È l’ultimo arrivo?

La pesca del mattino.

Lontano?

Davanti a Lesbo. Proprio di fronte alle coste della Turchia. Bastava sporgersi per acchiapparli.

Cosa c’è?

Di tutto.

Di più?

Il migliore, di ogni provenienza. Venga con me, sotto la tenda. Vedrà ancora meglio.

Questo cos’è?

Maliani. Ben conservati. La pelle nera protegge la carne.

E là?

Guineani.

Questi sono messi peggio, eh?

Troppo tempo a languire nei campi della Libia. Calci, frustate, bastonate, coltellate. Senza contare le false partenze e le false speranze. Ogni tanto la tortura. Le finte esecuzioni. E poi il viaggio, troppo lungo.

Come diventano?

Lo vede anche lei. Pelli bucate, tumefatte, spaccate, strappate. Ematomi. Denti rotti. Carni battute come frutta troppo matura.

E questo qui? Di piccola taglia, direi.

Origine indeterminata. Direi Sahel. Niger o Burkina Faso, da quelle parti. Un bambino. Undici, dodici anni. Annegato all’inizio della traversata. Ha inghiottito molta acqua. Lo lascio spurgare due o tre giorni.

Che altro c’è?

Ha già provato lo yemenita?

Mi faccia vedere.

Mi dirà che gliene pare della novità.

Si direbbe che è appena stato pescato.

È appena uscito dall’acqua.

Ed è in questo stato!

Molto resistente, lo yemenita. Più prelibato della palamita, secondo i buongustai. Vuole provare?

Non so, vediamo. Quello là, sulla barella kaki?

Troppo magro.

Posso guardarlo?

Pelle e ossa, gliel’avevo detto. E poi, guardi quell’altro. Con quel labbro strappato, si sarà preso un cavo d’acciaio in faccia. Si vedono solo i denti. Non è facile da far fuori. In questi casi taglio sul peso.

Che vuole dire?

Quando la merce è troppo rovinata, abbatto i prezzi. Lo facciamo per gli avanzi della pesca. I poveri spiano le nostre barche. Ci liberiamo dei pezzi meno buoni o dei corpi smembrati, un braccio di qua, una testa qualche volta, quando gli squali sono arrivati prima di noi. Trovo chi me li prende. Come per i morti di freddo.

Nel Mediterraneo?

D’inverno può anche essere ghiacciato. Scende di temperatura, come il nostro grado di umanità. Non lontano dallo zero. Soprattutto di notte. L’organismo si paralizza, i muscoli si contraggono. Pelle, carne, diventa tutto duro. Difficile da preparare. E allora io svendo. Almeno me ne libero.

E cosa c’è laggiù, sotto quel baldacchino rosso?

Altra roba, tutta già prenotata.

Pezzi scelti, si direbbe.

Per il ministro.

Può capitare d’incontrarlo qui?

Mi stupirebbe.

Passa prima di me?

No, non viene mai di persona. Manda gli ordini prima che io esca in mare. E io gli metto da parte la merce già in barca. Gliela consegno direttamente.

Al ministero?

Dipende, se è per lui o per l’ufficio.

E quella di oggi, per esempio?

Aspetta ospiti importanti dalla Spagna e dall’Ungheria. E anche una personalità dalla Turchia, da quel che ho letto sul giornale. Abbiamo già consegnato l’ordine alle cucine del ministero.

I suoi gusti preferiti?

Le donne e i bambini che hanno lottato a lungo.

Perché?

Per il loro coraggio.

Non capisco.

Vuole mangiare il loro coraggio. L’importante per lui è che abbiano lottato.

Lei guadagna bene?

Ci sono stati anni migliori. Adesso si vivacchia. La concorrenza…

Quale concorrenza?

La pesca industriale.

Di cosa parla?

Le navi dell’Europa, gli equipaggi della buona coscienza, Aquarius e compagnia.

Cos’è che la disturba?

Li ripescano vivi. Prolungano il loro calvario. Se almeno li rigettassero in acqua. Fortunatamente sono quasi tutti abbastanza pazzi da ritornare presto al punto di partenza di loro volontà. E noi dobbiamo trovarci là nel momento giusto. Io ho pazienza. È l’istinto del cacciatore. Alla fine li raccogliamo con il cucchiaino. Alcuni non sono proprio belli da vedere. Sfigurati dal sale e dalle alghe.

Quella laggiù è la sua barca?

È un ferrovecchio, era di mio padre. Io prima facevo l’insegnante di lettere. Ma tredici anni fa hanno chiuso il liceo, non c’erano abbastanza studenti. Avrei potuto trasferirmi ad Atene. Ma non c’era futuro. Non c’è più posto per gli insegnanti di materie umanistiche. Adesso vogliono studiare tutti matematica ed economia. Sono rimasto qui, per un po’ ho fatto l’istruttore di nuoto. Poi ho ripreso il timone. All’inizio pescavo orate, gallinelle, branzini. A strascico. Decine di ami attaccati al sughero. Li calavo sui fondali di roccia. E lasciavo andare il battello. Veniva su tutto quello che volevo. Ora ci sono solo più cadaveri. Qui si muore. È disgustoso. Riesco a caricare quaranta pezzi. Al massimo. Non faccio mica il macellaio, io.

Va lontano?

Non molto. Faccio cabotaggio. Piccola pesca di costa. Evito le imbarcazioni in cui i fuggiaschi sono schiacciati come sardine a respirare fumi di benzina fino alla nausea. Vendo prodotti di prima qualità.

È un modo di dire un po’ strano.

L’ideale è una piccola barca da una ventina di passeggeri che si rovescia alla fine del viaggio. Quando fa giorno e riescono a vedere le luci dell’isola, si distendono. La loro pelle luccica di speranza. Riprendono coraggio. Respirano a pieni polmoni, qualcuno grida di gioia. La loro carne rivive. Poi all’improvviso gli arriva addosso la guardia costiera, con le sirene spiegate e le luci accecanti dei fari. Allora s’impauriscono. Annegano prima dell’arrivo dei militari. Tra i no border e gli ufficiali di confine, finiscono sempre in mare. Io aspetto. Quando le pattuglie se ne vanno, tocca a me. Senza brutalità. Vado con dolcezza. Li raccolgo a uno a uno.

Angelo Monne

Il mondo è ingiusto. Ma io cosa ci posso fare? Devo pensare ai vivi, alla mia famiglia che devo nutrire, non ai morti. Ce n’è così tanti che pensavo non ci avrei più fatto caso. In realtà non contano niente. Soprattutto i neri. Non esistevano da vivi, esistono ancora meno da annegati. Scaricati dai loro paesi, scaricati dai battelli e per finire scaricati dalle statistiche. Un esercito di fantasmi. Eppure certe volte…

Certe volte?

Butto dei fiori in mare, là dove c’è un gorgo che non vuole richiudersi. Delle corone appassite che rubo al cimitero del villaggio, dalle vecchie tombe dimenticate da tutti. Mi dico che nell’acqua di mare si ravvivano. E che i ragazzi, le donne e anche i bambini, insomma che tutti avranno ricevuto un gesto. Sono belli, i fiori che galleggiano per qualche istante.

Li vede, di notte?

I crisantemi bianchi sì, sembrano candele con i petali, accese, cullate dal mare, soprattutto quando la luna brilla. Anche i fiori di plastica.

Non potrebbe cercare di salvarne qualcuno?

E perché?

Per umanità, appunto. Ha dimenticato quel che insegnava ai suoi studenti?

Quando non si possono salvare tutti, non si salva nessuno. E poi… ma perché ne parliamo?

Continui.

Ci sono parole che puzzano a forza di non usarle. Parole come cadaveri. Parole in decomposizione. Ne vuole sentire qualcuna? Accoglienza. Mutualità. Solidarietà. Cura. Calore. Conforto. Compassione. Hanno un cattivo odore, non le pare?

No.

Il Mediterraneo è la rotta marittima più mortale del mondo, soprattutto tra la Libia e Malta fino all’Italia, nelle acque internazionali, come le chiamano. E qui al largo della Turchia, o più lontano, lungo le coste del Montenegro. Si muore in massa e nessuno si commuove. Non certo i governanti intenti a occuparsi della loro rielezione e dei conti della loro nazione. I paesi cosiddetti di accoglienza, invece, nascondono a malapena il loro sollievo. Il mare fa una parte del loro sporco lavoro. Prende di mira le vittime con le sue correnti, le tempeste e la sua distesa interminabile. Su un canotto di legno che imbarca acqua, il Mediterraneo è immenso. Trecento chilometri tra la Libia e le coste italiane, mille occasioni di morire. E come se non bastasse, se ci sono dei sopravvissuti, è stato inventato il reato di solidarietà contro chi li soccorre. La verità è che non servirà a niente voler salvare questa gente al culmine della disperazione. Annegare abbrevia il loro calvario.

Ma lei che ne sa?

Lo dicono quelli che finiscono nei campi di Lesbo o di Lampedusa, al molo Favaloro.

E cosa dicono esattamente?

Che vivono peggio degli animali. Che marciscono giorno dopo giorno nelle privazioni e nella sporcizia sotto un sole di piombo, prima ancora di sperare di essere registrati. Finiscono per litigare tra afghani e siriani, lotte tra bestie estenuate. Sangue ovunque, e attorno a loro i compagni che urlano. Tutta questa traversata per arrivare là, una foresta di lame arrossate dal sole a piombo. Le autorità portuali lasciano fare, sono già stracariche di seccature con la burocrazia e i tamponi per il covid. E intanto i poliziotti li aspettano, armati e con i manganelli.

Capisce perché questi miserabili vorrebbero farla finita? Non si comincia una traversata come questa senza stringere un patto con la morte. E poi molti di loro non sanno nemmeno nuotare. Qualcuno non ha proprio idea di cos’è il mare.

Vuol dire che si suicidano?

Se finiscono tra noi è un suicidio assistito. Almeno li trattiamo bene. Sono puliti, accuditi, svuotati. La pelle viene idratata regolarmente. Non puzzano. Niente rifiuti né decomposizione, si mostrano al meglio. Ritrovano una dignità.

Postuma.

È il meglio che gli possa succedere. Loro si preparano prima di salpare. Si trovano un compagno di viaggio per darsi coraggio. Poi scoprono l’abisso nero del mare. Sanno che il destino li tallona. L’hanno scelto. Qui per loro non c’è una vita. Non più che nel luogo da dove vengono. La verità è che nessuno li vuole da nessuna parte. Ha già visto la costa di Gibilterra? I carri armati davanti ai muri di Ceuta dove ogni settimana almeno uno di questi ragazzi finisce scorticato? Evitano il Mediterraneo, ma sono accolti con telecamere termiche e filo spinato.

Ma i responsabili politici?

Li conosciamo, i loro discorsi. Il vuoto e le menzogne. Chiacchiere che sono subito contraddette dalle loro azioni. In Europa si mangia di tutto. Ai migranti manca tutto. Difficile immaginare un futuro comune. Se riescono a sopravvivere, le umiliazioni che li aspettano gli fanno rimpiangere d’essere ancora vivi. Sento dire che dei vagabondi abbandonati a loro stessi nel vento ghiacciato di Calais annegano nell’alcol. Secondo lei è meglio che annegare nel Mediterraneo?

Non ho detto questo.

Allora cos’ha da dire? Senza dubbio li preferite vivi perché finiscano nelle vostre città a diventare lo zimbello di poliziotti e di fascisti.

Questa crudeltà non mi appartiene. Le loro sofferenze sono le mie. Siete in tanti a fare questo lavoro?

Ha ragione, cambiamo argomento. La sento a disagio. La verità fa male. No, non siamo in tanti. Ma io conosco i nostri isolotti del mar Egeo. Chio, Samo, Lesmo, Lesbo, Naxos, Icaria. Ci sono uno o due spazzini come me per isola, che io sappia. Io sono di base a Mitilene. Con le sue acque turchesi e trasparenti, come si legge sulle guide turistiche. Prima, oltre alla mia pesca, avevo un piccolo centro vacanze. Qualche capanna di paglia sulla spiaggia di Tsamakia, vicino al porto. All’inizio sgombravo i corpi dei migranti senza vita perché se no i clienti si spaventavano. È finita che pescavo più cadaveri che pesci. E mi incazzavo con chi abbandonava i loro corpi alla deriva. Non immaginiamo certo di morire davanti a tutti e di decomporci in mare, non crede? Poi ho continuato. È diventata la mia attività principale. Mia moglie non ce l’ha fatta ed è tornata a Bordeaux.

È francese?

Discendente di una famiglia di negrieri. Mi ha mollato con i nostri due figli. Ha detto che ero l’incubo della sua vita che tornava.

Quale incubo?

Il legno di ebano che i suoi avi trasportavano verso il nuovo mondo, gli schiavi neri in catene nelle gabbie di ferro. Ma non mi va di parlarne.

Come passa la notte?

Raggiungo i punti segnalati dalle radio. Là dove sono passati gli umanitari. Quando ne restano due o tre senza gilet arancioni, e ne restano sempre. Allora accendo le mie lampare. I sopravvissuti credono che arrivi qualcuno a salvarli. Spengo il motore del battello. Li lascio avvicinare. L’ultimo sforzo per nuotare fino a noi è fatale, con le onde e le correnti. Bevono quel che basta. Ingoiano il mare e il mare finisce per ingoiarli. Muoiono tra le nostre braccia.

Le vostre braccia?

Io vado sempre con Evangelos, il mio secondo. Lui è di qui. Conosce gli scogli e le secche.

Evangelos?

Significa buon messaggero. Vede, non siamo dei diavoli.

E la polizia?

Chiude gli occhi. Noi facciamo la nostra parte. Il commissario si serve da noi. La moglie del brigadiere anche. E poi…

Cosa?

Conosco gente di qui che vorrebbero vedere meno persone vive nei campi vicini e di più come merce sui nostri banconi. Certe volte ci fanno la multa, così, per fare bella figura quando passa una delegazione di Bruxelles. Ma non paghiamo mai. E loro non reclamano. Si direbbe perfino che ci incoraggino in silenzio, i rappresentanti dell’Europa. La mancanza di sanzioni è come una ricompensa.

Siamo stati tutti dei pesci, nell’antichità.

Angelo Monne

Davvero?

Quand’ero bambino, prima di andare a scuola mi tuffavo dal molo in mutande, con mio fratello. Nuotavamo fino alla diga del faro blu, più lontano, davanti a lei. Tornavamo senza fiato ma felici. Ci asciugavamo, ci rivestivamo, prendevamo le nostre cartelle. Era la nostra vita, non ne conoscevamo un’altra. Fino a dodici o tredici anni credevo di essere un pesce.

Affondare le loro barche è criminale.

È il codice della marina, non lo sapeva? Quando gli umanitari recuperano una barca alla deriva e hanno portato i rifugiati a bordo, cosa crede che facciano? Una volta che l’ultimo disgraziato è salito, affondano la barca che li ha portati fin là. La legge del mare si applica senza discussioni. È proibito abbandonare qualunque cosa che galleggi senza nessuno che la governi. Si affonda ciò che potrebbe essere la salvezza per altri. Non c’è niente di sorprendente. È la legge degli uomini.

Lei ha uno strano modo d’interpretarla. A Kalymnos li attirate verso gli scogli per intrappolarli…

Per accorciare il loro calvario.

Però gli togliete anche la possibilità di essere salvati.

Questione di punti di vista. Ricordo uno strano momento, una notte. La luna era appesa in cielo come un enorme proiettore che spazzava il mare con la sua luce. Ci stavamo avvicinando a un battello di traghettatori rovesciato. Evangelos mi ha chiesto: senti? Ho fatto segno di no con la testa. E allora lui mi ha detto: ascolta bene. Aveva ragione. Mi è arrivato un canto. Si poteva credere che fosse il canto delle sirene, un’aria piena di grazia, di un’infinita leggerezza, anche dolorosa. Una melodia venuta dall’aldilà.

Vi siete tappati le orecchie come Ulisse?

Ulisse non si è tappato le orecchie, al contrario, ha voluto ascoltare quel canto, per questo si è fatto legare all’albero della sua nave. Era il più bel canto che avessi mai ascoltato. Arrivava da due donne di cui riuscivo a distinguere il viso a intermittenza sulla linea mobile dell’acqua. Di colpo si sono zittite. Sballottate da un’onda. Scomparse. Cigni neri. La pelle bluastra. Le labbra d’un violetto pallido.

Lei riesce a dormire bene?

Come un bambino. Vede quella donna che gira intorno agli afghani stesi sulla schiena? È bella, no?

Da dove viene?

Nigeria.

Cos’è quella brutta piaga alla caviglia?

Ha fatto la traversata su un’imbarcazione di legno in cui si era rovesciato un bidone di benzina. Il benzene s’è mescolato all’acqua di mare e agli escrementi. È rimasta ustionata. Ma ora la piaga si sta cicatrizzando.

La conosce?

Da quando mia moglie se n’è andata sta con me. È mia. Quando torno all’alba è nel letto che mi aspetta. Vuole sapere come ci siamo incontrati?

Se ci tiene.

Le ho parlato del canto delle sirene. Una si dibatteva. Più giovane, più robusta. Lei non cantava, risparmiava le forze. Le ho teso la mano e lei è riuscita a prenderla. L’ho stretta. Una volta a bordo non respirava più. Le ho fatto la respirazione bocca a bocca per farla riprendere. Ha finito per ritornare in sé. E a me.

Non capisco.

Non c’è niente da capire.

Perché lei e non le altre?

Lei mi piaceva. Non ho resistito. Anche i negrieri avevano i loro servitori in livrea bianca. E i nazisti i loro ebrei buoni.

Lei che cosa sa della sua attività?

Tutto.

E cosa ne dice?

Niente. Ma non significa che non ci pensi. Guardi i suoi occhi. La luce che c’è nei suoi occhi.

Perché rimane?

Vai a sapere. Se riesce a sostenere la mia coscienza, significa che la mia coscienza non è così pesante.

Lei la ama?

Non è questo il punto.

E qual è?

Il fatto che è qui.

Come complice?

Come testimone. Io voglio che veda cosa faccio. Che qualcuno come lei sappia. È semplice.

Io non lo trovo così semplice. Come si chiama la sua nuova compagna?

Blessing.

È un nome terribile.

È l’unico che voglio.

Cosa vuol dire?

Quando si fa bracconaggio in mare si recuperano pacchi, valigie. All’hangar di scarico si spogliano gli annegati. Abiti, camicie, magliette, pantaloni. Mucchi informi di cose che sono bruciati una volta alla settimana nei bracieri. Un fumo purificatore sale verso il cielo. Ci capitano oggetti di ogni tipo, catene, collane, amuleti in cuoio, pietre lisce e lavorate, lettere manoscritte in lingue indecifrabili, un po’ di soldi, foto mezze consumate dall’acqua e dal sale. I più insopportabili sono i documenti d’identità.

Lei mi stupisce.

Proprio così. Nel retro del battello impiliamo legni d’ebano, li chiamo così ora che mia moglie se n’è andata. È impersonale, legni d’ebano. Non impegna. È neutro. Stiamo impilando legni. Poi all’improvviso ci capita un passaporto o un documento d’identità che l’acqua non ha completamente sbriciolato, appaiono Boubacar, Idrissa, Djibril, Aïssata… Il mare è un rivelatore. Fino a quel momento i corpi non erano niente. All’improvviso esistono. Il legno d’ebano non è più anonimo. È un uomo, una donna, un bambino con il futuro in tasca. Una volta ho trovato un biglietto della lotteria nel giaccone di un maliano. Era la sua speranza. Si chiamava Alphonse. Vorrei tanto dimenticare il suo nome. Dimenticarlo.

Capisco.

Mi stupirebbe. Alla fine avevano ragione i negrieri.

Ragione?

Toglievano i nomi agli schiavi e li cambiavano con dei numeri. È più facile rimanere insensibili davanti al numero 327 che davanti al corpo senza vita di un Boubacar.

Cosa ne ha fatto del biglietto della lotteria?

Non aveva vinto. Nessun rimpianto.

E gli oggetti che gli trovate addosso?

Li bruciamo con gli abiti. Quelli che valgono qualcosa li diamo a una venditrice al porto di Mitilene. Ai turisti piace tantissimo prendere queste cosucce come souvenir, pensano che si tratti di artigianato locale o d’importazione dalle coste dell’Africa. Riusciamo perfino a fargli credere che arrivi dai migranti del campo della collina nera, qui accanto, un vecchio poligono militare tetro e schiacciato dal sole, senza un angolo di ombra e nemmeno un po’ d’acqua potabile. Se avessero la curiosità di andarci si renderebbero conto che niente del genere potrebbe mai uscire da quell’inferno di tende insalubri. Però i turisti non sono dei buoni osservatori. Fanno attenzione solo ai prezzi. E noi li vendiamo a poco. Così sono tutti contenti.

Bizzarri i vostri governanti. Non sono io che do la legion d’onore ai capi libici e ai rais egiziani. O che ungo le zampe dei dirigenti sudanesi colpevoli di crimini contro l’umanità. E tutto questo per ringraziarli perché regolano i flussi dei migranti con la morte a domicilio, così nessuno vede e nessuno sa. E voi venite a fare le pulci a noi?

A me non interessano le pulci.

E fa bene. In ogni caso i migranti sono pericolosi per tutta l’Europa.

Non per l’edilizia o le fabbriche di auto che ne fanno i loro schiavi. Per non dire degli spacciatori di droga, di cui sono i docili muli.

Sono pochissimi. La maggior parte porta criminalità, violenza, odio. Quando il Marocco è in collera con la Spagna, apre la diga a una buona ondata di rifugiati che vadano a sbattere contro la barriera di Ceuta e Melilla. Lo stesso fanno la Libia o la Turchia quando pensano che il limite si stia superando. Aprono le chiuse, il mare diventa nero di persone. E non sono belle persone. Lasciamo il Mediterraneo per quel che è. Un fossa comune in lutto stretto. Un carnaio senza nome. Noi facciamo gli spazzini. Non immischiatevi o vi sporcherete le mani.

Lei crede davvero a quel che dice?

Io ripeto quello che sento dire.

Angelo Monne

Lei trova umano questo traffico in mano ai mafiosi? È facile giocare ai buoni di cuore quando si lascia il lavoro sporco agli altri. Lei dev’essere francese, no?

Perché?

Per questo leggero sentimento di superiorità. I diritti e le libertà offerti a quelli rimasti indietro vi somigliano. L’elemosina degli spiriti superiori, la lezione illuminista. Mi dica, per curiosità, queste cose le insegnano ancora nelle vostre università? Che ne avete fatto dei grandi princìpi, del diritto assoluto di essere soccorsi in mare, del diritto d’asilo che addolcisce l’esilio, il diritto alla casa o di essere curati quando si è dispersi? Di essere accolti quando non si ha più niente? Aspettando, i contrabbandieri vi fregano. Le persone come lei sono incapaci di agire. Quando uccidete, lo fate con le nostre mani.

Che cosa le prende all’improvviso? Sono venuto per parlare, non per litigare.

Mi segua e guardi bene.

Cos’è?

Delle mappe trovate su un tuareg naufragato. All’interno di una cucitura doppia. I nostri doganieri, che lasciano passare tutto, non se ne sarebbero mai accorti. Le immagini dettagliate di parecchie chiese in Estremadura e nel sud della Francia. Nel cuore di villaggi isolati. Lei pensa che venisse a fare il turista davanti ai monumenti religiosi del duecento?

E questo cosa prova?

Guardi cosa aveva nascosto in fondo al suo sacco. In un sacchetto impermeabile. Un manuale di esplosivi. Una fune di sicurezza. Due coltelli. Le basta?

Le pecore nere ci sono sempre.

E formano un bel gregge.

Lo so.

Ma non fate niente. Io sì. È la differenza tra noi.

Potreste aspettare qualche indicazione in più su cosa fare.

E da chi? Dagli stati? Morti. Da Bruxelles? Morta. Dalla comunità internazionale? Più morta ancora.

Perché ripete questa parola: morte, morte?

Vede qualcosa di vivo qui intorno?

Di tuareg ne passano molti?

Ah, mi stupiva che non avesse reagito a quella parola. No, la rivolta la portano piuttosto verso l’altro lato, nel nord del Mali. Ma ce ne sono parecchi che ce l’hanno con voi perché avete lasciato linciare il leone libico senza preoccuparsi del loro destino. Qualcuno sogna fuochi d’artificio a casa vostra. Lo confessi: vi togliamo una bella spina dal piede.

Ma che tipo di uomo è lei?

Lo stesso suo. Senza l’ipocrisia che avete fatto diventare arte. D’accordo, le mie mani sono sporche, ma voi siete peggio, le mani non le avete proprio. Noi separiamo il mare dai suoi morti come il buon seme dal loglio, è tutto.

E queste scarpe le vendete?

Lei è un artista nel cambiare argomento durante una conversazione.

Non ho la sensazione di divagare.

Togliamo le scarpe ai naufraghi e se hanno un po’ di valore le recuperiamo. È stupefacente vedere questi miserabili talvolta vestiti come dei nobili, con abiti ben ripiegati nei loro sacchi, cravatte, scarpe di cuoio. Ragazzi vestiti a festa con ai piedi delle Nike farlocche nuove fiammanti. O scarpette da calcio nuove per quelli che sognano di giocare nel Manchester United. Sognatori.

Non so davvero cosa potevano credere. Da quando fa questo lavoro?

Quest’inverno sarà il terzo anno.

Ha cominciato d’inverno?

Sì. Me ne ricordo come se fosse ieri. Quella notte la cresta delle onde era bianca e dal vuoto tra le onde emergevano le maschere nere dei moribondi e dei morti. Una grande scacchiera.

E pensa di continuare a lungo?

Perché, cambierebbe qualcosa? Loro sono morti, io vivo. Faccio pulizia. Li intercetto. Finché ne arriveranno, io ci sarò. Sento che lei mi giudica. Invece dovrebbe incitarmi.

Cosa c’entro io?

Ha capito a cosa ci si abitua? All’inizio tutti questi morti in mare facevano titoloni sui giornali. I giornalisti venivano da tutta Europa. Si aggiravano intorno al mio banco in cerca di una buona storia. Mi ricordo di uno che voleva che gli raccontassi l’odissea di un uomo del Sahel disteso su una plancia di ghiaccio tritato con il viso ancora mascherato di alghe brune. Ho risposto che non ne sapevo niente. E lui che mettendomi biglietti da cinquanta euro sotto il naso insisteva perché inventassi qualcosa. Era pronto a pagarmi per le mie fandonie, purché sembrassero vere. L’ho cacciato come una mosca sulla merda. Ora giornali e tv se ne fregano di quel che succede qui. È da un bel po’ che da queste parti non vediamo giornalisti. Il cadavere africano non fa più vendere. A malapena si contano gli annegati, se sono neri. Sono diventati una specie di angolo morto. Niente da fare. Niente da dire. Senza che ci siamo messi d’accordo, in silenzio siamo diventati dei mostri.

E me lo rimprovera?

La sua cecità mi confonde. È già stato a Calais?

No, ma ho visto delle immagini, ho sentito delle testimonianze.

Io ci sono andato. Non a Calais. Nella giungla di Calais. Il fango. Campi inondati. Matasse d’acciaio di filo spinato. Le torrette di guardia. Le tende spazzate dal vento freddo o tagliate dai taglierini dei poliziotti. La fame. La disperazione da spaccarsi il naso davanti alle bianche scogliere di Dover. Le malattie. La nostalgia del proprio paese. Andate senza ritorno. Il cimitero dei rifugiati. E dimentico il meglio. Veni, vidi, vici.

Che sta dicendo?

Se lei fosse stato a Calais capirebbe. Basta imboccare i sentieri verso il mare per finire sul chilometro tutto nuovo del muro “anti-intrusione”. Impossibile non vedere questa meraviglia costruita dalla famosa azienda dei parcheggi, quella che diffonde anche musica di Mozart nei sotterranei ben sorvegliati delle vostre raffinate città francesi. Niente è troppo bello o troppo caro per proteggere le coste dell’Inghilterra dalla lepre migrante. Respinti a Calais. “Non li vogliamo a casa nostra”, dicono gli inglesi. E i francesi hanno risposto: d’accordo, quanto fa? Tre milioni di euro e il muro della vergogna è vostro. Veni, vidi, vici, gliel’ho detto.

L’altro giorno una donna ben messa, una straniera, è passata senza fermarsi davanti al bancone di uno dei miei amici del porto, Efaisto, con un bel rifornimento di pesci. Ha ancora qualche cliente per le orate. Ma è sempre più difficile. Ha gentilmente invitato quella donna perché buttasse un occhio alla sua merce. Lei gli ha risposto che non avrebbe mai più mangiato pesci del Mediterraneo.

E perché?

Perché si nutrono di migranti! Questa è stata la risposta. Incredibile, non trova? I pesci mangiano i migranti…

Io non so più cos’è incredibile, oggi.

Allora, mi creda, se ci rosicchio qualcosa la mia parte è ben più modesta.

Non si giustifichi. Non sono il suo giudice.

Allora chi è lei?

Un vile, tra tanti altri.

E cosa vuole da me?

Che mi porti con lei, questa notte. E che mi lasci là, nell’acqua nera.

E questo a cosa servirà?

Sarò con loro. Sarò al loro fianco.

E se poi la raccolgo nella mia rete?

Mi metta nel mucchio. Se domani mattina c’è un posto tra il maliano e l’eritreo, mi metta là.cm

Éric Fottorino è un giornalista e scrittore francese. Questo articolo è un estratto del suo podcast La pêche du jour, di Chora Media. Sarà presentato a Internazionale a Ferrara venerdì 30 settembre alle 19.00 nell’incontro Brandelli d’umanità, con Cristina Cattaneo, Mario Calabresi e Cesare Martinetti. © Éric Fottorino/Chora Media.

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Questo articolo è uscito sul numero 1479 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati