce alcuni oggetti eccezionali riconducibili ai racconti biblici. Negli anni novanta un’équipe ha trovato a Tel Dan, una pianura verdeggiante nei pressi delle alture del Golan, un’iscrizione del nono secolo che probabilmente contiene un riferimento alla casa di David: la prima prova archeologica dell’esistenza storica di re David. Molti israeliani basano la loro rivendicazione nei confronti della terra sulla discendenza da David, spesso definito come il fondatore di Gerusalemme. La fondazione Elad è pienamente consapevole del significato spirituale e politico degli scavi per trovare i resti della sua dinastia nelle alture intorno al Monte del tempio. Il gruppo ha trasformato la città di David in una delle mete turistiche più popolari d’Israele puntando sul suo legame con la Bibbia. Ogni anno 600mila persone vengono a visitare il luogo dove si ritiene che David abbia regnato a un certo punto del decimo secolo aC.

“Questa è una Disneyland biblica che però è reale”, diceva un portavoce della Elad nel 2008. “Puoi toccare le pietre. Puoi toccare i testi. David ti accompagna durante la visita”. Secondo la Bibbia, David suonò la sua arpa per scacciare uno spirito maligno dal corpo di Saul e teneva lo strumento appeso a un piolo sopra il letto. Nella città di David gli altoparlanti posti nel cortile diffondono melodie eseguite con l’arpa e la grande scultura di un’arpa copre un’arcata dell’ingresso. Sui cestini dell’immondizia sparsi per tutto il sito è raffigurato il leone rampante di Giuda. Certe sere la Elad offre uno spettacolo di suoni e luci proiettate sulle rovine. I tour cominciano con un filmato in 3d presentato da un uomo con un completo beige in stile safari e un cappello a tesa larga che brandisce una Bibbia, come un Indiana Jones devoto. “Chiudete gli occhi”, esorta una voce fuori campo, “provate a immaginare i soldati di re David che si avvicinano alle spesse mura e strisciando al buio cercano le gallerie scavate nella roccia”.

Orenstein mi ha accompagnato dentro il sito, che vibrava a causa dei lavori in corso. Le rovine in sé non sono niente di che. In gran parte risalgono ai primi tempi della città, l’epoca cananea; sono grandi, grezze e senza decorazioni. Scale e piattaforme panoramiche ricavate nel pendio della collina conducono i turisti a un grande muro di contenimento tutto storto, noto come Struttura di pietra a gradini, che scorre lungo le fondamenta di tipiche case giudee a quattro vani e arriva fino a un antico sistema di gallerie che serviva a rifornire d’acqua la città.

Ci siamo fermati su una grata metallica sospesa sopra un vasto letto di roccia e i resti di quelli che potevano essere stati due muri, costituiti da blocchi squadrati e irregolari e da cumuli di pietre più piccole. Uno dei muri sembrava spesso circa due metri e mezzo. In un cartello sopra le nostre teste c’era scritto: “I resti del palazzo di re David?”.

Ho notato il punto interrogativo. Nonostante il nome del sito, il video in 3d e le melodie dell’arpa, gli archeologi non hanno trovato niente che leghi in modo decisivo quest’area a re David. Quella che la Bibbia descrive come un’età dell’oro di espansione sotto il patrocinio di David e dei suoi discendenti, occupa uno spazio curiosamente esiguo nella storia dell’archeologia. Nel 2005 un’archeologa di nome Eilat Mazar ha annunciato di aver trovato “la casa di legno di cedro” – il palazzo che si presume fosse stato costruito per David da tagliapietre e falegnami provenienti da Tiro – proprio sotto il centro visitatori della Elad. La comunità degli archeo­logi ha quasi unanimemente respinto la teoria di Mazar, ma la Elad continua a presentarla come una possibilità.

“Non abbiamo ancora trovato un’insegna con scritto: ‘Benvenuti al palazzo di re David’”, ammette Orenstein. “Forse si troverà e forse no”. Ma la maggior parte dei turisti, ha aggiunto, non è come me. Con questo, a quanto pare, voleva dire che hanno un’elevata tolleranza per la complessità, o l’incertezza, dell’archeologia: “Vogliono solo ascoltare qualche bella storia, non la lezione di un professore”.

La Elad ha altri motivi per promuovere la presenza di David nel sito. La città di David si trova a Gerusalemme Est, al di là della Linea verde – il confine internazionalmente riconosciuto che separa lo stato di Israele dai Territori palestinesi – su quelli che sono forse i pochi chilometri più contesi del conflitto israelo-palestinese. Gerusalemme Est è stata di fatto annessa da Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967, ma l’area è ancora considerata terra occupata dalle Nazioni Unite.

La Elad sa che quello che viene trovato nella città di David, e quale storia è rappresentata in quel luogo, ha la potenzialità di determinare il destino politico di Gerusalemme. Molti turisti non lo sanno, ma la Elad è un gruppo di coloni di destra che si serve dell’archeologia nel tentativo a lungo termine di rafforzare il controllo israeliano su Gerusalemme. “Molte persone sostengono che Israele esiste a causa dell’olocausto”, mi ha detto Orenstein. “Ma non è così: Israele esiste perché è il luogo dove il popolo ebraico abita da millenni, e le antichità che vengono riportate alla luce ogni giorno lo dimostrano”.

“Non abbiamo ancora trovato un’insegna con scritto: ‘Benvenuti al palazzo di re David’”, ammette Orenstein. “Forse si troverà e forse no”

Un’ombra di sospetto

L’archeologia è stata un’ancella del nazionalismo fin dai suoi esordi, è una sorta di saccheggio reso rispettabile praticato da eserciti e da aristocratici per avvalorare teorie imperialistiche sul progresso della civiltà. Ancora oggi la disciplina si trova scomodamente a metà tra le scienze e gli studi umanistici: ha aspetti molto tecnici, ma in ultima analisi poggia sull’interpretazione che danno gli esseri umani di ciò che credono di vedere nel terreno.

Ho partecipato al mio primo scavo a 16 anni, e a lungo ho pensato di diventare archeologa, ma nel 2015 ho rinunciato al dottorato in parte proprio perché la materia era troppo scivolosa. Un modo di ragionare tendenzioso o spinto da altre motivazioni può facilmente sfumare in pseudoscienza. Come ha scritto Susan Pollock, un’archeologa della Freie Universität di Berlino, “il controllo sul passato e sulla sua interpretazione è fonte di potere nel presente”. E quel potere è stato spesso sfruttato, a volte in modo pericoloso.

Gli stati moderni hanno sempre cercato di trarre legittimità dalle loro storie, reali o immaginarie che fossero. Ma in nessun posto l’archeologia è stata più centrale per il progetto di costruzione della nazione come in Israele. All’epoca della sua fondazione, nel 1948, circa 650mila pionieri del sionismo abitavano il nuovo stato. Nel giro di un decennio il paese assorbì quasi il triplo di immigrati. Molti provenivano dai campi di sterminio d’Europa, ma la maggioranza era stata espulsa dal Nordafrica e dal Medio Oriente. I nuovi arrivati non facevano parte dell’originario progetto socialista dei sionisti, e avevano ben poco in comune con loro, a parte essere ebrei e sentirsi circondati dall’ostilità.

Il primo ministro David Ben Gurion, che voleva disperatamente offrire una base di solidarietà nazionale, incoraggiò gli archeologi a passare al setaccio la terra in cerca di prove concrete della narrazione storica esposta nella Bibbia, quello che lui chiamava “il sacrosanto atto di proprietà della Palestina”. Furono avviati nuovi scavi a Masada, Hazor e Megiddo: tutti siti diventati leggendari nella coscienza collettiva.

Nei decenni successivi alla nascita di Israele l’archeologia è diventata quella che lo storico Howard Sachar ha definito “una vocazione nazionale”. Dopo la guerra dei sei giorni, quando Israele si annesse la Cisgiordania e Gaza, gli archeologi israeliani portarono i loro attrezzi nei Territori occupati. L’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu difende spesso la presenza israeliana in quei territori appellandosi alla storia. “Li sento spesso accusare Israele di giudaizzare Gerusalemme”, ha dichiarato all’assemblea generale dell’Onu nel 2011. “È come accusare gli Stati Uniti di americanizzare Washington o i britannici di anglicizzare Londra. Lo sapete perché ci chiamano ‘giudei’? Perché veniamo dalla Giudea”.

Si dice che Israele sia oggi il paese con più scavi archeologici di tutto il mondo. L’Israel museum di Gerusalemme è pieno di reperti che testimoniano l’antica presenza ebraica in Terra santa, tra cui amuleti d’argento con benedizioni sacerdotali del sesto secolo aC, mosaici provenienti da una sinagoga del tardo periodo romano e i rotoli del mar Morto, tra i più antichi manoscritti biblici del mondo. Ci sono anche un paio di sigilli in argilla, entrambi ritrovati nella città di David e appartenuti a Godolia, figlio di Pascur, e a Jucal, figlio di Selemia. I loro nomi compaiono insieme nel libro di Geremia, non solo nello stesso capitolo, ma nello stesso versetto, dove sono definiti come consiglieri di Zedechia, l’ultimo re di Giuda, che gettò Geremia in una cisterna perché aveva profetizzato la distruzione di Gerusalemme da parte dei babilonesi.

Sono stati soprattutto i gruppi di destra a riconoscere il valore politico di questi ritrovamenti e così facendo hanno gettato un’ombra di sospetto sull’archeologia israeliana, anche se praticata dagli studiosi più scrupolosi. In un’intervista alla Cnn nel 2013, Naftali Bennett, capo del partito vicino ai coloni La casa ebraica, ha tirato fuori dalla tasca una moneta giudea di duemila anni per contestare chi chiama “occupazione” la presenza israeliana in Cisgiordania.

Il fondatore della Elad, David Beeri, è stato uno dei primi ultranazionalisti ad abbracciare l’archeologia. Beeri era vicecomandante della Duvdevan, un’unità antiterrorismo delle forze armate israeliane, i cui componenti erano noti per le operazioni sotto copertura nelle zone urbane, durante le quali si travestivano spesso da arabi. L’unità di Beeri era attiva a Silwan, il villaggio palestinese che circonda la città di David, e lui affermò di essere costernato dallo stato di degrado in cui si trovava l’area. Dal crinale più alto di Silwan si possono vedere molti dei luoghi più santi di Gerusalemme: la cupola dorata della Roccia, quella in lamine di piombo della moschea Al Aqsa e i sepolcri del Monte degli ulivi, i cui occupanti saranno i primi a risorgere al ritorno del Messia. Ma l’area in sé è una delle più povere d’Israele, un villaggio che si estende sulle pendici delle alture a sud del Monte del tempio, i cui 20mila abitanti vivono accanto e sopra le antiche rovine.

Lasciate le forze armate, Beeri fondò la Elad con lo scopo di riqualificare l’area, il che in pratica significava ideare modi creativi per sfrattare i palestinesi dalle loro case e trasferire famiglie ebree nella parte di Silwan più vicina alla città di David. Secondo un rapporto pubblicato nel 2009 da Ir Amim, un’ong di Gerusalemme, Beeri aveva finto di essere una guida turistica per muoversi nel quartiere senza dare nell’occhio e presto aveva conosciuto Ibrahim Abbasi, il custode palestinese della vicina fonte d’acqua dolce, proprietario di un vasto appezzamento di terra nel villaggio. Il rapporto cita anche la testimonianza della moglie di Beeri, Michal, secondo cui il marito “prese una tessera da guida turistica e ci attaccò la sua foto, e per molto tempo portò in visita gruppi di finti turisti. Pian piano fece amicizia con Abbasi. Naturalmente era tutta una messinscena”.

Scavi archeologici fuori dalla città vecchia di Gerusalemme e, sullo sfondo, la moschea Al Aqsa. 7 luglio 2019 (Tanya Habjouqa, Noor per Harper’s)

Nel cuore della notte

Decenni prima Israele aveva approvato la cosiddetta legge sulla proprietà degli assenti, che aveva consentito allo stato di requisire le proprietà dei palestinesi che avevano lasciato le loro case, volenti o nolenti, durante la guerra del 1948. Nel settembre del 1987 il governo israeliano dichiarò i proprietari della casa della famiglia Abbasi “assenti”, a loro insaputa. Beeri fece in modo che la proprietà fosse affittata alla Elad, e nell’ottobre del 1991 alcuni agenti del gruppo s’impadronirono della casa nel cuore della notte, calandosi con una fune attraverso un lucernario mentre gli Abbasi dormivano nei loro letti. Dopo aver gettato i mobili fuori di casa, gli intrusi tornarono sul tetto, dove, secondo quanto ricostruito da Ir Amim, “si misero a cantare e a ballare sventolando la bandiera d’Israele alla luce dell’alba”. In seguito un tribunale ha sentenziato che la casa degli Abbasi era stata definita proprietà di assenti impropriamente, ma ancora oggi ci abitano dei coloni.

Negli anni seguenti, operazioni del genere sono diventate abituali per Beeri. “Quando entro in una casa”, ha dichiarato nel 2008, “lo faccio come se si trattasse di un’operazione militare. Sempre con una pistola, con una radio, con qualcuno insieme a me e con qualcuno fuori che sa cosa sta succedendo”.

Dopo che Gerusalemme Est fu proposta come capitale di un nuovo stato palestinese nell’ambito degli accordi di Oslo, nel 1993, la Elad cominciò a finanziare gli scavi alla città di David per rafforzare il legame ebraico con l’area. In seguito aprì un centro visitatori e cominciò a organizzare visite guidate con lo scopo esplicito di indebolire le rivendicazioni dei palestinesi. Un opuscolo della Elad del 1997 spiegava che “il centro visitatori si prefigge di essere il principale ente di diplomazia pubblica nell’arena della battaglia per Gerusalemme”. Spesso gli addetti agli scavi si sono trovati in disaccordo con la Elad sull’interpretazione del loro lavoro. “Ho trovato una cisterna bizantina”, ha raccontato uno di loro a Ir Amim. “Hanno detto che si trattava del pozzo di Geremia. Gli ho risposto che era un’assurdità. A volte s’inventano di tutto”.

Quando la Elad propose di rilevare dallo stato la gestione quotidiana della città di David, nel 1997, il progetto suscitò un’opposizione quasi universale. All’epoca la Elad era vista come un’organizzazione radicale e marginale. Un consulente legale assunto dall’Autorità per le antichità d’Israele (Iaa) per fornire un parere sulla proposta sconsigliò di lavorare con la Elad, che definì “una fondazione privata le cui azioni nel recente passato sono state più che discutibili sotto il profilo della legalità”. Ma la Israel lands authority sotto Netanyahu, che era appena stato eletto primo ministro, firmò un contratto con la Elad, incaricando il gruppo “della custodia e della manutenzione” della città di David. L’alta corte di giustizia chiese di riesaminare l’accordo, ma la Elad ha conservato il pieno controllo del sito. “Siamo quasi una branca del governo d’Israele”, ha detto nel 2008 Doron Spielman, direttore dello sviluppo della Elad.

La casa della famiglia di Abu Saleh Aweideh a Silwan, danneggiata dagli scavi per un tunnel. 7 luglio 2019 (Tanya Habjouqa, Noor per Harper’s)

Capitolazione totale

Dopo la visita, sono tornata alla Porta del letame per incontrare Rafi Greenberg, un archeologo israeliano e uno dei maggiori critici della Elad. Il sole invernale si era fatto strada attraverso la caligine, e Green­berg si era tolto il cappello di lana, che teneva nella mano sinistra, una protesi di silicone color carne, il risultato di una mina difettosa durante il suo servizio di leva obbligatorio nell’esercito israeliano.

I jeans stinti e la felpa grigia davano un aspetto rilassato a quest’uomo di mezza età, che però era agitato. “Oggi c’è mancato poco che mi arrestassero”, ha annunciato. Era appena rientrato da un tour dei monumenti islamici della città vecchia condotto dallo storico dell’arte palestinese Tawfiq Daadli. Un poliziotto aveva fermato il gruppo mentre provava ad avvicinarsi al Monte del tempio per visitare una madrasa mamelucca del trecento. “Finché Tawfiq è stato zitto non è successo niente”, mi ha raccontato Greenberg. “Ma siccome Tawfiq ha risposto, il poliziotto ha detto: ‘Ma chi è questo arabo arrogante, e come si permette di parlarmi?’. L’ha scatenato, l’ha fatto scattare”.

Greenberg mi ha raccontato che da giovane era stato arrestato “qua e là” per il suo impegno nel movimento per la pace, ma all’epoca non vedeva problemi tra il suo attivismo e il suo lavoro. Era cresciuto in un’era di positivismo, in cui l’archeologia era considerata una scienza moderna al servizio di uno stato laico. Negli anni settanta e ottanta aveva condotto scavi nella città di David, gestita a quel tempo dalla Hebrew university.

Allora i critici più accaniti dell’archeologia erano gli haredim ultraortodossi, secondo i quali gli scavi disturbavano le tombe ebraiche. Folle di studenti delle yeshiva, i seminari rabbinici, facevano incursione nel sito e appendevano per strada striscioni per denunciare gli “archeologi rapinatori”. Diedero alle fiamme gli uffici degli addetti agli scavi e tagliarono le gomme delle loro auto, e il registro dell’Autorità per le antichità d’Israele fu classificato come documento riservato per proteggere i suoi dipendenti. Gli scontri finirono solo quando alcuni rabbini furono nominati nel consiglio per l’archeologia e la cura dei resti umani fu affidata al ministero per gli affari religiosi. “Fu considerata una capitolazione totale”, mi ha detto Green­berg.

La situazione politica cominciò a cambiare verso la fine degli anni ottanta. La pressione di gruppi di coloni radicali, sostenuti da politici di destra come Ariel Sharon, stava allontanando Israele dalla vecchia posizione dei religiosi, secondo cui non bisognava forzare la mano di Dio ponendo altre terre sotto il controllo di Israele, spingendolo verso una teologia ultranazionalista che perseguiva ardentemente quello scopo. “L’uso dell’archeologia come fattore di legittimazione dello stato è diventato un segno distintivo di Netanyahu”, diceva Greenberg in un’intervista al quotidiano Haaretz nel 2006. “L’archeologia è diventata parte del conflitto”.

Quando Israele si annesse la Cisgiordania e Gaza, gli archeologi israeliani portarono i loro attrezzi nei Territori occupati

Greenberg, che ora insegna all’università di Tel Aviv, rifiuta di effettuare scavi oltre la Linea verde e condanna pubblicamente ogni archeologo che accetti di lavorare nei siti gestiti dalla Elad. È tra i fondatori dell’ong Emek Shaveh, che monitora l’attività della Elad a Silwan. “Sono andati nel quartiere più povero di Gerusalemme e hanno sfrattato la gente”, mi ha detto Greenberg. “Sfortunati quelli che si erano costruiti la casa su quel sito antico. Ora non hanno dove andare” (nella maggior parte dei casi i palestinesi che abitano a Gerusalemme Est sono considerati “residenti permanenti”: possono lavorare in Israele ma non hanno il passaporto, e se escono dal paese potrebbero non essere riammessi).

Emek Shaveh offre anche tour alternativi della città di David che mettono in discussione alcuni aspetti della narrazione della Elad, tra cui l’identificazione del palazzo di re David. “Secondo me neanche loro ci credono davvero”, mi ha detto Green­berg. “Non gli importa nulla dell’archeologia. È solo uno strumento”.

Ripercorrere le orme

“L’archeologia è il modo con cui i coloni hanno conquistato Silwan”, mi ha detto Yonatan Mizrahi, l’attuale direttore di Emek Shaveh, due giorni dopo la mia visita alla città di David. Eravamo accanto all’ingresso dell’ultimo scavo della Elad, nascosto alla vista dei passanti dietro un’alta recinzione di metallo decorata con teli di plastica scuri e tempestata di telecamere di sorveglianza puntate sulla strada. Da fuori sembrava più un cantiere edile che uno scavo archeologico. Grossi sacchi di pietre e di terriccio erano allineati sul marciapiede accanto a un cassonetto pieno di secchi e di detriti vari. Mizrahi, i cui nonni arrivarono in Israele dal Kurdistan, ha le ciglia lunghe e le tempie che cominciano a imbiancare. Sono più di dieci anni che documenta le attività della Elad a Silwan. Prima di fondare Emek Shaveh nel 2009, aveva lavorato come archeologo per l’Iaa, che lo aveva incaricato della supervisione degli scavi lungo il tracciato della barriera di separazione che doveva dividere Israele dalla Cisgiordania. “Per me quella è stata la scintilla”, mi ha detto.

Con le spalle alle telecamere di sorveglianza, Mizrahi mi ha spiegato che la Elad stava sponsorizzando gli scavi di una strada del primo secolo sostenendo che fosse stata percorsa dai pellegrini ebrei dopo essersi purificati in una piscina alla base della collina e prima di salire al tempio di Erode. Le rovine si trovavano sul lato opposto della strada rispetto alla città di David, proprio sotto decine di case palestinesi. Così la Elad, in coordinamento con l’Iaa, aveva ricevuto il permesso per scavare un tunnel.

Scavare tunnel è considerata una pratica discutibile dalla maggioranza degli archeologi, che di solito preferiscono scavare dalla superficie verso il basso, rimuovendo uno strato dopo l’altro per evitare di confondere i vari periodi. Spesso gli archeologi esperti che lavorano sul campo individuano un nuovo strato semplicemente notando un lieve cambiamento del colore, della densità e della consistenza del terreno. Queste sottili osservazioni diventano molto più difficili al buio, con uno spazio di manovra limitato. “Scavare tunnel non è un metodo scientifico di ricerca”, mi ha detto Mizrahi. “Forse si può prendere in considerazione se è questione di vita o di morte, ma l’archeologia non è questione di vita o di morte”.

Nelle profondità della terra, la Elad sta estraendo il terriccio che ricopre la strada dei pellegrini, inserendoci una guaina di cemento rinforzata con archi d’acciaio, che spera di poter trasformare in una galleria delle dimensioni di un sottopassaggio per i turisti, che potranno, come si legge sul sito del gruppo, “ripercorrere le orme degli antichi pellegrini”.

Da un sondaggio commissionato da Emek Shaveh nel 2016 è emerso che il 44 per cento dei palestinesi di Gerusalemme Est cita gli scavi archeologici tra le proprie preoccupazioni principali. Più di metà degli intervistati pensa che lo scopo degli scavi sia rafforzare il controllo di Israele su Gerusalemme e cancellare ogni traccia della storia musulmana dalla città. “Non so cosa ci fanno con tutta quella terra”, ha detto Sahar Abbasi, un’attivista palestinese la cui casa si trova vicino agli scavi. “Lavorano più di dieci ore al giorno e a volte fino a notte inoltrata”, ha aggiunto. “Sono forse arrivati all’inferno?”.

I palestinesi che vivono sopra la strada dei pellegini hanno denunciato che il terreno rimosso dagli scavi ha provocato un abbassamento del suolo, causando danni strutturali e minacciando la stabilità delle loro case. Inoltre, man mano che la città di David si espandeva, i luoghi pubblici aperti agli abitanti di Silwan sono stati chiusi e annessi al parco.

Una cronologia diversa

Emek Shaveh non è più l’unico gruppo a contestare l’interpretazione data da Elad dei ritrovamenti nella città di David. Nel 2017 Yuval Gadot, un collega di Green­berg all’università di Tel Aviv, ed Elisabetta Boaretto, una fisica dell’istituto Weizmann di Rehovot, hanno lavorato insieme a due archeologi dell’Iaa per datare con il metodo del radiocarbonio dei monumenti a Gerusalemme, per un progetto chiamato Impostiamo l’orologio nella città di David.

Quando il gruppo ha cominciato a lavorare esistevano solo dieci datazioni al radiocarbonio affidabili provenienti da tutti gli scavi della città. Di conseguenza la cronologia di Gerusalemme era “una supposizione su una supposizione su una supposizione”, mi ha detto Gadot. “Non c’è un singolo posto in cui la datazione sia dimostrata oltre ogni dubbio”. Lui e la sua équipe speravano di correggere quella situazione, indipendentemente dalle implicazioni del loro lavoro sulla veridicità della narrazione biblica.

Il primo monumento che hanno deciso di datare è stata la torre della sorgente di Gihon, una massiccia fortificazione sulla pendice orientale della città di David, che fu eretta nell’antichità intorno alla fonte che riforniva la città, per impedire che fosse conquistata. Due archeologi israeliani avevano scoperto la torre nel 2004. Sulla base dello stile architettonico e del tipo di ceramiche che avevano trovato intorno alle fondamenta, l’avevano datata alla media età del bronzo (tra il ventesimo e il sedicesimo secolo aC).

Sui suoi cartelli, la Elad suggerisce che la torre della sorgente di Gihon sia la “fortezza di Sion”, che secondo il libro di Samuele fu conquistata da re David quando attaccò Gerusalemme. “Sembra che il re David si fosse fermato di fronte a questa torre quando venne a conquistare la città dei gebusei tremila anni fa”, dice il testo. Ma nel 2017 l’équipe di Gadot ha sottoposto dei campioni alla datazione con il radiocarbonio e ha concluso che la struttura risale al nono secolo aC, quindi oltre un millennio più tardi. Se la nuova datazione è corretta, non esisteva al tempo di re David. “La scienza non si fa pilotare dalla politica”, mi ha detto Boaretto. “Ecco perché la Bibbia è un problema”.

Sono andata con Gadot a vedere la torre della sorgente di Gihon, che ora è sepolta sotto la superficie del terreno e accessibile solo tramite la rete di antiche gallerie che erano state sgomberate per i turisti. Abbiamo sceso una scala metallica attraverso un canale scavato nel sostrato roccioso. Gadot aveva il fiato corto quando alla nostra sinistra è apparsa un’immensa muraglia di massi e il tunnel è sfociato in una camera sotterranea, con luci arancioni che spargevano un soffuso bagliore sulle pietre.

“Non so cosa ci fanno con tutta quella terra”, ha detto Sahar Abbasi. “Lavorano più di dieci ore al giorno. Sono forse arrivati all’inferno?”

La fortificazione era talmente massiccia che ci ho messo vari secondi a realizzare che davanti agli occhi avevo un’unica struttura. Gadot mi ha indicato il sedimento sotto le fondamenta in basso. “I miei colleghi sono venuti qui e hanno prelevato i campioni pensando di riuscire a stabilire se si trattasse di antica o media età del bronzo”, mi ha spiegato. “La datazione che è venuta fuori li ha sconvolti”.

Chi siamo noi

Gadot ha condotto scavi alla città di David che sono stati duramente criticati da gruppi di sinistra e in particolare dal suo collega Greenberg, convinto che qualunque accordo con la Elad equivalga ad avallare un programma a favore dei coloni. Gadot si è affrettato a chiarire che lavora con l’Iaa e non con la Elad. Ma considerata la stretta collaborazione tra il governo e i coloni, quella distinzione appare più sfumata di quanto lui forse vorrebbe.

Avevo visto il video promozionale della città di David in cui Gadot mostra un orecchino d’oro di epoca ellenistica ritrovato nel sito. “A Gerusalemme l’archeologia è sempre oggetto di critiche”, mi ha detto. “Non possiamo farci nulla, ma una cosa di cui possiamo prenderci la responsabilità è fare archeologia nel modo migliore. D’accordo, voi contestate il nostro diritto di scavare qui, ma non potete contestare i nostri metodi. È per questo che ci rivolgiamo al mondo delle scienze”.

Gadot si è mostrato sprezzante verso la posizione di Greenberg, secondo cui gli archeologi dovrebbero rifiutarsi di lavorare con la Elad. “Meglio stare qui e prendere parte alla creazione della narrazione”, ha detto, “piuttosto che scappare dicendo che tutto quello che succede è sbagliato”. Secondo Gadot, il coinvolgimento di archeologi rispettati e di istituzioni accademiche come l’università di Tel Aviv ha spinto la Elad ad attenersi alle migliori pratiche della disciplina. “Penso sia questa la cosa principale che stiamo cercando di dire: non è tutto bianco o tutto nero. La vita è grigia”.

La città di David e, sullo sfondo, Silwan. Gerusalemme Est, 9 luglio 2019 (Tanya Habjouqa, Noor per Harper’s)

Ho notato che i cartelli alla torre della sorgente di Gihon non erano stati corretti sulla base delle rilevazioni di Boaretto e ho chiesto a Gadot se avesse parlato con la Elad degli aspetti della presentazione del sito che giudicava erronei o fuorvianti. “Conversazioni sì”, ha risposto. “Risultati positivi non ancora”.

Gli archeologi ricostruiscono il passato sulla base dei materiali di ogni genere trattenuti nel terreno per millenni, e che sono una minima percentuale di quello che esisteva all’epoca. Trasformare quelle testimonianze parziali in una narrazione su persone e avvenimenti richiede una profonda conoscenza della storia e una certa dose di immaginazione. Dato che l’archeologia lega l’identità al territorio, spesso le questioni che deve affrontare sono motivate da interessi geopolitici contemporanei. Armati di cocci e di iscrizioni, i gruppi etnici o gli stati possono raccontare storie sul passato che gli consentono di fare rivendicazioni su chi sono e qual è il loro posto nel presente.

Ma questa logica si basa sulla nostra capacità di definire un’identità di gruppo nel tempo, cosa che è diventata ancora più complessa via via che il carattere dello stato nazione si è adattato ai flussi migratori.

Cosa rende i francesi di oggi uguali a quelli del seicento o ai galli dell’antichità? Il corredo genetico? La lingua, le prassi e le tradizioni comuni? Oppure la casualità di vivere all’interno dei mutevoli confini della Francia? Il concetto stesso di primato, la rivendicazione che “qui c’eravamo prima noi”, dipende dalla possibilità di definire chi siamo “noi”. Al tempo in cui i figli e i nipoti di re David governavano Gerusalemme, per esempio, i giudei erano politeisti: l’ebraismo come lo intendiamo oggi non è emerso fino al terzo o secondo secolo aC.

Dato che l’archeologia lega l’identità al territorio, spesso le questioni che deve affrontare sono motivate da interessi geopolitici

Avanti e indietro

A luglio dell’anno scorso il profilo Twitter di Netanyahu ha condiviso un articolo di Science Advances su uno studio che sosteneva di aver rintracciato in Europa meridionale le origini genetiche dei filistei, i nemici biblici degli israeliti dal cui nome deriva il termine “Palestina”. “Non c’è nessun rapporto tra gli antichi filistei e i moderni palestinesi, i cui antenati vennero dalla penisola arabica nella terra d’Israele millenni dopo”, ha scritto Netanyahu. “Il legame dei palestinesi con la terra d’Israele non è nulla in confronto al legame che il popolo ebraico ha con la terra da quattromila anni”.

Da tempo gli archeologi sostengono che alcuni individui fossero migrati dalle isole greche verso est fino a raggiungere quest’area agli albori dell’età del ferro, ma molti hanno contestato l’interpretazione che i mezzi d’informazione hanno dato delle nuove scoperte. David Wengrow, un archeologo dell’University college di Londra, ha scritto che il tweet di Netanyahu è stato “senza dubbio difficile da leggere per gli autori dello studio”. A sua volta Wengrow ha commentato su Twitter: “Nell’antichità il Mediterraneo orientale era un luogo di costante mescolanza, non di gruppi separati di ‘europei’ e ‘levantini’. Questa è la lettura che ne abbiamo dato noi”.

Ma gli argomenti basati sul primato hanno conservato la loro forza e importanza sia per i palestinesi sia per gli israeliani. Organizzazioni non profit filoisraeliane come StandWithUs e Camera hanno cercato di attirare gli studenti di sinistra dei campus statunitensi usando il linguaggio dei diritti dei popoli indigeni. L’ex ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, ha paragonato gli ebrei in Israele ai nativi americani, dicendo: “Un componente della nazione sioux ha diritto di vivere sul territorio della nazione sioux. Queste sono le nostre terre tribali”.

Confronti del genere non solo semplificano eccessivamente l’identità degli indigeni, ma contraddicono la stessa narrazione biblica, che parla di guerre sanguinose combattute dagli israeliti contro gruppi che li avevano preceduti nella terra del latte e del miele. Il Levante è stato per millenni un corridoio tra l’Asia centrale e il Mediterraneo, con soldati e carovane che si muovevano avanti e indietro attraverso i suoi deserti e le sue pianure. Parlare di indigeni non ha senso qui, mi ha detto Greenberg: “Non c’è mai stato un tempo in cui quest’area fosse immacolata, quando non c’erano immigrati e nessuno andava e veniva. Qui tutto è in un flusso costante”.

Verso il tramonto

Alcuni leader del mondo arabo sono andati ancora oltre nel liquidare le pretese degli ebrei al primato, negando che sul Monte del tempio sia mai sorto un tempio ebraico. Nel 2001 il capo religioso dell’Autorità nazionale palestinese ha dichiarato che “in tutta la città non c’è neanche una pietra che faccia riferimento a una storia ebraica. Il nostro diritto, d’altra parte, è chiarissimo. Questo luogo ci appartiene da 1.500 anni”.

La Elad è molto sospettosa nei confronti dell’Onu e del suo organismo culturale, l’Unesco, che Orenstein descrive come prevenuto nei confronti d’Israele. Perfino alcuni rappresentanti di Emek Shaveh hanno criticato una bozza dell’Unesco del 2016 sulla “Palestina occupata”, che secondo loro indeboliva implicitamente il legame tra l’ebraismo e il Monte del tempio. “Attualmente siamo in una frenesia di derisione reciproca”, mi ha detto Daniel Seidemann, esperto della geopolitica di Gerusalemme. “Per i musulmani è socialmente inaccettabile riconoscere la connessione degli ebrei con il Monte del tempio. E gli ebrei estremisti e i cristiani evangelici sostengono che non c’è un rapporto con i musulmani, che è tutta una pretesa moderna, un’invenzione”. Durante la nostra passeggiata nella città di David, Orenstein ha citato spesso il fatto che gli arabi negano la presenza antica degli ebrei a Gerusalemme. La Elad dice di voler proteggere e sostenere il patrimonio ebraico, ma aver affidato uno dei siti archeologici più importanti del paese a un gruppo di coloni ultranazionalisti potrebbe aver compromesso quell’obiettivo.

In un tardo pomeriggio sono andata in auto con Greenberg a visitare uno dei suoi vecchi scavi a Gerusalemme Ovest. Procedevamo in direzione del tramonto, su un crinale oltre la valle della Croce e i raggi che colpivano il suo volto segnato facevano scintillare le sue iridi verdi. Greenberg affondava nel sedile del conducente e s’infuriava per l’incursione della Elad a Silwan: “La pressione per effettuare scavi è incessante. E naturalmente viene usata, abusata o sfruttata di continuo dai politici”.

Emek Shaveh lavora per scatenare la condanna dell’opinione pubblica nei confronti del progetto del tunnel, ma finora la sua campagna ha avuto scarso successo. Greenberg appare sempre più isolato, un uomo petulante di una certa età che si è alienato le simpatie dei colleghi con la sua rigidità morale e il suo cinismo. È convinto che negli ultimi anni il mondo accademico israeliano si sia arreso completamente alla Elad. È piuttosto indifferente al progetto di Boaretto di ridatare Gerusalemme usando il radiocarbonio, perché lavorare in laboratorio non elimina i problemi etici e metodologici che stanno al cuore della questione: prima di effettuare il campionamento, la scelta di dove scavare e quali domande porsi dipende dalle motivazioni e dalla prospettiva dei ricercatori. Secondo lui, finché gli archeologi continueranno a fare riferimento alla Bibbia, faranno il gioco dei coloni, anche se confermeranno alcune storie e ne contesteranno altre.

Quando Greenberg e io siamo tornati sulla strada sterrata che porta al sito stava scendendo la sera, e in lontananza le alture sfumavano in una striscia di luce viola all’orizzonte. Abbiamo girato intorno a un edificio grigio dove si svolgono le attività della comunità e finalmente abbiamo scorto una radura con al centro un grosso cumulo erboso. Alla base c’era un triciclo rovesciato, in cima qualche bottiglia di birra vuota, ma a parte questo non c’era sporcizia in giro.

Il quartiere, Ir Ganim, è uno dei più poveri di Gerusalemme Ovest, con casermoni abitati da persone immigrate di recente dal Nordafrica e dai paesi dell’ex Unione Sovietica. Quello che sembrava un gradevole parco, mi ha spiegato Green­berg, in passato era una discarica dove gli abitanti gettavano radio e frigoriferi rotti e ciarpame vario, ma era anche un luogo di spaccio e di consumo di droga. All’inizio degli anni 2000, il vicino centro per la comunità decise di sgombrare tutti i rifiuti e invitò Greenberg ad avviare scavi per vedere cosa c’era sotto. Lui ritenne indispensabile fin dall’inizio coinvolgere la comunità nel processo decisionale. “Sto cercando faticosamente di immaginare come sarebbe un’archeologia decolonizzata”, mi ha detto, “un’archeologia libera dalle narrazioni precostituite su ciò che è importante”.

Coinvolgere la comunità

Negli anni seguenti Greenberg ha diretto gli scavi con l’obiettivo di insegnare i fondamenti dell’archeologia alle famiglie del quartiere. Spesso c’erano quaranta bambini che scorrazzavano in giro risciacquando vasellame, setacciando terra e battendo il terreno con zappe e piccozze. Il cumulo di pietre, aveva ipotizzato Greenberg, era uno dei tanti piazzati in diversi punti lungo la cresta nell’ottavo e settimo secolo aC per marcare il confine delle terre colonizzate, il limite dell’entroterra agricolo di Gerusalemme e dell’autorità del re. I suoi volontari avevano trovato anche cisterne e torchi per l’uva ricavati da pietre risalenti al periodo persiano.

Greenberg ha camminato intorno alla base del cumulo, ispezionando il terreno. Da quando gli scavi sono terminati, nel 2008, l’area è rimasta libera dai rifiuti e secondo Greenberg il motivo è che gli abitanti erano stati coinvolti nella decisione su quando e come scavare. Avevano sentito il progetto come una cosa loro, avevano avuto l’impressione che la loro partecipazione fosse valorizzata: “È questo che l’ha protetto”, ha detto Greenberg. “Non ho altre spiegazioni”. ◆ ma

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Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 116. Compra questo numero | Abbonati