28 ottobre 2014 16:37

Brano di Giovanni Fiandaca tratto da “La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa”, di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo (Laterza 2014).

Il tema della cosiddetta trattativa Stato-mafia suscita l’interesse del giurista sotto più punti di vista. Innanzitutto, sotto il duplice profilo della ricostruzione giudiziaria di vicende storico-politiche molto complesse, e della connessa possibilità di individuare ipotesi di reato ben configurabili in chiave tecnico-giuridica. Ma nel contempo, proprio perché si tratta di ripercorrere pagine drammatiche e aggrovigliate della storia italiana dell’ultimo ventennio, ecco che si ripropone il problema del rapporto tra prospettiva storiografica, da un lato, e prospettiva giudiziaria, dall’altro: il giudice e lo storico, anche quando indagano sulle medesime materie, sono portati ad impiegare – a causa della diversità di mestiere – criteri di giudizio in parte comuni, in parte divergenti.

Ai fini della mia analisi, quel che porrei immediatamente in evidenza è l’inclinazione dei giudici a ricostruire gli eventi storici come prodotto di azioni e decisioni individuali di soggetti ben determinati: è quel metodo di ricostruzione che fra gli storici prende il nome, non a caso, di “modello giudiziario”. Che siano i tribunali i progenitori di un tale modello, ormai da tempo caduto in crisi invece presso gli storici di mestiere, è più che comprensibile: per addebitare reati, dal momento che la responsabilità penale è “personale”, occorre infatti dimostrare che gli eventi in questione siano attribuibili a precisi soggetti che ne siano causa. In termini ancora più espliciti: i giudici, per giustificare indagini e avviare processi penali, non possono non partire dal presupposto (che è anche un “pregiudizio”) che nelle varie vicende indagate siano rintracciabili congiure, complotti, accordi criminosi, intenzioni dolose o colpevoli complicità di attori individuali da mettere sul banco degli imputati.

Ciò anche a costo – non di rado – di manipolare o forzare la lettura degli accadimenti; la logica del giudizio individualizzato di colpevolezza incontra, infatti, non pochi ostacoli proprio al momento di interpretare vicende storiche complicate che più verosimilmente rimandano a cause molteplici ed eterogenee. Per lo studioso di diritto, il processo sulla cosiddetta trattativa assume interesse sotto profili ulteriori, che si riferiscono allo stretto intreccio dell’approccio giuridico non solo con la dimensione storica, ma anche con quella etico-politica. È un previo giudizio di forte disapprovazione, politica e morale, dell’idea stessa di trattativa che fa da retroterra all’indagine giudiziaria: è questo – per dir così – fattore “pre-comprensivo”, che spinge l’organo dell’accusa a ricercare nelle vicende indagate una qualche forma di illecito penale. Ma l’ipotesi criminosa infine escogitata, cioè quella di violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato (art. 338 c.p.) si presta davvero al perseguito obiettivo di coniugare condanna etico-politica e condanna penale?

Come è noto, nei moderni ordinamenti giuridici il peccato o l’immoralità non costituiscono automaticamente un crimine. Per punire un fatto non basta disapprovarlo, ma occorre individuare una legge che lo configuri espressamente come reato (principio di cosiddetta legalità): come vedremo, proprio in base al principio di legalità penale è più che discutibile fare applicazione della specifica ipotesi criminosa congetturata dai pubblici ministeri. Ma vi è di più. Anche a prescindere dal problema tecnico-giuridico, non mi sembrerebbe potersi dare del tutto per scontata la stessa premessa di fondo sottostante all’ipotesi accusatoria, e cioè la tesi della assoluta inaccettabilità etico-politica di qualsiasi forma di possibile trattativa Stato-mafia. Questa assolutezza e intransigenza di giudizio assiologico, più che essere frutto di un moralismo astratto, risente verosimilmente di condizionamenti anche a carattere emotivo, spiegabili – tra l’altro – alla luce di un “paradigma vittimario”: nel senso che la magistratura, nel rifiutare pregiudizialmente l’accettabilità di ogni idea di trattativa, si fa carico di dare voce all’indignazione collettiva e al diffuso bisogno di risarcimento morale provocati dagli eventi stragistici del biennio ’92-’93. Eventi che, per di più, hanno gravemente offeso – anche simbolicamente – lo stesso ordine giudiziario per effetto degli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: a maggior ragione dopo l’uccisione di questi due magistrati valorosi e coraggiosi – per di più preceduta da una lunga catena di altri magistrati caduti sul fronte della lotta alla mafia e, prima ancora, su quello della lotta al terrorismo –, trattare con la mafia non può che essere giudicata una scelta moralmente vile ed esecrabile. Questa interazione tra condanna morale e paradigma vittimario è in larga parte comprensibile. Rimane tuttavia aperta la domanda, se e fino a che punto sia compatibile con i principi di fondo di un moderno Stato di diritto che la giustizia penale si atteggi in qualche misura a “giustizia delle emozioni”, sotto la prevalente angolazione dell’opinione pubblica e/o delle vittime dirette.

Questa prospettiva di attrazione in un paradigma vittimario accentua, inevitabilmente, le valenze politiche antagonistiche dell’indagine giudiziaria sulla trattativa – alimentando, nel contempo, nei movimenti o nei gruppi associazionistici antimafia (come, ad esempio, quello delle “Agende Rosse”) una accesa e fideistica tifoseria a sostegno dei magistrati dell’accusa: ogni eventuale critica, sollevata anche in base ad argomentazioni di stretto diritto, rischia di essere pregiudizialmente interpretata come l’ennesimo attacco sferrato dai nemici della verità. Una tale propensione – quasi compulsiva – a identificare il diritto e la giustizia soltanto con l’accusa e la condanna, e a reagire con sospetto e indignazione di fronte ad eventuali archiviazioni o assoluzioni percepite come scandalose, ripropone peraltro, nel settore specifico dell’antimafia, una questione di portata ben più generale: quella del livello di cultura ed educazione giuridica dei cittadini italiani (incluse le persone mediamente più colte) e della loro scarsa attitudine a comprendere e interiorizzare il valore irrinunciabile, per uno Stato di diritto, del garantismo penale.

Giovanni Fiandaca insegna diritto penale, di cui è uno dei maggiori studiosi, presso l’università di Palermo. Autore di un manuale di diritto penale edito da Zanichelli. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura e ha presieduto due commissioni ministeriali di riforma in materia di criminalità organizzata.

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