10 giugno 2016 18:12

Il cinese Jia Zhang-ke è tra i pochi registi contemporanei che possano ambire a far parte delle grandi figure del cinema d’autore del passato ed è ancora troppo poco conosciuto da noi anche se ultimamente le sue opere arrivano in Italia con regolarità. Persona semplice e umana che viene da una famiglia di operai e contadini, quando parla di un milione di operai che si suicidano per le riconversioni industriali, parla di ferite per lui drammatiche. Ma il suo cinema intenso e delicato riesce a porsi in prossimità degli esseri umani filmati pur praticando spesso l’arte della messa a distanza della camera.

Zhang-ke è un vero maestro nell’ibridazione degli elementi più disparati, dal cinema di Antonioni (il regista con maggior influenza sul cinema d’autore in estremo oriente) a quello opposto di Rossellini, passando per il pop delle canzoni cinesi anni ottanta o per la Cina delle costruzioni monumentali, opposte alla povertà o all’umiltà della vecchia Cina. O ancora scelte di regia prossime alle installazioni o alla videoarte innestate su riletture neorealiste: fantasie o epifanie digitali immesse in un registro neorealista.

Ma il kitsch, a volte più, a volte meno, domina sempre. Come in Al di là delle montagne, presentato in concorso a Cannes nel 2015. Per citare solo qualche elemento iniziale, il cappotto rosso, l’automobile rossa, i giocolieri vestiti con abiti dai colori tra rosa, verde e rosso. Insomma il rosso fiammeggiante sfiora il kitsch e crea squarci visivamente seducenti in una Cina che altrimenti sarebbe grigia. Da sempre il cinema di Jia Zhang-ke registra l’avvento di una sorta di pop-kitsch cinese, rappresentato come parte integrante dell’ideologia dell’attuale potere di Pechino, obnubilante e omologante quanto fascinoso e ipnotico, tanto sul piano sonoro che visivo.

Per esplicitare l’occidentalizzazione galoppante questa volta ci sono i Pet Shop Boys. Ma non sono soltanto le musiche che la gente comune fischietta, ci sono oggetti e luoghi simbolo, virtuali e di paccottiglia, simulacri del postmoderno che si spaccia per moderno sovrapponendosi violentemente a modi di vivere ed economie sedimentate nel tempo quanto nell’umano. Tra questi un simbolo paradigmatico è il telefono cellulare.

Siamo a un riassunto, a un incontro-scontro di varie epoche, non solo della Cina, ma della filmografia del regista

Qui abbiamo tre formati cinematografici, tre tempi della storia, di cui uno nel futuro. Fin da Xiao Wu (1997), il film d’esordio, si parlava del presente, un presente rurale e cittadino in mutazione e mai finito (dall’autostrada incompiuta di Unknown pleasures all’infinità di palazzi demoliti, costruiti, abbandonati di Still life, Leone d’oro a Venezia nel 2006). A partire da The world (2004), capolavoro spartiacque del regista ambientato in un parco che ospita miniature di monumenti, comincia a profilarsi una dimensione asettica e levigata del futuro. Ecco il perno di questo film. Siamo a un riassunto, a un incontro-scontro di varie epoche, non solo della Cina, ma della filmografia del regista.

La prima parte del 1999 è nel formato striminzito del 4:3. Striminzito come il cinema delle origini e dei primi film del regista, e striminzito come una piccola abitazione di un contadino o di un operaio. Sono molto importanti le date nel film poiché è fondamentale il tempo: siamo a un passo (allora) dal futuro, alla vigilia del recupero di Macao e a due anni dal passaggio di Hong Kong alla Cina. Nella seconda, ambientata nel 2014 (anno di produzione del film) finalmente lo spazio si allarga, e ce n’è apparentemente anche per la speranza.

Nella terza parte siamo nel 2025 e si arriva a un formato da cinemascope, il rosso scompare, ci si sposta dalla Cina all’Australia, sembra di essere in un’elegantissima e colorata astronave, quasi un iper-Antonioni. Come sempre il regista trasfigura magnificamente il postmoderno, anche grazie a due collaboratori ricorrenti: il direttore della fotografia, Yuk Lik-wai, e il musicista elettronico Lim Giong (che divide con Hou Hsiao-hsien).

Tao e Dollar

Se c’è un po’ di schematismo metaforico, Tao è il nome della donna che resta in Cina mentre Dollar è il nome del ragazzo che cresce in Australia. Zhang-ke riesce però a creare veri momenti di poesia, pieni di tenerezza sulla solitudine e sulle occasioni mancate. Sono sequenze apparentemente semplici, come Tao che guarda incantata e dolcemente malinconica la neve che si scioglie sul fiume. Oppure la lenta carrellata all’indietro nell’ospedale spoglio dopo la morte del nonno, per significare l’assenza nella sua dimensione invisibile e assieme prosaica. O il teatrino, che richiama quelli ambulanti di una volta, durante la cerimonia funebre del nonno, quest’ultimo simbolo di una vecchia Cina in dissolvimento. Come sono forti i momenti con Lianzi, il delicato minatore malato di tumore, a cui Tao aveva spezzato il cuore preferendogli l’amico imprenditore.

E quando Dollar conoscerà a sua volta l’assenza, piangendo al ricordo delle chiavi rosse lasciategli dalla madre, lei stessa un ricordo in dissolvimento. E infine quando Dollar annuncia al padre che non vuole studiare: quasi un ciclo che si chiude poiché quella che cerca è una vita più semplice e autentica. Forse ingenuamente o confusamente sovverte il nuovo ordine delle cose: “Il tempo cambia tutto. Questo mi ha insegnato il tempo”, dice a Dollar l’insegnante di cinese.

Jia Zhang-ke mette in relazione questi elementi con il suo cinema, con la sua rivisitazione del postmoderno. La dimensione eterea del design dell’immagine, la luce bianca in cui sono immersi gli ambienti, sono il compimento di una lettura affascinata e non manichea della postmodernità con il suo kitsch. Pur mantenendo chiare le gerarchie sociali ed estetiche, Zhang-ke cerca da sempre l’invisibile. Cerca l’astrazione dell’antica pittura cinese per cogliere l’attimo in cui si riesce a sentire profondamente l’altro, si riesce a sentire il nome di una madre/filosofia (Tao) sibilato nel vento o si riesce a vedere un fugace ufo diurno che scivola veloce nel cielo neorealista di Still life.

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