Premiato per la miglior regia a Cannes, è arrivato nelle sale uno dei più raffinati e originali oggetti cinematografici di quest’anno, se non degli ultimi anni. Un’opera rara da vedere e rivedere più volte: Grand tour del regista portoghese Miguel Gomes, tra gli autori più importanti di oggi.
Film-sogno dalla grande raffinatezza e invenzione formale sulle posture e imposture coloniali, e non privo di satira, racconta la storia di un giovane uomo che fugge, Edward (Gonçalo Waddington), promesso sposo di Molly (Crista Alfaiate), una ragazza che lo insegue ai quattro angoli del mondo.
“Era quasi mezzanotte quando Edward entrò nella stazione ferroviaria di Mandalay”, e la ruota del luna park che nella notte calda è piena di gente in festa, ma del cui vociare non si sente nulla, è ipnotica quanto la voce fuori campo del narratore: un monologo che si salda al rumore meccanico della ruota, a sua volta confuso con quello del treno. Un suono che un tempo cullava i viaggiatori dei treni notturni, ormai quasi scomparsi in Europa. Fin dall’inizio Grand tour cerca di stimolare la dimensione mnemonica dello spettatore, un’evocazione proustiana e sognante, ma sempre ricondotta a un discorso di critica alla società di oggi o del passato, oppure di entrambe. Reminiscenze, per restare con Proust, che a volte assumono addirittura una valenza politica.
In realtà, il film è espressione del cinema d’autore della memoria, che fa del frammento apparentemente eterogeneo la sostanza in grado di creare nuove tessiture della materia cinematografica, intesa come materiale visivo da rigenerare, assorbendo in modo libero tutte le disomogeneità immaginabili. E spesso, soprattutto nel caso di Grand tour, il frammento è anche sonoro e non solo visivo, essendo il cinema l’arte della fotografia in movimento, così come dell’immagine in sincrono con il suono, dalle infinite sperimentazioni possibili.
Nel film di Gomes forse nulla è più sperimentato del suono, ma tendenzialmente fuori sincrono rispetto al registro visivo, pur trovando proprio grazie a questo – paradossalmente – una sua uniformità: quella dell’inizio era in realtà la registrazione del suono di un treno che corre sui binari sovrapposta alle immagini della ruota del luna park. Non solo. Lungo l’intera opera le immagini sono spesso fuori sincrono sul piano temporale rispetto alla narrazione, che scorre per i fatti suoi, coerente all’ambientazione di partenza nel passato: nel 1918 a Yangon, l’allora capitale della Birmania. Intanto però vediamo sequenze dallo splendido stile documentaristico con persone dagli abiti moderni così come moderne sono le auto. E colori che si alternano al bianco e nero, il serio al melodramma o alla farsa. Mentre i generi si incrociano e incespicano, sul piano formale il documentario prende il posto della finzione, che a tratti ha invece una chiara ambientazione nel passato, con costumi e scenografie d’epoca in sequenze non meno evocatrici delle altre, girate in teatri di posa a Roma o a Lisbona, in Portogallo.
Così, a splendide riprese frontali, contornate dal nero ma dai colori caldi, di uno spettacolo di burattini dal carattere simbolista, seguono sublimi carrellate laterali – come se la camera fosse sul piano di un treno che taglia in sezione il paesaggio – ma in bianco e nero, dal senso dello spazio e della profondità di campo strepitose. Qui si muove, in campo o fuori campo, Edward, che non ricorda cos’ha sognato. In ogni caso, “l’angoscia di quel sogno” lo accompagna, forse lo attanaglia. La vita come un sogno mal digerito. In questo film dal tono sempre dolce, come la voce materna che arriva al bimbo nell’utero, fluttuante e aereo come una nuvola, Gomes mostra allo stesso tempo tutta l’avvolgente dolcezza poetica, e magari anche l’artisticità, che poteva avere l’immaginario coloniale – avventuroso, comico o drammatico che fosse –, la sua pericolosa capacità di seduzione e la risibile attitudine dell’uomo coloniale, qui incarnato da Edward che, però, come un bambino, si lascia “cullare dai suoni della giungla”.
Ecco allora che il clima onirico – centrale nel film – e la fusione con le tematiche tipiche delle screwball comedies degli anni trenta e quaranta, in cui “la donna è una cacciatrice mentre l’uomo è la sua preda”, per dirla con le parole del regista, prendono un senso molto diverso: nella sua fuga continua si delinea dall’inizio alla fine l’immaturità congenita dell’uomo coloniale, splendidamente incarnato da Waddington grazie al suo volto di macho perennemente trafitto dall’incertezza. A cui fa da contrappunto continuo la dolcezza intelligente, pervasa da malinconia, portata sullo schermo, in modo sempre brillante, da Alfaiate.
Lo spaesamento, l’effetto straniante e la perdita dei punti di riferimento sono totali e la forma del film ne è lo specchio continuo: poiché, tornando alla sequenza iniziale – in bianco e nero e nel mondo di oggi – si passa da una visione negli spazi aperti di povertà contemporanea, che potrebbero però essere gli stessi dell’India del passato coloniale, subito prima di vedere rappresentata la modernità. Come a dire che il piano sequenza in carrellata laterale che rappresenta l’oggi contiene a sua volta il passato e presente, e che anche senza colonialismo, per la maggioranza delle persone niente è cambiato. Il tutto in una sola sequenza, o anche in un suo frammento.
Così, seguendo le tante microavventure di un matrimonio fallimentare quanto l’avventura coloniale, gradualmente appare chiaro quale sia il grand tour evocato dal titolo e quanti ne contenga al suo interno in ogni sequenza: non solo quello esplicito ed esteriore che ci fa passare dalla Birmania a Singapore, passando per la Thailandia, il Vietnam, le Filippine e il Giappone, fino alla provincia del Sichuan, in Cina. Il grand tour è anche interiore, interno al cinema stesso, in cui ogni cosa è magnificamente unita dal montaggio: tutte le distanze fisiche e geografiche, così come quelle mentali e interiori, documentando il mondo di oggi e rievocando quello di ieri attraverso la trasfigurazione poetica dell’immaginario.
Lo spettatore ha davanti a sé la possibilità di cogliere un momento fondamentale del cinema contemporaneo. Perché il film di Gomes incrocia alla perfezione una tendenza in corso oggi, che fa dell’eterogeneità radicale delle forme cinematografiche un unicum e una ricchezza, quasi come fossero altrettante etnie proprie all’umanità riunite in un corpo solo, e che ha forse nel cinema d’autore italiano degli ultimi anni il manifesto. Quello di Pietro Marcello, che non a caso mette sempre al centro delle sue storie figure anarchiche e all’apparenza anacronistiche, sia nei documentari di poesia Il passaggio della linea (2007), Bella e perduta (2015) e soprattutto La bocca del lupo (2010); sia in opere di finzione come Martin Eden, premiato a Venezia nel 2019, e Le vele scarlatte, presentato a Cannes nel 2022.
Ma anche quello di giovani autori come Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis e del loro sorprendente Re Granchio, presentato a Cannes nel 2021. O quello di Sara Fgaier, per anni montatrice di Pietro Marcello, proprio in questi giorni nelle sale con Sulla terra leggeri, un’opera profonda e di grande delicatezza. E quello di Alice Rohrwacher, in particolare il suo l’ultimo film, La chimera, presentato in Concorso a Cannes nel 2023.
Qui in Europa bisogna citare anche il cinema portoghese, in particolare quello di Miguel Gomes e della trilogia di Le mille e una notte, presentata con successo a Cannes nel 2015, e prima ancora del magnifico Tabu (2012), che forse per certi aspetti si avvicina di più a Grand tour. È una cinematografia che ricerca una dimensione primigenia del cinema, una purezza del vedere che parte però dall’accettazione della diversità. E che trova il suo corrispettivo in Estremo Oriente, a cominciare nelle opere di maestri pluripremiati nei grandi festival come il cinese Jia Zhangke o il tailandese Apichatpong Weerasethakul. Mentre invece, per la dimensione onirica e notturna in cui versa il registro documentaristico nel film di Gomes, non si può evitare l’accostamento con All we imagine as light – Amore a Mumbai di Payal Kapadia, premiato anch’esso a Cannes. Non è un caso. Perché alla fine, ci dice questo Grand tour, la vita, dietro le apparenze e le differenze ingannevoli, è solo un unico gigantesco grande sogno.
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