Diversi anni fa, mentre lavoravo a un progetto sulla memoria con un gruppo di giovani rifugiati somali che frequentavano la scuola d’italiano Asinitas di Roma, mi fu proposto di partecipare alla rubrica “Dizionario” del programma Fahrenheit su Rai Radio 3. Ogni settimana a un autore era chiesto di scegliere per cinque giorni una parola diversa, seguendo un criterio personale con la massima libertà. Poiché a scuola ci capitava spesso di discutere della difficoltà di tradurre parole e concetti tra somalo e italiano, la proposta di Fahrenheit mi sembrò molto ricca di possibilità. Presentai il progetto ai ragazzi e ai loro insegnanti, e lo accolsero con entusiasmo. Furono incontri piuttosto informali, nel corso dei quali ogni stimolo nasceva da una parola e, in qualche modo, dall’impossibilità di tradurla. Trovavamo termini che la sfioravano, che spesso ci portavano in dimensioni impreviste.

Una delle parole discusse fu il verbo partire in italiano. Fu molto emozionante sentire il racconto dei ragazzi sul momento in cui avevano preso la decisione di partire. Era qualcosa alla quale continuavano a pensare nel corso degli anni, come un’ossessione. Chiamavano questa ossessione buufis in somalo, dal verbo buuf, che significa gonfiarsi, scoppiare. Quasi nessuno parlava di un’unica causa, decidere di separarsi dalla propria casa è molto difficile, è come una sconfitta. Le persone che si trovano in questa condizione sono come possedute, perseguitate da spiriti. Andarsene è spesso qualcosa di repentino.

Christian Dellavedova

In somalo c’è una ninna nanna molto conosciuta, che una donna del nostro gruppo cantava: Hobey hobeeyaa / Ya hobey hobeyaa. Nel testo della ninna nanna c’era una parola che mi affascinò: carrabay, che significa partire nel pomeriggio. Si parte nel pomeriggio solo in caso di grave calamità, quando si è obbligati, perché partire di pomeriggio, in mezzo alla giornata, significa lasciare molte cose in­compiute.

Uno dei giovani che frequentavano il corso d’italiano si chiamava Farhaan. Il suo racconto era forse quello che ci colpiva di più, per le ripetute partenze, il suo pellegrinaggio da un paese all’altro, prima verso lo Yemen, poi verso il Sudafrica e infine verso l’Italia. Tra queste destinazioni lui tornava sempre a casa. Era come se il suo partire nascesse sempre contenuto dal desiderio del ritorno. La prima volta parte di pomeriggio: ha solo 15 anni e lascia Beled­weyne, la sua città, per salvarsi dagli scontri. Corre, corre per sessanta chilometri, mi racconta. Corre per 23 ore di seguito, poco meno di un giorno intero. Rimane in sospeso: qualche giorno dopo la guerra lo raggiunge anche nel paese in cui si è rifugiato. Per salvarsi si tuffa nel fiume e passa dall’altra parte. Alcune persone lo seguono, ma non ce la fanno e rimangono intrappolate nel fiume.

La grande causa per cui si parte è nominata solo a tratti, quasi uno scongiuro: è la guerra civile, dalgalka sokeeye in somalo. Lo scrittore Nuruddin Farah nel suo romanzo Legami, spiega così il significato di questa espressione: “Dagaalka sokeeye (…9. Dentro di sé, Jeebleh non riusciva a decidere come tradurre quella espressione somala: alla fine preferì il concetto di ‘uccidere un intimo’ a quello di ‘fare la guerra a un intimo’”.

Cuscino, velo e diario: questi oggetti sono stati simboli di quella fuga, di quella rottura tra la vita prima e dopo il conflitto, i talismani di una pratica di scrittura interrotta per molti anni

È molto interessante questa idea d’intimità insita nella violenza. Forse è anche la ragione del pudore, del motivo per cui raramente i ragazzi usavano quell’espressione.

Non dicevano guerra civile, ma burbur, che significa frantumazione. Mentre ero in mezzo a quella frantumazione, ho deciso di entrare nel viaggio.

Questo è quello che accade quando il disastro rivela il limite del linguaggio. Come dice la scrittrice sudafricana Gillian Slovo: “Il linguaggio è inadeguato a rappresentare esperienze così orrende che sembrano sfidare ogni comprensione”. Il linguaggio è capace di ricostruire un mondo spezzato dalla violenza? Una delle maggiori sfide che gli scrittori devono affrontare è quella di condividere esperienze traumatiche. Come James Dawes scrive nel suo libro That the world may know: bearing witness to atrocity, esiste una contraddizione “tra il nostro impulso alla necessità di rappresentare il trauma e l’istinto di proteggerlo dalla rappresentazione, da uno sguardo invasivo, una semplificazione, una dissezione”.

Quando ho lasciato la mia casa a Mogadiscio nel gennaio 1991, mio figlio era nato solo da pochi giorni. Lo adagiai su un cuscino e mi avvolsi in un ampio velo nero. Per un attimo pensai che non saremmo più tornati, così presi il mio ultimo diario, uno dei quaderni su cui avevo scritto con tanta dedizione per innumerevoli anni. Poche ore dopo casa mia fu presa d’assalto e saccheggiata. Cuscino, velo e diario: questi oggetti sono stati simboli di quella fuga, di quella rottura tra la vita prima e dopo il conflitto, i talismani di una pratica di scrittura interrotta per molti anni, sette, fino al viaggio (forse il più importante di tutta la mia vita) verso Zeist, provincia di Utrecht, nei Paesi Bassi.

Mi sembrava straordinario, non avevo preso un aereo per lungo tempo. Il volo era previsto per la mattina presto. Penso che fosse marzo o aprile perché mio figlio, che nel frattempo aveva compiuto sette anni, non andava a scuola per via delle vacanze pasquali. Mi vestii, vestii mio figlio addormentato e infine indossai le lenti a contatto. Ero ansiosa e di fretta, così per errore lasciai cadere la lente sinistra, senza più riuscire a trovarla. A quel punto avrei potuto tranquillamente mettermi gli occhiali, o almeno infilarli in tasca per poterli usare quando ne avessi avuto davvero bisogno, ma per qualche strano motivo (forse solo vanità) decisi invece di uscire di casa indossando solo una lente a contatto. La mia prima esperienza con la diaspora nacque segnata da questa percezione alterata: nitida e chiara da una parte, confusa dall’altra.

La miopia è un velo tra chi vede e il mondo esterno. Il velo offusca lo sguardo, ma allo stesso tempo l’occhio nudo è capace di cogliere i più piccoli dettagli, quando sono vicini. La scrittrice e filosofa femminista francese Hélène Cixous, nel suo saggio Veils, descrive l’esperienza di vicinanza e distanza in questo modo: “Non vedere è un difetto, miseria, sete, ma il non vedersi è verginità, forza, indipendenza. Non vedendo non poteva vedersi vista, ecco cosa le aveva dato la leggerezza della sua cecità, una grande libertà di abnegazione. Non era mai stata gettata nella guerra dei volti, viveva sospesa senza immagini, dove rotolano grandi nuvole indistinte”.

In che modo individui che hanno perso tutti i loro punti di riferimento rimettono radici, ricominciano una nuova vita? Il tempo e la distanza ci permettono di capire meglio come il passato conta per il presente? Posso dire che il viaggio a Zeist fu come il mio ritorno a casa, la mia casa mobile. È stato allora che ho riacquisito la capacità di scrivere. Ho scelto la diaspora come terreno della mia scrittura e i personaggi della diaspora portano dentro di sé questa rottura, un varco tra il prima e il dopo, una frontiera che racchiude qualcosa di molto prezioso: un segreto, un dettaglio, una radice. Forse per questo l’ultima parola che io e gli studenti di Asinitas abbiamo scelto è stata casa.

Ubah Cristina Ali Farah è una scrittrice e poeta italiana nata da padre somalo e madre italiana. Vive a Bruxelles. Il suo ultimo libro è Le stazioni della luna (66thand2nd 2021). Sarà ospite di Babel, festival di letteratura e traduzione di Bellinzona (15-18 settembre), come docente di L’altra lingua, laboratorio di scrittura nella lingua adottiva. babelfestival.com

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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati