Mentre gli Stati Uniti sono impegnati nella lotta contro il covid-19, il loro esercito porta avanti a migliaia di chilometri di distanza una battaglia ad alta tecnologia contro l’organizzazione estremista islamica somala Al Shabaab. Il 7 aprile 2020 il comando statunitense in Africa (Africom) ha annunciato con un comunicato stampa che Yusuf Jiis, definito “uno dei fondatori del gruppo terroristico”, era stato ucciso cinque giorni prima in un attacco aereo. Il raid è avvenuto vicino a Bush Madina, 220 chilometri a ovest di Mogadiscio.

È la seconda volta che gli Stati Uniti riescono a uccidere con un attacco aereo un bersaglio “di alto valore” all’interno di Al Shabaab. Il primo era stato nel 2014 Ahmed Abdi Godane, il leader del gruppo. All’epoca si pensava che la morte di Godane avrebbe indebolito l’organizzazione e compromesso la sua capacità di portare a termine azioni terroristiche, ma non è andata così. Al Shabaab ha continuato i suoi attacchi in Somalia e in Kenya, causando numerose vittime.

“Al Shabaab è ancora un morbo che uccide indiscriminatamente persone innocenti. L’unica cosa che vogliono è massacrare gente, dentro e fuori dalla Somalia”, ha dichiarato il generale statunitense William Gayler, capo delle operazioni di Africom. “Mantenere alta la pressione su questa rete ci permette di contenerne le ambizioni e il desiderio di nuocere”.

Il generale Stephen Townsend, comandante di Africom, ha aggiunto: “Ci piacerebbe poter fermare temporaneamente le operazioni in questa fase di emergenza sanitaria ma i capi di Al Sha­baab e del gruppo Stato islamico hanno detto che per loro questa crisi è un’opportunità, perciò continueremo a sostenere i nostri alleati africani”.

Il raid aereo del 2 aprile è arrivato probabilmente in risposta all’attacco del 5 gennaio contro la base statunitense di Manda Bay, nella contea keniana di Lamu. Un soldato e due piloti di un’azienda privata statunitense sono rimasti uccisi. La base, nota anche come Camp Simba, si trova sulla costa dell’oceano Indiano a breve distanza dal confine con la Somalia. I tre statunitensi sono rimasti uccisi quando un colpo sparato da un lanciarazzi ha colpito un aereo guidato da dipendenti della L3 Technologies, l’azienda a cui il Pentagono ha affidato le missioni di sorveglianza in Somalia.

Non sappiamo ancora se nell’attacco siano morti anche dei keniani (la base ospita soldati del posto), perché generalmente il governo di Nairobi non divulga notizie sulle sue perdite, soprattutto se si tratta di militari. Tuttavia alcuni resoconti parlano di soldati keniani che si sono nascosti dietro i cespugli e che non hanno cercato in nessun modo di sparare agli aggressori, suscitando frustrazione e perplessità nei colleghi statunitensi.

I mezzi d’informazione locali non hanno indagato su come il gruppo terroristico sia riuscito a entrare nella base e a colpire, non solo un aereo, ma anche alcuni elicotteri parcheggiati e perfino un’area di stoccaggio del carburante. Il New York Times ha scritto che i feriti sono stati trasferiti a Gibuti, dove c’è una base dell’Africom, e stima che “l’attacco abbia provocato danni per milioni di dollari”.

L’hotel Medina di Chisimaio, il 13 luglio 2019, il giorno dopo un attentato di Al Shabaab (Afp/Getty Images)

Sull’uccisione di Jiis sono uscite pochissime notizie sia sulla stampa locale sia su quella internazionale, ma una cosa è chiara: nonostante la crisi sanitaria negli Stati Uniti, il Pentagono non ha ridotto le operazioni militari all’estero. Secondo il sito Long War Journal, l’Africom ha addirittura intensificato la campagna aerea contro Al Shabaab nei primi tre mesi del 2020, con 33 attacchi con i droni (più della metà rispetto ai 63 portati a termine in tutto il 2019). Secondo Samar al Bulushi, un’esperta di guerra al terrorismo in Africa orientale, “è probabile che quello che ha fatto Al Shabaab a Manda Bay sia una risposta alla guerra non dichiarata e in rapida espansione degli Stati Uniti in Somalia”. Dall’epoca degli attentati dell’11 settembre Washington ha puntato sui droni e sugli “attacchi chirurgici” contro i presunti terroristi in Somalia, attacchi che sono diventati più frequenti sotto l’amministrazione del presidente Barack Obama. Il comando Africom, attivo dal 2007 e con sede a Stoccarda, in Germania, ha svolto un ruolo cruciale in queste operazioni.

Molte rimangono segrete perché sono condotte con i droni e non causano scontri diretti. Si stima che negli ultimi tre anni negli attacchi statunitensi con i droni siano rimasti uccisi tra i 900 e i mille somali. Amnesty international, che ha documentato queste operazioni, sostiene che molte vittime siano in realtà civili, non combattenti. Ci si è chiesto se questa strategia non sia controproducente e non finisca per suscitare paura e disprezzo verso il governo statunitense tra la popolazione somala.

Le scelte politiche di Washington in Somalia sono state in larga misura plasmate dalle esperienze vissute all’inizio degli anni novanta e dalla “guerra al terrore” lanciata dal presidente George W. Bush dopo l’11 settembre. Il Pentagono ritirò le truppe dalla Somalia nel 1993, dopo che a ottobre di quell’anno 18 soldati erano morti nell’incidente passato alla storia come Black hawk down, o battaglia di Mogadiscio. Gli Stati Uniti decisero che non avrebbero più mandato i loro uomini e donne sul campo. Questa scelta implicava di dare un maggiore supporto economico a forze africane perché operassero per conto degli Stati Uniti. Negli ultimi anni questo sostegno è andato alla missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom), finanziata in gran parte dall’Unione europea e sostenuta dalle Nazioni Unite e da Washington.

Un doppio binario

Dal 2010 gli Stati Uniti hanno adottato una politica del “doppio binario”, in base alla quale l’amministrazione statunitense tratta sia con il governo di Mogadiscio sia con le entità regionali e i leader dei vari clan. Questa politica ha creato una situazione strana e controproducente in cui Washington ha a libro paga ex signori della guerra e capi di milizie, e al tempo stesso collabora con il governo che quei comandanti osteggiano e cercano di indebolire. Secondo il giornalista investigativo Jeremy Scahill le politiche statunitensi nei confronti dei signori della guerra e dei terroristi somali sono state contraddittorie e spesso hanno fatto più male che bene. In un articolo su The Nation, Scahill ha denunciato che alcuni signori della guerra somali sono stati per anni sostenuti e armati dalla Cia, in violazione dell’embargo imposto dal Consiglio di sicurezza dell’Onu alla Somalia all’inizio della guerra civile.

Nella sua guerra contro Al Shabaab, Washington ha fatto inoltre affidamento sui vicini più filoccidentali della Somalia: Etiopia e Kenya. Il Kenya è attualmente il principale beneficiario dell’assistenza in materia di sicurezza che gli Stati Uniti prestano nell’Africa subsahariana. In Kenya sono presenti circa duecento militari americani (molti dei quali a Manda Bay) con il compito di addestrare le reclute locali. In virtù di questo – e del fatto che Stati Uniti e Unione europea sostengono l’esercito keniano in Somalia – Nairobi ha molte difficoltà a ritirare le truppe dal paese confinante: i soldi in ballo sono troppi. Se il Kenya avesse dovuto usare le sue risorse molto probabilmente avrebbe già richiamato in patria i suoi soldati dopo la liberazione di Chisimaio nel 2012.

L’intervento militare keniano in Somalia ha creato problemi fin dall’inizio. In un video che circola sui social network l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, morto due anni fa, spiegava come nel 2011 avesse sconsigliato a Mwai Kibaki, il presidente keniano dell’epoca, di proseguire su una strada che avrebbe creato gravi conflitti d’interessi, non solo perché i paesi confinano tra loro, ma anche considerando che l’ampia comunità di etnia somala residente in Kenya sarebbe stata costretta a schierarsi da una parte o dall’altra se la situazione fosse degenerata. Tuttavia Kibaki ignorò le parole di Annan e nell’ottobre del 2011 inviò le truppe oltre il confine.

Da sapere
Inchieste necessarie
fonte: AIRWARS.ORG

◆ Nel 2020 almeno sette civili sono morti in due attacchi con i droni condotti dagli Stati Uniti in Somalia, ha denunciato Human rights watch (Hrw) il 16 giugno. L’ong parla di due attacchi “illegali” perché contro obiettivi non militari: il primo, il 2 febbraio a Jilib, ha causato la morte di una donna nella sua abitazione; il secondo, il 10 marzo a Janaale, ha colpito un minibus uccidendo sei passeggeri. Secondo Hrw, né gli Stati Uniti né il governo somalo hanno aperto inchieste, o cercato di contattare e compensare in qualche modo le famiglie delle vittime. Il governo statunitense in passato ha offerto dei pagamenti in denaro alle famiglie di civili rimasti uccisi per sbaglio in operazioni militari. L’Africom ha inoltre aperto un sito dove si possono segnalare le vittime civili.


Effetti devastanti

L’invasione keniana della Somalia ha avuto almeno due effetti devastanti. In primo luogo, gli attacchi terroristici di Al Sha­baab in territorio keniano sono diventati più frequenti e sanguinosi: basta ricordare gli attentati al centro commerciale Westgate di Nairobi nel settembre del 2013, all’università di Garissa nell’aprile del 2015 e contro l’hotel DusitD2 nella capitale l’anno scorso. In totale hanno causato quasi 250 morti. Anche i soldati e le installazioni statunitensi in Kenya sono più soggette agli attacchi, come testimonia quello che è successo a Manda Bay.

In secondo luogo, il sostegno offerto dal Kenya ad Ahmed Madobe (il presidente della regione autonoma del Jubaland, che rivendica maggiore indipendenza dal governo di Mogadiscio) ha dato l’impressione che Nairobi volesse controllare indirettamente questo territorio insediandovi un suo alleato. Questo ha creato un clima di sfiducia tra il governo somalo, che è debole ma è riconosciuto dalla comunità internazionale, e quello keniano. Le tensioni sono ulteriormente aggravate da una disputa tra i due paesi sui confini marittimi nell’oceano Indiano.

Il fatto che il Kenya si sia fatto coinvolgere in un conflitto interno somalo ha avuto l’effetto contrario a quello desiderato, rendendo le terre al confine con il Jubaland più insicure e instabili. Questo è vero soprattutto per l’area intorno a Mandera, lungo il confine tra Kenya e Somalia, dove sembra prepararsi un conflitto tra le forze del Jubaland fedeli a Madobe e quelle comandate dal presidente somalo Mohamed Abdullahi Farmajo. Secondo alcune fonti, si tratta di un conflitto tra clan, tra le forze leali a Madobe, a maggioranza ogadene, e i Marehan, il clan di cui fa parte Farmajo. È tuttavia difficile stabilire quale sia la situazione sul campo, perché né il governo keniano né quello somalo hanno rilasciato dichiarazioni, limitandosi ad annunciare una specie di stallo o di cessate il fuoco su cui le due parti sono riuscite ad accordarsi (sembra grazie alla mediazione del primo ministro etiope Abiy Ahmed).

Tuttavia secondo Rashid Abdi, ex direttore del progetto Corno d’Africa dell’International crisis group, è probabile che il conflitto sia un tentativo di Farmajo di riconfigurare la politica locale in vista delle elezioni legislative previste per novembre (che saranno le prime in cinquant’anni, sempre che non siano rinviate per l’emergenza scatenata dal nuovo coronavirus). Farmajo vorrebbe riaffermare la sua autorità sui vari stati della federazione somala, soprattutto sul Jubaland, che è governato di fatto in modo autonomo, quasi senza contatti con Mogadiscio, e ospita sul suo territorio soldati keniani.

Madobe è salito al potere nel settembre del 2012, quando Chisimaio, l’importante città portuale che rappresentava la principale base economica di Al Shabaab, è caduta in mano alle forze keniane e a quelle della milizia Ras Kamboni, comandate da Madobe. Questa è stata una vittoria importante per i keniani e ha fatto di Madobe un uomo chiave nella regione.

Nel maggio del 2013 Madobe si è autoproclamato presidente del sedicente stato del Jubaland, che non è stato riconosciuto dal governo centrale di Mogadiscio. Dopo una “consultazione elettorale” nell’ottobre del 2019 Madobe ha riaffermato la sua autorità nella regione (anche se vale la pena di sottolineare che Al Shabaab controlla ancora ampie aree del territorio).

La lezione dell’Afghanistan

Dalle operazioni che l’esercito statunitense ha condotto all’estero dopo l’11 settembre sarebbe opportuno trarre qualche lezione. Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq forse hanno portato dei vantaggi nel breve termine, ma alla lunga sono state devastanti. Gli iracheni soffrono da decenni per un conflitto su base confessionale e negli ultimi anni hanno dovuto sopportare anche la violenza del gruppo Stato islamico (Is). Oggi l’Iraq è più instabile che mai. Ricordiamo anche che il fondatore dell’Is, Abu Bakr al Baghdadi, trascorse quattro anni a Camp Bucca, un centro di detenzione statunitense nell’Iraq meridionale, durante la guerra dichiarata nel 2003 dal presidente George W. Bush e dal suo alleato britannico Tony Blair. Si ritiene che proprio nel periodo trascorso a Camp Bucca Al Baghdadi elaborò l’idea di un “califfato islamico”, l’obiettivo dichiarato dell’Is.

Le operazioni militari statunitensi all’estero hanno fatto aumentare, non diminuire, le attività terroristiche di gruppi estremisti islamici come l’Is, che oggi non sembra del tutto sconfitto ma pare abbia optato per attività clandestine. Gli interventi dell’esercito statunitense hanno accresciuto i livelli di conflittualità, soprattutto in Iraq, e causato nuovi spargimenti di sangue. In Afghanistan la prolungata presenza militare statunitense ha di fatto unito e rafforzato i taliban. Le vittime civili degli attacchi con i droni hanno inoltre creato un clima di sfiducia verso il governo degli Stati Uniti, che è criticato anche per le operazioni militari condotte nel vicino Pakistan. Sarebbe terribile se la Somalia diventasse un nuovo Afghanistan, dove dopo quasi vent’anni di presenza militare statunitense, i taliban non sono spariti ma sono diventati politicamente più forti e spavaldi che mai. ◆ gim

**Rasna Warah **è una giornalista keniana. Ha scritto due libri sulla Somalia: Mogadishu then and now (AuthorHouse 2012) e War crimes (AuthorHouse 2014). Collabora con The Elephant, un sito keniano di attualità e approfondimento.

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Questo articolo è uscito sul numero 1364 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati