17 febbraio 2024 09:01

Negli Stati Uniti gli uffici sono sempre più vuoti. Secondo uno studio della Moody’s Analytics, nell’ultimo trimestre del 2023 è rimasto sfitto il 19,6 per cento dello spazio per uffici disponibile nel paese, in crescita rispetto al 18,8 per cento registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Il dato è leggermente superiore al record del 19,3 per cento risalente al 1986 e al 1991. In ogni caso si tratta del tasso più alto da quando la Moody’s Analytics analizza il mercato, cioè dal 1979.

Quest’evoluzione è innanzitutto una conseguenza della profonda trasformazione impressa dalla pandemia di covid-19, che ha favorito la diffusione del lavoro a distanza, scrive il Wall Street Journal. Negli Stati Uniti, tuttavia, la tendenza è più forte che in Asia e in Europa ed è accentuata dal fatto che nel paese c’è un eccesso di offerta di immobili destinati agli uffici. Una condizione che si rivela in tutta la sua drammaticità ogni volta che arriva una crisi. “Molti uffici costruiti negli anni ottanta o ancora prima faticano a trovare inquilini quando le aziende tagliano le spese o si trasferiscono verso immobili più moderni”, osserva il quotidiano. Ma mentre in passato il mercato si riprendeva appena l’economia tornava a correre, oggi gli esperti pensano che il problema sia destinato a durare a lungo a causa della crescente popolarità del lavoro a distanza.

Quello che sta succedendo negli Stati Uniti non è un problema limitato a un particolare segmento del mercato immobiliare. Dietro c’è molto di più: ci potrebbero essere ripercussioni sul resto del sistema economico, in particolare sul settore finanziario statunitense. Un anno dopo il collasso della Silicon Valley Bank gli investitori sono di nuovo preoccupati per le banche regionali, che hanno concesso un’enorme quantità di crediti ipotecari ai proprietari di immobili commerciali, crediti per giunta svalutati in seguito al rialzo del costo del denaro. Nel marzo del 2023 la Silicon Valley Bank, un istituto di medie dimensioni specializzato nel finanziamento delle startup tecnologiche statunitensi, è fallita a causa di una grave crisi di liquidità provocata da una classica corsa agli sportelli: i clienti della banca avevano cominciato a prelevare in massa i loro soldi. Da tempo i finanziamenti raccolti nel settore tecnologico erano in costante calo e, per far fronte alle spese delle startup clienti, la Silicon Valley Bank aveva deciso di vendere i titoli in cui aveva investito parte dei soldi depositati. L’operazione si era rivelata in perdita: in sostanza la banca incassava meno del valore nominale dei titoli, in gran parte obbligazioni a lungo termine. Questo squilibrio aveva messo in difficoltà le finanze dell’istituto, e la diffusione della notizia aveva fatto il resto, provocando la corsa agli sportelli e il quindi il crollo.

Questa volta non ci sono clienti sfiduciati che ritirano i loro soldi, ma una serie di insolvenze legate al settore degli immobili commerciali. “Nella prima settimana di febbraio”, scrive il New York Times, le azioni della New York Community Bancorp (Nycb) hanno perso il 60 per cento dopo che la banca ha registrato risultati pessimi e le agenzie di rating hanno abbassato il livello di affidabilità del debito. La causa principale è l’esposizione nel settore dei mutui sugli edifici commerciali”. Nel 2023, inoltre, la Nycb aveva acquisito la Signature Bank, una delle banche regionali crollate insieme alla Silicon Valley Bank. “L’operazione aveva fatto lievitare il suo patrimonio oltre i cento miliardi di dollari, ponendola in una categoria di istituti soggetti a controlli e requisiti di capitale più stringenti”.

Nel frattempo il Kbw Nasdaq regional banking index, un indice che segue le azioni delle banche regionali di media grandezza, è diminuito del 12 per cento. Presto la situazione potrebbe aggravarsi, conclude il New York Times, visto che tra il 2024 e il 2025 sul settore incombe la scadenza di mutui per 1.500 miliardi di dollari, molti dei quali a carico delle banche regionali. La situazione è complicata dal fatto che l’11 marzo 2024 terminerà un programma della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) che assicura prestiti agevolati agli istituti in difficoltà. La misura era stata introdotta un anno fa, dopo il crollo della Silicon Valley Bank, per scongiurare un allargamento della crisi.

I timori di questi giorni coinvolgono anche le banche europee e asiatiche che hanno investito nel settore. Coma la giapponese Aozora (con crediti per 1,9 miliardi di dollari sugli immobili per uffici di grandi città come Chicago e Los Angeles) e la svizzera Julius Baer, che tra l’altro ha dovuto iscrivere in bilancio enormi perdite a causa del fallimento del colosso immobiliare Signa. Molte banche europee hanno aumentato la loro esposizione in un mercato che vale seimila miliardi di dollari nonostante i segnali d’allarme.

Secondo la società di ricerche S&P Global, a metà del 2023 la spagnola Banco Santander, la svizzera Ubs, la britannica Hsbc e la tedesca Deutsche Bank avevano in bilancio crediti verso immobili commerciali statunitensi per 36 miliardi di dollari. Nelle ultime settimane, scrive la Neue Zürcher Zeitung, sono aumentati i sintomi di crisi intorno ad alcune banche tedesche.

“Nel 2007 proprio in Germania un piccolo istituto, la Ikb Deutsche Industriebank, anticipò il grande crollo dell’anno successivo”, sottolinea il quotidiano svizzero. “Fu come il classico canarino nelle miniera. La storia sta per ripetersi?”. La Deutsche Pfandbriefbank, una banca specializzata nel credito immobiliare, ha il 15 per cento del suo portafoglio impegnato negli immobili commerciali statunitensi. Dall’inizio dell’anno le sue azioni hanno perso il 25 per cento. Per gli stessi motivi è in difficoltà la Aareal Bank, le cui obbligazioni oggi valgono il 75 per cento del valore nominale. Nel novembre del 2023 l’istituto ha dichiarato che il valore dei crediti inesigibili sul mercato statunitense era più che quadruplicato rispetto al 2022.

Come un anno fa sia il presidente della Fed, Jerome Powell, sia la segretaria al tesoro Janet Yellen hanno dichiarato che il problema degli immobili commerciali è sotto controllo e può essere gestito anche se qualche istituto dovesse crollare. L’esperienza accumulata dopo la crisi del 2008 e le norme più stringenti in vigore oggi fanno pensare che anche questa volta le perdite potrebbero essere contenute e assorbite in breve tempo e senza gravi danni per l’intero sistema.

Ma, come faceva notare già un anno fa Greg Ip, opinionista del Wall Street Journal, è possibile che siamo davanti a “una crisi al rallentatore”, un processo corrosivo che, al contrario del 2008, non è caratterizzato da un’unica enorme deflagrazione ma da tanti piccoli episodi che si susseguono nel tempo. Insomma, potremmo essere davanti a una continuazione dei fatti avvenuti nel marzo del 2023.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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